sabato 28 aprile 2012

La pecora, di Luigi Panzardi

Un racconto che è uno schiaffo al cuore.

                   Foto da web

             La pecora

               di Luigi Panzardi





La strada a T: via san Domenico. In salita. Corta. Entrandovi da piazza San Giovanni si ha subito la vista dell’edificio a due piani, macilento e antico di almeno sessanta anni. Visto dal basso, l’occhio scorge dapprima il parapetto smerlato che circonda il terrazzo e poi, intristito, i due balconi con persiane d’un verde scolorito ed ulcerato come un lebbroso. Alla persiana di destra, quattro stecche sono appiccicate con nastro adesivo marrone, a quella di sinistra ne mancano alcune e il buco è nero, triste e povero. Le inferriate sono arrugginite e tra i ferri non vi è nessun vaso e fiore a far capolino.

Al primo piano spiccano invece il verde fresco degli infissi e i vasi pensili tracimanti fiori. Fili bianchi, luccicanti, sono tesi da una estremità all’altra dei ferri. Appeso ad essi un lenzuolo bianco, come il cielo coperto da un velo di nuvole, oggi svolazza sopra il portone che è grande, di legno marrone, chiuso. Tranne che per una porticina a cupola, intagliata nella robusta superficie legnosa, sempre aperta per via della serratura rotta, e attraverso la quale spesso entrano persone che lasciano l’urina negli angoli, da dove s’alza un fetido puzzo.

All’interno del portone, nella penombra, sui primi quattro gradini, quelli che portano al pianerottolo da dove parte la rampa che sale ai piani, sta Lucia. Nella posizione della pecora. Poggia i piedi sul pavimento, il palmo delle mani sul quarto gradino. A vederla così si ha la certezza che l’hanno piegata per avere un più comodo accesso al suo corpo. Ed è ancora in quella posizione, come pecora che brucata l’erba sta ferma a meditare sul ciglio di un burrone.

L’aspettavano nel portone, al buio. L’hanno posseduta in quattro. In tutti i modi.

Lucia ora è sola. Con i suoi sedici anni, non più vergini. Ha ancora la fronte poggiata sul dorso della mano, di cui sente il profumo lasciato dalla saponetta comprata al mercato rionale. Sente il dolore vivido attraversare il suo corpo. Sente le cadenze dei loro canili guaiti. Come se fossero ancora su di lei.

Durante quell’orgia ha sentito il cigolio di un uscio che si apriva, per un attimo ha sperato in un aiuto, ma lo stesso cigolio si è ripetuto dietro il silenzio, segno del richiudersi spaventato della porta.

“Aiuto!” Ora la riconosce: è la sua voce che le ritorna all’orecchio, come dal fondo di un dirupo, lacerata dalle rocce, disperata. Sente sé stessa sospesa sul dirupo, priva di risorse. Percepisce il corpo come trasfigurato in quello di un animale, che caracolla nell’imminenza di precipitare nel vuoto.

Sopra di sé ancora, il cigolio di un uscio le ricorda la realtà. Sente lo sfregare incerto di ciabatte sul pavimento, il tonfo dei passi che scendono sui gradini di pietra. La sente sedersi, ne percepisce l’odore buono e familiare, il calore del corpo.

E’ la nonna Maria che le prende con delicatezza il capo e se lo poggia sulle ginocchia magre e vecchie. Le accarezza i capelli biondi, vellutati.

I genitori di Lucia sono divisi e lontani. La madre si guadagna da vivere a Calolziocorte, come cameriera in un albergo. Ogni mese le manda un po’ di denaro. Il padre a Copenaghen, operaio, spedisce mensilmente alla nonna una somma più consistente. Nulla di più. Niente abbracci e baci, né carezze la sera prima di coricarsi, né consigli per la giornata di domani.

- Ho chiamato la polizia – dice la vecchia lisciandole i capelli neri.- Li ho visti, li ho riconosciuti. Li possiamo denunziare, se vuoi.

Lucia finalmente solleva il capo e fissa negli occhi la nonna debole di ottantaquattro anni vissuti in miseria e fame. Vede in quegli occhi grigi paura e rassegnata stanchezza .

- Temo per te, lo sai. Qua così si vive. E’ il più forte che detta legge e gli altri a testa in giù come pecore. Zitti. E noi siamo sole.

La sente parlare, a singhiozzi. E pensa, Lucia, alle sue amiche cresciute con lei in quel borgo, seviziate come lei per tutti i santi giorni, fin dalla nascita, tormentate dai bisogni sempre inappagati, dai desideri sempre pencolanti, come frutti posti troppo in alto per poter essere raccolti, sempre sulla strada per le case troppo piccole a contenere il loro entusiasmo fanciullesco, alle gare in bicicletta tra le macchine parcheggiate in divieto di sosta e tra i passanti minacciosi sui marciapiedi. Questo pensa Lucia, quando un rumore affrettato e pesante di passi alle sue spalle la distraggono. Gira il capo e vede due uomini in divisa che la guardano, ostili, le sembrano. Allora finalmente si ricorda del suo corpo di pecora, a fatica si alza e poi si siede al fianco della nonna.

- Allora? Che è successo qua? – chiede bruscamente un poliziotto.

Lucia lo guarda senza paura. Un’idea all’improvviso le si è ficcata nel cervello. Suggerita anche da quelle divise. Bisogna seguire la corrente: rispettare l’omertà, le leggi imposte dalla malavita del borgo, di quel mondo vermicolante, per ricavarne vantaggi. Riflette rapidamente, quasi avesse le vertigini: “Io sto zitta: loro mi pagheranno il silenzio. In denaro e in rispetto.”

- Qua non è successo proprio niente – risponde al poliziotto, con un beffardo sorriso.

- Chi ha telefonato allora?

- Mia nonna. Me l’ha detto lei. Poverina, vede poco e sente male. Deve aver scambiato i sorrisi per pianti.

- Se volete denunciare qualcuno vi portiamo al commissariato – dice l’altro poliziotto.

- No, non dobbiamo denunziare niente. Chi dobbiamo accusare se nessuno ci ha fatto del male?- risponde in fretta Lucia, ormai decisissima a fingere, per sempre.

- Ha ragione mia nipote. Mi sono sbagliata. L’ho vista con dei ragazzi, non so perché, mi sono spaventata. Alla mia età, vivere da sola, la debolezza… La paura si attacca addosso, come un’altra pelle.

- Va bene, diciamo che l’allarme è nato da un equivoco – conclude il primo poliziotto, poco convinto, ma impotente per quelle dichiarazioni così definitive. – Possiamo andare, allora?

- Si, qua è tutto a posto. Scusateci tanto per il disturbo – dice Lucia fissando gli occhi nel vuoto della penombra.

- Per carità, è dovere!

I poliziotti, con calma pensierosa, esitano un attimo sulla soglia del portone, poi spariscono.

Lucia si volta a guardare la nonna che la sta osservando.

- Figlia mia – dice la vecchia abbracciandola, - perché non hai detto quello che ti è successo? Ti ho vista così decisa da non sentirmela di contraddirti. Ma sei sicura d’aver fatto bene? Perché non vuoi denunziare quei delinquenti?

- Nonna, siamo io e te! sole! I miei genitori lontani, con i loro problemi, io minorenne, tu anziana e debole: dove vuoi trovare la forza di far la guerra a questo ambiente? Questi si coalizzerebbero, direbbero tutti assieme che siamo due matte visionarie. E poi ci minacceranno. Io sarò additata come la ragazza facile, goduta da tanti, una disgraziata che getta fango su bravi ragazzi. Al contrario, il mio silenzio costringerà quei quattro farabutti a non vantarsi con gli amici della loro porcata. Ricatterò i loro parenti. Vedrai che saremo anche rispettate, perché in questo ambiente l’omertà è una virtù preziosa che si ripaga con stima e denaro.

Lucia ora si scioglie dall’abbraccio della vecchia, che sembra più tranquilla, le prende una mano e l’aiuta a salire al secondo piano, dove abitano. Ad ogni gradino, conquistato con lenta fatica, la nonna Maria si congratula in cuor suo con la nipote. Pensa: “E’ una ragazza intelligente, è furba, ha capito subito come si vive. Se avesse accusati quei delinquenti! Quanti guai. Come sarebbe andata dal salumiere, domani che si sentirà meglio, a chiedere l’aranciata e l’acqua minerale? Io potrei vivere senza quelle povere bevande? Mi sono tanta abituata che guai a mancarmi! Quell’uomo l’avrebbe cacciata dal negozio a calci, anche a pagargliela la merce. E come sarebbe andata in merceria a comprare le mutandine? Quella donnaccia della merciaia l’avrebbe fatta scappare dal negozio con calunnie e parolacce. E che vocabolario tiene in bocca, quella pazza!” A metà scala si ferma il passo e il pensiero della vecchia. E’ stanca e affannata. Davanti, la porta del primo piano è inesorabilmente chiusa. Tornatele regolare il respiro, riprende a salire e a pensare. “Lì pure abitano persone furbe come Lucia. Il macellaio forse le avrebbe data la carne tenera, l’unica che riesco a masticare con le gengive, ora che non ho più denti? Solo il farmacista le avrebbe date le medicine, forse, e il prete un cero, pregando per la nostra morte. Tutti sono in combutta. L’avrebbero scacciata la puttanella, quella che prima si fa sbattere e dopo accusa ingenui ragazzi. E’ proprio vero, è una bimbetta molto furba la mia nipotina! Magari anche i suoi genitori fossero stati altrettanto, ora non sarebbero raminghi per il mondo, a chiedere l’elemosina. I gradini sono finiti, finalmente. La nonna si appoggia con tutte e due le mani: la sinistra su Lucia, la destra sulla ringhiera polverosa; con la bocca aperta cerca di acchiappare quanta più aria le è possibile. Lucia la sente fredda quella mano sulla sua spalla, sente il duro delle ossa. Guarda la porta sgretolata della sua abitazione. All’improvviso si sente sperduta in una solitudine oscura. Il corpo della nonna le appare come un’ombra ostile. Si sente tradita e sente d’aver tradito i suoi genitori. In quello stato di immobilità, nella penombra delle scale, sente già le prime unghiate dei rimorsi, coi quali intuisce che dovrà rassegnarsi a convivere e a far tacere, lacerando ogni volta quell’immagine pulita che s’era fatta di sé, costruita così chiara e dorata dalla sua giovane fantasia. Stranamente le viene di vedersi pecora sotto un cielo bianco.

Entrano in casa; il cigolio accompagna il chiudersi della porta alle loro spalle.


Magari in un’ora del pomeriggio, di Davide Valecchi



Magari in un’ora del pomeriggio

di Davide Valecchi

Fara Editore


Poesia silloge

Collana Sia cosa che

Opera vincitrice del concorso Faraexcelsior 2011

Pagg. 68

ISBN 9788897441052

Prezzo € 11,00









Adagio malinconico







“Magari in un’ora del pomeriggio / anche nel luogo dove sei adesso / sopra le pietre più esposte si posa / un annuncio della fine del giorno: / …..”





Sono i primi versi della poesia che dà il titolo all’intera silloge, strutturata in tre capitoli (La convalida del tuo sguardo, I laconici giorni / Stagioni irripetibili) in un unico tema che ripercorre l’andare del tempo, misura e sensazione dell’esistenza.

In effetti, più che raccolta tematica, l’unicuum è tale da far pensare a un poemetto, realizzato con particolare cura, con attenzione ai particolari, con una metrica coerente pur se l’impressione è sovente di leggere una prosa poetica, d’eccellente fattura, con artifizi creativi che in un ritmo costante, quasi un adagio, compone una sinfonia di voci, di suoni e di parole che non può non lasciare indifferenti ( Il giorno muore senza neanche un suono /  che si avvicini ad una tua parola / e questa voragine che non vedi / inghiotte i ricordi di luoghi appena / intravisti ma subito perduti. /…).

E’ un fraseggio composto quello dell’autore, intriso di una vela malinconica che, senza indulgere alla tristezza, si offre al lettore come ancora di salvezza, come rifugio di una ritrovata consapevolezza dei limiti umani che non porta a rassegnazione, ma che cala dentro impercettibilmente inondando di serenità.

Le immagini, gli stati d’animo, la paesaggistica e la natura nel suo complesso, una natura non nemica, ma da cui cogliere gli aspetti che più riflettono il proprio sentire, fanno da contorno e anche da sfondo a uno svolgimento lineare che, senza pervenire a eccessivi approfondimenti, trova tuttavia una sua convinta filosofia, scevra da orpelli linguistici e da inutili barocchismi, e che si trasmette con immediatezza. Si stabilisce insomma fra autore e lettore quella corrispondenza inconscia che non viene meno neppure quando, arrivati all’ultimo verso della poesia conclusiva, si chiude il libro e lo si ripone. Resta infatti quest’aura di comunione, quest’atmosfera impalpabile in cui si finisce con il ritrovare non poco di noi stessi, una sensazione gratificante che solo un’opera di eccellente livello può garantire.





Davide Valecchi è nato a Firenze nel 1974. È un grande appassionato e cultore di poesia italiana del Novecento e contemporanea. Ha una laurea in Letteratura Italiana con tesi su Maria Luisa Spaziani. Sue poesie sono apparse in riviste (cartacee e online) e in vari blog letterari. Nell’aprile 2011 una sua poesia, accompagnata da un video, ha vinto il premio Poesia in Video presso il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. Polistrumentista, è attivo come musicista fin dall’adolescenza: ha fatto parte di numerose band spaziando in generi musicali diversi: rock, metal, new wave, sperimentazione, elettronica. Attualmente è impegnato con due formazioni: Video Diva (new wave, rock, elettronica) e Downward Design Research (elettronica, ambient, industrial). Con lo pseudonimo di aal (almost automatic landscapes), a partire dal 2001, ha intrapreso un percorso di ricerca sonora in campo elettro-acustico, concreto, elettronico e ambient, pubblicando lavori per varie etichette italiane ed internazionali.

L’attività poetica e quella musicale sono profondamente interconnesse.
Web: davidevalecchi.blogspot.com





Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 28 aprile 2012


I miei consigli odierni:
































domenica 22 aprile 2012

Estasi, di Franca Canapini


E’ tratta dalla sua ultima silloge, la cui recensione è contestuale alla presente.




                                                                      Foto da Internet
                                                                         

Estasi

di Franca Canapini



Chiudimi tra le tue grandi braccia

Padre

che possa infine smemorare

nel tuo amore;

ho piedi pesti, testa dolente,

cuore grande;

non ti guardo, vedi?

La tua luce non saprei sopportare.

Ma tu

avvolgimi di calore

cullami

che mi possa addormentare.

Sarò la tua vite sanguinante

- guardavo con invidia

tutto quell’amore -

Dici che ti sono figlia ed io ti credo

la mia resa è la mia ascesa.

(da Tra i solstizi –

Aletti Editore, 2011)





Come colonna sonora ecco il preludio del Parsifal:







Tra i solstizi, di Franca Canapini



Tra i solstizi

di Franca Canapini

Aletti Editore


Poesia

Collana “Gli Emersi – Poesia”

Pagg. 80

ISBN 978-88-6498-886-3

Prezzo € 12,00





Chi sono, da dove vengo, dove vado?







Non è un caso il titolo, perché il periodo intercorrente fra il solstizio d’estate e quello invernale è un lasso di tempo del tutto particolare, nel corso del quale la natura prorompe al suo massimo splendore, per poi declinare progressivamente e spegnersi coi rigori del dicembre.

Già, la natura, sempre la natura, fonte d’ispirazione come se bastasse darle un’occhiata per approdare a nuove idee, per aiutarci in quella spesso inconsapevole ricerca dell’assoluto.

Ma la natura non sono solo gli alberi, il cielo o comunque quanto ci circonda, la natura siamo anche noi, piccoli esseri che attraversiamo le stagioni della vita con gli occhi sempre più rivolti all’indietro mano a mano che ci avviciniamo all’ultimo solstizio, in cui il nostro sole interno, già acciaccato dagli anni, silenziosamente si spegne.

Franca Canapini, con queste poesie, in effetti ha compiuto un percorso, dentro se stessa, una ricerca di qualche cosa che si intuisce, ma mai si materializza; è un tentativo normale (chi non l’ha mai fatto?) di un approccio con il divino, attuato con l’osservazione non cosciente di tutto ciò che gira intorno a noi, con un abbandono completo del proprio corpo, svincolato da tensioni e grigiori quotidiani, per pervenire a quella levità che permette di galleggiare in un tempo sospeso, in cui siamo e non siamo, in cui quel che vediamo i nostri occhi mai hanno potuto prima scorgere.

Sono poesie di sensazioni, di colori, a volte tenui, altre più accesi (Ancora si piega il gelso delle more / in questa immobilità verde /  e gialla e rosa e rossa / appena mossa da fremiti / e alati pensieri di timore. /…), di vita, fra alti e bassi, fa rese e riscosse, tutto un percorso dell’esistenza visto dall’alto, distaccato, in un senso del divino, ovviamente personale, ma che ha il presupposto, indispensabile, dell’astrazione completa, dell’osservazione da un vetro senza poter esser visti, e non è un caso se a volte presenzi un misticismo, per nulla di maniera, una sorta di afflato inconscio con ciò che a tentoni si cerca, si avverte, senza poi poter toccare (Chiudimi tra le tue grandi braccia / Padre / che possa infine smemorare / nel tuo amore; /…).

E la ricerca non può prescindere dal passato, che lento riaffiora per dare consapevolezza del presente e, soprattutto, una fune sicura a cui aggrapparsi, da tenere stretta stretta, in un viaggio nell’ignoto (Verrò in un giorno di vento / scuoterò i rami di memoria / tornerò al tronco / sospeso sopra il fosso / mi cercherò in quella / nostra terra. /…).  Chi sono, da dove vengo, dove vado? Tre domande che accompagnano il viandante, di cui invano attende la risposta certa, tre domande a cui nessuno può rispondere, se non calandosi in se stesso, scendendo sempre più giù nel proprio io, dove l’energia vitale dell’anima è il soffio del Divino.

Coraggio, il viaggio è appena cominciato e già abbiamo i primi resoconti, taccuini di versi che si srotolano, traspaiono di allegrezza e di malinconia. Ancora tanto c’è da camminare, immagini, intuizioni, ricordi, emozioni da fermare con le parole, un messaggio per chi poi verrà dietro, passo su passo, una ricerca infinita senza mai approdare.

Leggete, viaggiate con Franca, scoprite, attraverso lei, un po’ di voi.





Franca Canapini è nata a Chianciano Terme (Siena). Vive, con la sua famiglia, ad Arezzo ed insegna Lettere in una scuola media della città. Alcune sue poesie sono state pubblicate nel 2004 nell’antologia di poesia contemporanea Fermenti - Libroitaliano World. Nel 2010, essendo risultata vincitrice del Premio Internazionale di Poesia Jacques Prévert 2009, le è stata pubblicata dalla casa editrice Montedit la raccolta Stagioni sovrapposte e confuse, che ha ottenuto il terzo premio ex-aequo Tagete 2010. Suoi lavori si trovano in alcune antologie (Il Giardino dei Poeti, 2008; Il Club dei Poeti, 2009; Il giro d’Italia delle Poesie in cornice, 2009; Città di Melegnano, 2010; Premio Casentino, 2011; Verrà il mattino ed avrà un tuo verso - Aletti, 2011) e riviste di poesia (Poeti e poesia-Pagine, n.21, 2010), in vari siti e blog culturali (Poetare.it, Arteinsieme.net, Achilleion.com, Il giardino dei poeti.iobloggo.com) e nel suo blog personale: cheneps.iobloggo.com



Recensione di Renzo Montagnoli


MondoBlog del 22 aprile 2012


MondoBlog





I miei consigli per questa domenica:




















Satana dov’è? Lo trovate qui.








sabato 14 aprile 2012

La Villa sull'Etna, di Enzo Maria Lombardo

                                                                  Foto da web


La Villa sull’Etna

di Enzo Maria Lombardo



Addossato alla balaustra del giardino l’avvocato Luigi Liguori guardava lo strapiombo nero maculato di verde, lucido per le piogge recenti di un inizio umido d’estate, annunciata da folate di vento caldo e smentita da improvvisi acquazzoni e seguiva con lo sguardo i ruscelletti che si insinuavano tra le rocce di lava, stagnando qua e là a formare piccole pozze grigio argento.

In basso, lontana, confusa dalla leggera foschia, s’intravedeva Catania ed il mare immobile, abbracciato dalla distesa di tetti rossi, dalle cupole e dai bianchi riflessi dei palazzi nuovi e, più a destra, dalla lunga pennellata di sabbia della Plaja che si perdeva, lontano, nell’azzurro indistinto del cielo e del mare.

Girandosi, da quella prospettiva, Liguori poteva vedere, più su, a monte, tra i tornanti della provinciale, le altre ville, simili tra loro nel voler sembrare ad ogni costo arabeggianti, bianche come cumuli di neve tra il nero della montagna ed le radi siepi di ficodindia, tutte disabitate in quel periodo dell’anno.

Tutte abusive – mormorò Liguori a denti stretti – e manco belle. La volete la villa sull’Etna? E allora fatevela, santissimi, ma fatela bene! Tanto, qua non c’è né re né regno. Terra di nessuno è!” Il mormorio si perse in un mezzo sorriso quando riportò lo sguardo alle linee austere della sua casa, costruita bene, con cura, sulla sciara vecchia, solida e ferma come ogni cosa sua.

La accarezzava con gli occhi, quella casa e la rivedeva quando, adolescente, tutta la famiglia Liguori saliva da Catania a vederla crescere, dalla grossa buca spianata delle fondamenta, con le sue travi e pilastri che si alzavano nell’aria dritti e bianchi, assurde crescenze da un ventre di lava, a sfidare le asperità della montagna.

E veniva su in fretta, allora, la Villa Liguori, tra le grosse macchine che mescolavano pietra e cemento ed i plinti umidi, ancora con l’impronta delle assi di legno che somigliavano proprio ad alberi calcinati, con l’anima di ferro, sagomati apposta per sorreggere per sempre la più bella casa della frazione di Liconiso.

Sempre poggiato alla balaustra, con in faccia la villa ancora immersa nel silenzio, sonnolenta nella prima calura del mattino e con solo qualche imposta appena aperta, Liguori rivedeva suo padre Benito ai margini di quella buca. Lo rivedeva insieme all’architetto, le mani sui fianchi, il mento sollevato, bello e possente mentre dava ordini al capomastro come fosse lui il direttore dei lavori.

Che lo avesse scelto apposta piccolo e brutto, quell’architetto? - pensava sorridendo Liguori. E rivedeva il padre quando, sul margine della buca o scendendo il ripido pendio, con una mano puntata ad indicare questo e quello, tuonava con quel suo vocione roboante e l’architetto, dalla spianata, lo guardava intimidito, annuendo sempre, con un sorriso stampato in quella faccia rinsecchita.

Ed anche gli operai si fermavano ad ascoltare l’Avvocato assieme al capomastro e restavano così, masse inerte nell’arena, ed anche loro annuivano e solo il capomastro, di tanto in tanto, accompagnava il rispettoso gesto del capo con un “Sarà fatto Don Liguori” o “Voscienza sarà servito, Cavaliere” o “Non dubiti, Avvocato”.

L’aveva perso presto, il padre, divorato da un tumore a cinquant’anni, ma ripensando a quei momenti di massimo fulgore, a Liguori-figlio sembrava di rivivere storie viste solo in alcuni documentari storici, roba in bianco e nero, e la figura del padre, l’Avvocato Cavaliere Benito Liguori, cassazionista nella Capitale, si mescolava con quella di Mussolini dei vecchi Film Luce ed era un mescolamento strano perchè, per quanto poteva rivangare nei confusi ricordi di bambino, il padre, dopo la guerra, si era sempre dichiarato “anti”. Ma mica un antifascista sfegatato. No. Un “antifascista mentale”, come soleva definirsi. Uno che con quella storia non voleva avere niente a che fare, uno che guardava solo al futuro delle masse, diceva, all’Italia rinnovata, ai fratelli d’oltre oceano.

Per giunta aveva seguito un corso intensivo d’inglese ed aveva cominciato ad utilizzare il suo secondo nome, Mattia, in onore del nonno, diceva. Un nome comune, molto democratico e - soprattutto - senza echi del ventennio.

Se suo padre, subito dopo la guerra, non era entrato difilato in politica, era stato per via degli impegni della professione forense e poi per la lunga malattia. Questo si diceva in casa.

In casa e nella cerchia degli amici si diceva anche che uno così, uno come lui, un uomo di ferro ci voleva in Sicilia per aggiustare le cose. E che era un peccato non presentarsi alle elezioni.

Così si diceva, anche se qualcuno, malignando, aveva tirato fuori una vecchia storia di tessere, di brutte amicizie romane e di un processo evitato per un pelo.

- “L’invidia fa parlare anche le pulci ed i pidocchi!” - diceva alterandosi il Cavaliere quando gli arrivavano all’orecchio quelle maldicenze - “Che, poi, mica erano amici miei, quelli. Conoscenze, erano! Pure conoscenze! Mica si possono scegliere le conoscenze! Li conosci e basta. E molti di quelli...” - continuava con voce affannata, spesso interrotta da forti colpi di tosse - “sì, di quelli che oggi chiamano brutte amicizie e che allora facevano comodo a tutti, li avevo mica difesi io in Tribunale? No, che non li ho difesi, cari miei, in prima battuta. Altri avvocati, altri colleghi, magari amici, e che vuol dire? Non si può essere amici con i colleghi? Se li ho difesi in Cassazione? Perchè, forse è vietato intervenire in un collegio di difesa? E’ lavoro, cari miei. Lavoro! Pane!”

A questo punto, di solito, chiudeva gli occhi e scuoteva la testa, infastidito da ricordi molesti che giravano nell’aria come le mosche d’estate

- “E vanno ancora a ripescare la vecchia storia della tessera, sempre la storia della tessera... una storia vecchia... passata... roba di ragazzi. Un’altra epoca. Che vuol dire la tessera? E vuoi dire che si poteva anche non avere la tessera? La tessera! Cos’era poi? Un lasciapassare, era! Un pezzo di carta straccia, ecco cos’era!”

Ed infatti l’aveva stracciata, quella tessera, dopo. Era ancora calda di petto, dicevano, quando l’aveva sostituita con un’altra.

* * *

Luigi Liguori si era girato nuovamente a valle, quasi a voler espandere quei ricordi nella lucentezza di quel panorama così aperto e chiaro, ed all’immagine del padre e della villa si sostituì quel paesaggio maculato di nero e di verde, coperto dall’azzurro scuro di un cielo lavato di fresco.

Quindi si mise ad annusare l’aria, come faceva sempre a quell’ora del mattino quando saliva in villa a Liconiso, socchiudendo gli occhi, cercando il lontano salino e riempiendosi i polmoni di quel pizzicorino strano che saliva dal basso e che sapeva di nascosti mandorleti, di giardini a limoni, di zagare e gelsomino.

E in quel paesaggio reso così immobile dalla lontananza, l’unica cosa che stonava, dando un movimento innaturale, erano le poche macchine e la corriera del mattino, con i loro colori accesi e volgari che si arrampicavano nei grigi tornanti della provinciale.

La corriera, in particolare, con quell’azzurro cupo, le fasce bianche ai lati e quel tetto sporco di ruggine e fuliggine, sembrava proprio fare a pugni con il resto, un’offesa agli occhi ed all’olfatto, chè già l’avvocato paventava la puzza di nafta che avrebbe lasciato passando, mentre superava la villa senza fermarsi, come faceva quasi sempre, portandosi dietro una scia di fumo denso ed oleoso.

Ma quel giorno la corriera si fermò e Liguori poté udire distintamente il pulsare cupo del motore in folle che ansimava ritmicamente, ad una trentina di metri dal cancello, quasi a voler riprendere fiato nell’attesa della prossima salita.

Quando quella macchia d’azzurro e di bianco sporco riprese la strada e superò la villa, Liguori storse il naso con disgusto: ecco cancellate di botto i dolci profumi di zagara e gelsomino, tutta la poesia del luogo annullata da una nuvolaglia nera e manco c’era un alito di vento per disperderla in fretta.

Ma quella nuvola di fumo non era poi tanto densa e nera da impedire di scorgere una macchia più nera salire piano quel tratto di provinciale e poi inerpicarsi in un viottolo che costeggiava la villa, radente alla cancellata.

Liguori aguzzò gli occhi e seguì l’avvicinarsi di quella figura nera, anche se, dalla prima occhiata, sapeva già cos’era.

Una vecchia saliva con passo malfermo, la lunga gonna svolazzante sull’erba alta e sembrava che, ad ogni passo, si aggrappasse ad un bastone invisibile, muovendo in aria una mano per compensare l’oscillazione del corpo.

Nell’altra mano reggeva un involto, un rotolo lungo di carta velina da cui traspariva il rosso di cinque o sei garofani.

Il primo impulso di Liguori fu di rientrare in casa. Avrebbe chiuso la porta, serrato le finestre per non vedere e per non essere visto. L’avrebbe fatto di sicuro se non avesse incontrato il suo sguardo. Stavolta sorrideva persino, quella vecchia, mentre arrancava sulla mulattiera e tutte quelle rughe in viso le si contorsero come serpentelli quando accennò, ancora lontana, una specie di saluto. Forse stavolta gli avrebbe risparmiato i lamenti, pensò Liguori, forse era nella giornata buona se l’avevano fatta uscire da sola dall’ospizio.

- “Di nuovo qua, signora Musumeci?” - gli gridò l’avvocato portandosi un sulla destra, verso la cancellata che cingeva un lato della villa, una mano ad imbuto sulla bocca perchè sapeva che quella donna era quasi sorda.

- “Oggi è il giorno suo, avvocato!” - rispose la vecchia. Aveva una voce squillante, manco sembrava risentire della salita. Il corpo, invece, era provato, e si vedeva. La donna si fermò e con la scusa di rassettarsi il vestito ed il fazzoletto che portava sulla testa, si appoggiò alla cancellata ed intanto guardava con una specie di voluttà il grosso tronco d’albero, tagliato di netto fin quasi alle radici, lasciato lì a marcire ai bordi del viottolo, un buon sedile per chi voleva arrampicarsi tagliando i tornanti della provinciale.

- “Mi siedo un poco, avvocato, con permesso. La salita è lunga. Ma oggi è il giorno suo, dovevo venire per forza. Ci ho pure parlato, con Salvo, sa? La manda a salutare.”

- “Anche tre giorni fa era il giorno suo. Ed anche tre giorni fa aveva parlato con Salvo. La stessa cosa ogni anno. Una cosa infinita! Come la mettiamo, signora Musumeci? Quanto deve durare questa farsa?”

La vecchia non si scompose, anzi lisciandosi la gonna, con dignità ma anche con un che di civettuolo, insospettabile a quell’età, fece:

- “Ma quale farsa, Avvocato! Si vede che lei non si ricorda da un anno all’altro. Avrà tante cose per la testa, pover’uomo... I giorni sono due: uno è quello dell’assassinio, un’altro quello del funerale.”

- “E questo sarebbe...?

- “Avvocato, vossia che fa, babbìa o mi vuole confondere? Il funerale! Il funerale, certo! Uno, prima muore e poi lo sotterrano. Così è. Così deve essere. Ed oggi è il funerale. Ma lei lo sa che io non posso andare al cimitero, ad Acquicella. Lì ci ho tutti i miei morti. Tutti meno uno. Laggiù vado a trovarli. E non solo per la Festa dei Morti e per gli anniversari, chè pieni di fiori sono le tombe dei miei. Giardini, sono, più che tombe! Ed i marmi! Vedesse vossia i marmi e le fotografie che sembrano nuovi di zecca da quanto li lucido! Ma Salvo no. Salvo mio non c’è ad Acquicella. Ed io che devo fare? Devo venire su. Finché posso, sa? Certo che con queste gambe..., ma finché posso, con la grazia di Dio, io ci vengo fin quassù.”

Liguori si staccò dalla cancellata, fece alcuni passi sullo spiazzo ghiaioso con le mani in tasca.

“Che cosa dico ad una pazza? - pensava - Pazza furiosa. Anche se a vederla così sembra una madonna addolorata. Ed intanto guardava la casa ancora addormentata, la persiana serrata della stanza da letto, meno male che Lucia ed i bambini ancora dormivano.

- “Lei lo sa che è contro la Legge, vero? - disse l’avvocato avvicinandosi nuovamente per non alzare troppo la voce - Non si può importunare la gente in questo modo, non si può ossessionare all’infinito, lo sa questo?! Non si può, lo capisce, signora Musumeci, che non si può? Come glielo devo dire? C’è stato un processo, tanto tempo fa, è stato chiarito tutto in istruttoria! Anche un’intimazione c’è stata, cosa debbo fare ancora? Chiamo l’ospedale e la faccio rinchiudere di nuovo? Oppure debbo far venire i carabinieri, la forza pubblica, il vescovo? Cosa debbo fare con lei, signora Musumeci?”

- “Cosa deve fare? Ma niente avvocato mio. Niente deve fare! Non mi veda, avvocato, faccia finta che io non esisto, che non sia mai esistita. La ragione degli uomini è dalla sua, lo so, non me lo ripeta ogni volta che mi vede... Tanto la patente di pazza io ce l’ho già, con il bollo e la firma. Ma io voglio la sua pietà. E non solo per me.

- “E per chi altri? Per suo marito, forse?”

La vecchia sollevò la mano con l’involto di carta velina e poggiando una mano sul ceppo si alzò a fatica e si aggrappò alla cancellata. Gli occhi erano fermi e duri e non esprimevano pazzia. C’era razionalità e determinazione dietro quegli occhi. Ed anche qualcos’altro. Qualcosa che usciva da quel nero, lucida ed infuocata come lava liquida da una bocca nuova.

Liguori represse la voglia di arretrare davanti a quegli occhi e non fu neppure sorpreso quando la voce della vecchia salì di un tono, dicendo:

- “Che c’entra Salvo, avvocato? Perchè lei dovrebbe avere pietà per lui? Per me, certo. Tanta pietà, per me. Sono una povera vecchia, sola, mezza pazza e con i giorni contati. Ma per lui no! Non ne ha bisogno Salvo di pietà! della sua di nessun altro!”

La sua voce si affievolì un poco, si spense quasi in un soffio quando disse:

- “Poi, vossìa manco l’ha conosciuto il mio Salvo... Sa a stento quelle quattro cose che sono state scritte dai giornali, cose vere e cose false, e chissà se in fondo al cuore vossìa non se l’è anche fatta la sua verità! Per questo io dico sempre a Salvo che il figlio dell’avvocato è una brava persona, che qualche volta fa anche finta di non vedere, di non sentire. Proprio ieri notte, saranno state le due o le tre, mi ha detto: Ti raccomando, salutami il figlio dell’Avvocato, se lo vedi.

- “E allora per chi altro dovrei avere pietà, signora Musumeci?”

La donna aveva ancora una mano serrata alla cancellata. Era magra, quella mano, con pelle di cartapesta. In certi punti trasparivano grosse vene azzurre. Poteva indovinarsi il sangue pulsare a fatica in quel corpo ormai rinsecchito. Nell’altra mano il lungo involto, sollevato in alto come un bastone o come un vessillo, si alzò ancor di più verso un cielo che diventava di minuto in minuto sempre più azzurro. Accecante.

-“Conservi la sua pietà per suo padre, avvocato, la conservi per il Cavaliere Benito Liguori - sibilò la vecchia - Suo padre sì che ne ha bisogno! Dobbiamo tutti avere pietà per lui. Per lui sì! Anche questo mi ha detto Salvo, ieri notte. Me lo ha confidato in confidenza: chissà, forse non poteva. Mi ha detto che dobbiamo provare pietà per lui perchè forse non era neppure tanto cattivo e perché ha già sofferto le pene dell’inferno prima di morire. Il fatto è che non poteva dire di no a Puddu Scandurra o ad altri più in alto, magari nella Capitale. Lui si è solo girato dall’altra parte. Non ha visto. Non ha voluto vedere. Ha dato solo le chiavi del cantiere. Accomodatevi, signori. Ed il capo mastro ha dato gli ordini giusti. A quest’ora, avvocato, poteva esserci suo padre nel cemento, se diceva di no. In fondo ha solo fornito la tomba a Salvo. Gratis.”

-“Signora Musumeci, basta così...”

- “No, no, mi lasci dire. Magari non mi vedrà mai più. Non sono eterna. Chissà se potrò salire per un altro anniversario... Mi lasci dire almeno questo: che non ce l’ho con suo padre. Non più. In fondo non l’ha ammazzato lui. Ed in quanti sono quelli che possono dire di avere la tomba in una villa sull’Etna? Pochi, sono. Qui c’è aria buona, una vista magnifica, tutta Catania ai piedi. E che possiamo pretendere...! Altro che Acquicella! Troppo rumore, laggiù, camion, gente che va e che viene. Qui è diverso. Un troppo distante, è vero, ma diverso. E con la corriera, in un’ora...”

-“Signora Musumeci, la mia pazienza...”

- “Ecco, la sua pazienza. La sua pietà e la sua pazienza. Per suo padre che lassù ancora soffre come un cane, e questo lo so perchè me lo ha detto Salvo, ed un anche per me, per quei quattro giorni che ancora mi restano. E poi, che le chiedo? Che lei non guardi, le chiedo. Perché io non vado nella roba sua. Mica ci entro in casa, io. Striscio sul muro esterno, come una lucertola e lei mi lascia strisciare. Le manda via le lucertole che strisciano sul muro? Manco le vede le lucertole. Ecco, faccia finta che io sia una lucertola. Striscio e dopo un me ne vado. Giusto il tempo di mettere questi fiori nell’angolo a monte della casa, di stare un vicino a Salvo. Il plinto è quello, il primo, a monte. Lei che ha letto le carte lo sa che è quello, vero?”

A questo punto il dottor Liguori agita le mani in aria. Il dottor Liguori si passa le mani nei radi capelli grigi. Fa finta di strapparseli.

- “No, no, non è lei la pazza, signora Musumeci! Sono io, io sono il pazzo! Io che la stò a sentire! Anche gli insulti, anche le dicerie più strane, anche i vaneggiamenti devo sopportare...! Cosa vuole che ne sappia io di plinti, di angoli, di muri! Ma adesso basta! Basta! Basta! Vada a mettere i suoi fiori su quel muro, e via! E poi prenda la corriera e non si faccia più vedere in giro a Liconiso! La prossima volta sciolgo i cani. Lo faccio. Pazza o non pazza giuro che lo faccio, quanto è vero...

Ma la vecchia non l’ascoltava più, stava già allontanandosi camminando radente alla cancellata, curva sotto un sole che ormai scottava, una figura nera, a tratti quasi invisibile, confusa con il nero della pietra lavica.

Mentre la vecchia saliva, Liguori sentì ancora biascicare qualcosa, la vide mettersi una mano in una tasca della lunga gonna, trarne un piccolo lumino di cera, avvolto in una carta rossa.

Poi lei si girò verso di lui, mostrandoglielo.

- “Avvocato...”

- “Cosa c’è ancora?”

- “Avvocato, se per caso il lumino si spegnesse, col vento che tira quassù...