domenica 27 maggio 2012

Chi è veramente contro la mafia applica la meritocrazia e ricerca la cultura letteraria ogni giorno, chi non lo fa deve essere considerato moralmente un legittimatore della violenza e della mafia, di Sergio Sozi

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Chi è veramente contro la mafia applica la meritocrazia e ricerca la cultura letteraria ogni giorno, chi non lo fa deve essere considerato moralmente un legittimatore della violenza e della mafia

di Sergio Sozi





Il 23 maggio 2012 ricorre il ventesimo anniversario dell'assassinio di Giovanni Falcone. In questi giorni dobbiamo, anche, soffrire di un attentato – vile e sanguinario – contro dei poveri studenti di una scuola superiore brindisina. È quindi con profonda rabbia e indignazione che mi trovo a scrivere il presente testo: indignazione e rabbia rivolte però, si badi bene, non solamente a coloro che – privi di qualsiasi qualità morale – abbiano compiuto tali atti anticristiani, bensí a quanti nella quotidianità abbiano facilitato e facilitino tuttora l'operare di tali vili assassini con la propria condotta in seno alla società italiana – la società italiana tutta: dalle Alpi a Sicilia, passando per la Sardegna.

E parlando di ''condotta'' non vorrei ora restare sul generico, ma indicare, stigmatizzare con forza quella degli italiani che, rafforzando il disagio della popolazione, soprattutto la piú giovane, proseguano ad operare nella nostra Nazione adottando criteri di tipo clientelare, amicale e/o egoistico, o, e questo è ancor peggio, a sfruttare il lavoro di cittadini competenti sottopagandoli o facendoli lavorare ''legalmente in nero'' (è il caso dei poveri stagisti, maltrattati ovunque e neanche pagati: roba da terzo mondo). E non parlo soltanto di queste persone, ma anche di chi non voglia ancora capire che la cultura letteraria, quella ''dei libri'', deve essere il fondamento della nostra Patria e della nostra democrazia: perché costoro, legittimando l'ignoranza, legittimano direttamente la forza, l'arbitrio e la violenza dei disonesti tutti. Studiare la filosofia, la letteratura e il latino è lavorare contro la violenza e la sopraffazione, sappiatelo. È merito grande che andrebbe riconosciuto e finanziato monetariamente dal Paese tutto! Chi studia seriamente la Storia della Letteratura Italiana aiuta l'Italia, mentre gli illetterati sono dei semicittadini che fanno danni al Paese, soprattutto se pubblicano libri, soprattutto!

Un Paese fondato sull'autoreferenzialità di ogni cittadino, sulle conoscenze personali, sulla parentela, sull'ignoranza della cultura umanistica nazionale, sullo sfruttamento dei neolaureati e non sul merito e sul sapere letterario è un Paese perduto, mafioso sin dalle radici. E questa mafiosità di base si esprime poi, platealmente, in quelle organizzazioni che mettono bombe, spacciano droga e sparano ai loro oppositori.

Sta a dire che la violenza, sia quella meditata e progettata che quella che scaturisce dal disagio sociale, dalla disoccupazione, dal senso di impotenza e dalla profonda iniquità – evidenti oggi piú che mai nella nostra società – dipendono essenzialmente da una malattia che, finalmente, andrebbe estirpata: tale malattia è l'assenza di meritocrazia e di cultura letteraria nella vita quotidiana degli italiani: due bacilli coinquilini nella stessa pestilenza.

L'assenza di meritocrazia è il cancro che porta i migliori italiani ad emigrare ancora nel 2012, è la terribile molla da cui si lanciano nei vostri cuori tonnellate di frustrazione per le condizioni lavorative che dovete accettare – per di piú in occupazioni che non vi piacciono per niente! – e, anche, l'assenza di meritocrazia, ma sul versante letterario, è quella che permette agli editori a proprie spese di lucrare sugli autori che li pagano! Degli imprenditori che si fanno pagare dai dipendenti, assurdo no? Assurdo piú ancora degli stagisti sfruttati gratis o degli apprendisti laureati che lavorano anni presso studi avvocatizi o notarili senza prendere altro che microstipendi da fame, che impediscono loro di metter su famiglia o vivere da soli.

Ma perché, mi chiederà qualcuno, prendersela con gli editori a proprie spese? Giusto. Serve approfondire. In effetti io me la sto prendendo con loro non in quanto causa, ma in quanto effetto della situazione italiana attuale. Dunque vediamo, abbiate un po' di pazienza e favorite seguire l'itinerario sin dal principio: la clientelare e illetterata pazzia della nostra editoria sarà ottimamente calzante per esemplificare il resto della diffusa disfunzionalità italiana. L'Italia: un organismo amaramente e violentemente disarmonico.

Allora. Cosa produce in Italia questa anomalia europea delle migliaia di libri pubblicati, ogni anno, a spese degli autori (i quali in Europa generalmente vengono pagati)? Principalmente due fattori:

1) La convinzione, in chiunque scriva per diletto, di essere comunque meritevole di pubblicazione.

2) La mancanza di meritocrazia nelle scelte operate dagli editori seri – grandi, medi o piccoli, ma soprattutto i grandi, si sa.

Vediamo insieme i due punti. Il primo punto recita: ognuno si sente meritevole di pubblicazione anche se non legge i testi importanti (per noi storicamente sono quelli medievali: San Francesco, i Siciliani, gli Stilnovisti, Dante, e i prosatori: Boccaccio, eccetera), ignora la Storia della Letteratura e non conosce la grafia, la punteggiatura, la grammatica e la sintassi della lingua letteraria... scrive addirittura poesia spezzando periodi colloquiali o prosastici – ovvero mandando a capo proposizioni o pezzi di proposizioni fa ''poesia'', roba da idioti completi, da poeti della domenica. I prosatori invece si ispirano al montaggio e alle trame cinematografiche, ci dànno giú velocemente e credono di essere ''geni'' come gente da poco quale Coelho, King, l'ultimo Eco, o Zafon. Ecco, costoro, gli scrittorucoli che hanno in testa mettiamo Zafon, sanno che i grandi editori li potranno accettare solo se essi si saranno dimostrati sufficientemente ignoranti della letteratura italiana, sufficientemente ''moderni'' ovvero capaci di prendere le simpatie del pubblico del momento, della moda del momento, della americanata in voga qui ed ora. Cinema e poi cinema, dico, maledizione! Questo è ciò che chiedono i grandi editori! I grandi editori cercano solo il personaggio di moda: che sia di moda perché attore, presentatore televisivo, regista o emulo dello scrittore famoso all'estero, questo non importa... l'importante per gli editori che contano – e che pagano bene gli autori – è che ci sia qualcosa di ''attuale'' in uno scrittore, per poterlo promuovere. E questo è fattore deprimente per gli autori che cerchino di essere professionali: la professionalità di un autore vuol dire essere se stessi, fortemente se stessi, ma obbligatoriamente approfondendo tutto quanto riguardi la letteratura, dalla grammatica alla critica, dalla punteggiatura alla filosofia, dalla metrica alla retorica, la stilistica, la storia letteraria. Il lavoro e la vita in osmosi intima. Il lavoro è lavoro, non scampagnata, gita fuori porta, emulazione, trastullo. Scrivere o è un impegno assiduo o è roba da villeggianti grafomani, non esiste via di mezzo. In realtà, la vita è cosa da approfondire con la letteratura e la letteratura è cosa da approfondire con la vita. E per fare tutto ciò serve tanto tempo, mica solo le domeniche pomeriggio, ed è indispensabile non solo essere originali in senso estetico, ma soprattutto esser capaci di scavare in profondità dentro se stessi: guadagnarsi la propria cittadinanza europea con l'approfondimento delle nostre radici culturali italiano-europee, ovvero leggendo e studiando la letteratura italiana. Invece? Invece in Italia tutto è conoscenza dell'editor, dell'editorone, della moda, ed è cena al ristorante, giro giusto, ammanicamento, convenienza da poveretti senza onore e dignità. Cosa meschina, il successo in Italia, perché non nasce quasi mai dal merito unito alla fatica e all'originalità, dalla lettura, ma dalla congiura di difetti e depravazioni – ed è anche furbizia da poco, ché la furbizia non è una qualità ma una necessità barbarica, animalesca, resa necessaria da un popolo arretrato culturalmente che legge poco e legge robaccia: quella che i grandi gruppi editoriali acquistano in blocco dall'estero e fanno tradurre certi di avere le trentamila copie vendute già in mano.

Dunque, per grazia ricevuta dai colossi editoriali, ecco spadroneggiare ovunque gli editori a proprie spese (veri amplificatori per l'ego dei villeggianti grafomani italici). Questa editoria inutile e negriera sarebbe invece da vietare per legge: pubblichi a proprie spese? Allora ti devi dichiarare ''tipografo'', che la parola ''editore'' è cosa seria, spettante a chi investa del proprio capitale, mica a miserelli come te che il capitale se lo fanno dare dagli scrittori!

Servirebbe, eh sí e presto, una legge che spazzasse via questa marmaglia di furbastri che campano coi soldi degli illetterati pseudo-scrittori, una legge che obbligasse chi non paga gli autori a fare il tipografo e solo il tipografo, ché questo in effetti gli editori a proprie spese sono. Io inoltre stabilirei un approfondito e tosto esame di cultura letteraria anche per chi volesse fare l'editore ''serio'' o volesse lavorarci insieme, cosí sfoltiremmo anche lí tutti quei mezzemaniche di editor irraggiungibili che si applicano solo ai testi di autori ben raccomandati dai dirigenti o da chi per loro ''ai piani alti'' dei castelli grandeditoriali.



Fin qui sull'aspetto letterario della faccenda ''mafia = assenza di merito nella vita italiana''. Ma il merito è concetto ben piú esteso. Il merito è parte della nostra vita profonda, ovverosia è l'aspetto piú importante del nostro esistere e relazionarci col prossimo. Il merito combacia con l'onestà:  l'onestà di dare a chi sa fare le cose la giusta stima, l'adeguata remunerazione ed anche il giusto successo, senza esagerazioni divistiche ma anche senza sfruttamento.

Chi dà a qualcuno un posto di lavoro senza che questi abbia dei meriti oggettivi è un irresponsabile totale e un affossatore dell'Italia quanto chi si sposa senza amare il proprio coniuge è un affossatore della famiglia. E per farsi un idea della scala valoriale necessaria ad elaborare una gerarchia di merito occorre avere dei punti fermi sostanzialmente filosofici (e la filosofia in fondo è tutto: filosofica è la vera letteratura, filosofico è il lavoro sociale, la politica, l'azienda, l'amore, oppure tutto ciò, se non cade nella superficialità egoistica, è religioso, e la religione è niente senza la filosofia come la filosofia è niente senza la religione. Infine va detto che niente di tutto ciò è qualcosa senza l'amore, che va oltre la filosofia e la religione ma non può esistere compiutamente senza queste due).

Occorre amare e studiare, insomma, per fare un'Italia onesta e nonviolenta, amorevole, giusta. Occorre essere amanti, filosofi e uomini di Dio... artisti... anzi ''artigiani artisti'' direi: l'artigianato di qualità (si parli di poesia o di fabbricazione di ghisa è uguale) è ciò che salva un Paese dal tracollo, sia economico che morale, sempre e dovunque. Occorre dunque creare un Paese che sia una grande Tribú Nazionale dove tutti si conoscano e lavorino insieme artigianalmente e con amore reciproco, una Tribú aperta e solidale ma salda nei princípi e basata sulla nonviolenza e la legalità a tutti i costi; un Paese dove l'arte in genere sia una cosa seria e non un circo di serie b, in cui emergono mostri, analfabeti schic e incantatori da strada e dove la gente si ''conosce'' ormai solo via Internet; dove lo Stato non sia piú affidato a quattro eroi e mille furfanti vigliacchi superstipendiati che superstipendiano consulenti esterni e manager pubblici impresentabili; dove l'onestà sia criterio ben definito fondato sull'onore personale davanti alla collettività nazionale; dove la professionalità venga incoraggiata da coloro che possono decidere della carriera altrui (i famigerati Presidentoni, Direttoroni e succedanei che ''non sono mai in ufficio'', e ''non devono render conto a nessuno'', anche se siamo noi a pagarli lí sui loro disertati uffici, come sapete bene); dove i finanziamenti per la Cultura siano il triplo dei ridicoli attuali (un quarto di quelli francesi, dicono i numeri); dove la si pianti di parlare con slogan tipo ''potere ai giovani'' o ''fuori i vecchi dai posti di responsabilità'' ma si mettano al posto giusto le persone adatte, qualsiasi età abbiano; dove non serva ostentare estraneità, costruito snobismo e sciocca superiorità per sentirsi ''qualcuno'', ma si sia se stessi in modo semplice e profondo e si stimi il prossimo come importante ''se stesso'' (magari spesso, anzi, migliore di noi: di me e di te che stai leggendo queste parole).

In conclusione: se noi mettessimo in pratica ogni giorno quanto detto, e molto altro che non posso ora dire per evitare di occupare troppo spazio, ben presto vivremmo molto meglio in Italia, e renderemmo veramente EUROPEO questo nostro Paese violento e ingiusto, questa Nazione senza legge con migliaia di leggi, questo insieme di persone dalla moralità indefinibile e sempre ritrattabile a seconda della convenienza personale... in breve questo Paese mafioso dove il libero arbitrio e la forza individuali o di gruppo (i partiti politici ne sono un esempio) sostituiscono la moralità condivisa e annullano il concetto di cittadinanza.

Ma non definitela rivoluzione, per favore: è solo il coraggio di migliorarsi. Il coraggio che non abbiamo e che dovrebbe sostituire l'eroismo dei Falcone, dei Borsellino e dei tanti poliziotti che si fanno trucidare per colpa nostra.




Un infinito numero, di Sebastiano Vassalli


Un infinito numero

di Sebastiano Vassalli

Edizioni Einaudi

Narrativa romanzo

Collana ET Scrittori

Pagg. 258

ISBN 9788806173241
Prezzo € 10,50





Lo scopo della scrittura



“La scrittura: è lei la protagonista della storia che sto raccontando. Il popolo dei Rasna, che io ho conosciuto prima che i suoi sacerdoti piantassero l’ultimo chiodo nel muro di Northia, credeva che gli uomini dovessero esistere nel tempo come gli insetti esistono nella notte, inebriandosi della loro vita finché gli è possibile, e poi tornando a scomparire nel buio. Aveva scoperto, in alternativa alla scrittura, un modo di rivivere il passato, e forse anche di anticipare il futuro, muovendosi lungo la catena di eventi che costituiscono la storia del mondo, come sui gradini di una scalinata infinita, in un senso e nell’altro; ma quel modo non aggiunge e non toglie niente ai singoli uomini, e non modifica le loro storie. La scrittura, invece, può durare (e di solito effettivamente dura) ben più di chi se ne serve; e ci può dare quell’illusione di immortalità che più di ogni altra illusione passata o presente ha abbagliato gli uomini della mia epoca. Virgilio, Orazio, Properzio, Agrippa, Mecenate e lo stesso Augusto, si sono riscaldati alla luce di quell’illusione, e hanno creduto di poter vivere oltre la morte fino a diventare immortali, rispecchiandosi nella loro scrittura o in quella degli altri…” 





Ogni volta che leggo un romanzo di Sebastiano Vassalli mi stupisco perché riesce a non essere ripetitivo, pur rientrando sempre nell’ambito storico, che invece delinea una ripetitività di fatti e di comportamenti che induce a pensare che l’uomo sia rimasto sostanzialmente immutato nel tempo, con le sue passioni, le sue pulsioni, con una natura congenita che si ritrova sia in epoca romana che in quella attuale. Le tematiche sono le più svariate, ma imperniate su un attento lavoro di ricerca che di fatto riporta alla luce un’epoca attraverso una creatività che nulla toglie e nulla aggiunge a quella che era, oppure è, la realtà.

E’ questo il caso di Un infinito numero, che racconta di un viaggio compiuto in Etruria in età augustea da Mecenate, Virgilio e Timodemo, quest’ultimo schiavo acquistato sul mercato di Napoli dal grande poeta latino e liberato dopo pochi anni. Ed è appunto questo ex schiavo, materializzatosi fra i personaggi ideati da Vassalli, che riveste la parte dell’io narrante, in un ideale congiunzione temporale fra quella lontana epoca e l’attuale.

Ma perché questo viaggio? Qual è il suo fine?

Virgilio, tramite Mecenate, ha già avuto l’incarico da Augusto di scrivere un poema sulle origini di Roma, un’opera che dovrà restare eterna, per glorificare la sua potenza e anche l’attuale dominatore, quell’Ottaviano dalle incerte origini che ricerca, o meglio pretende di essere l’anello di una catena indissolubile di una discendenza divina, e ciò per rafforzare il proprio potere, per giustificarlo e per quel desiderio quasi inconfessabile che porta alcuni uomini alla fama, al mito.

Poiché Mecenate, di nobili origine etrusche, asserisce che tutto ciò che era sorto lungo il Tevere era opera dei Rasna, cioè degli Etruschi, si rende necessario approfondire, ricercare, andare nei luoghi ove ancora esistono questi ultimi, anche per comprendere il motivo per cui la scrittura fra gli Etruschi abbia così poco valore da non produrre libri in un popolo così evoluto, anche se in declino.

Eppure sapevano scrivere e anche bene, ma la loro religione, per la vocazione nominalistica della scrittura,  ferma l’intera storia di un popolo nella immobile, stringente definitività del tempo, e, come dice Aisna, il sommo sacerdote del dio Velthune, Chi non ha un nome non muore in eterno. 

In questo contesto i tre viaggiatori apprenderanno delle origini di Roma all’interno del tempio di Mantus nel corso di un viaggio soprannaturale nel tempo; liberi dai limiti inevitabilmente temporali dei propri corpi, avranno così modo di rivivere l’infinito numero delle vite precedenti, l’unico mezzo per viaggiare nel tempo, per tornare indietro o per proiettarsi nel futuro (ma qui si gira il corso del tempo perché si vuol conoscere ciò che è avvenuto molti secoli prima).

Vedranno, così,  lo sbarco dei troiani capeggiati da Enea, la loro fredda determinazione a ricreare il vecchio stato in una nuova terra eliminando ferocemente tutti i maschi delle popolazioni lì insediate e salvando solo le donne, atte alla procreazione per rinsaldare la nuova stirpe.

La scoperta per Virgilio è sconvolgente, perché dovrà costruire un mito, che è  basato sulla violenza, modificando la storia, facendo apparire bello ciò che è brutto, edificante ciò che è laido; questa sarebbe la ragione per la quale l’Eneide, invano continuamente reclamata da Augusto, dopo anni è ancora incompiuta. Il poeta di Andes non vuol consegnare al tempo e ai posteri un’invenzione, ma nemmeno può descrivere la verità, e allora, sentendosi morire, ordinerà di distruggere quanto ha fino ad ora scritto, ordine, per nostra fortuna, non rispettato.

Un infinito numero è la storia di un accentuato contrasto fra due civiltà, quella etrusca, ormai alla fine, che rifiuta la letteratura e la scrittura, in quanto portatrici di morte, e quella romana, che invece le pone sugli altari come unica possibilità per sopravvivere dopo la morte, un’indiretta forma di eternità di cui l’uomo vagheggia affinché, quando il suo corpo diventerà polvere, restino almeno il nome e la sua fama.

Però, Un infinito numero è anche il libro sulla genesi dell’Eneide, sulle figure di uomini come Mecenate, il cui nome è sopravvissuto alla sua morte; non è solo questo, tuttavia,   perché  è anche un’opera sul tempo che sembra scorrere veloce per gli umani, ma che è di un’assoluta immutabilità nell’eterno, tanto da ripresentare fatti e situazioni come se fossero una lunga storia di nascite e di morti, di scomparse e  di ritorni.  L’uomo non è che pulviscolo celeste e nella sua effimera esistenza è il frutto di un infinito numero di vite e di combinazioni.

Libro non certo facile per le sue variegate sfumature, Un infinito numero è tuttavia un romanzo di straordinaria bellezza, un altro dei non pochi capolavori di Sebastiano Vassalli.





Sebastiano Vassalli è nato a Genova e vive in provincia di Novara. Presso Einaudi, dopo le prime prove sperimentali, ha pubblicato La notte della cometa, Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo, La chimera, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012, Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del presente, Dux, Stella avvelenata, Amore lontano, La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano, Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni e Le due chiese.


Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 27 maggio 2012


MondoBlog





I miei consigli per una domenica di sane letture:




















martedì 22 maggio 2012

La forza del sogno, di Renzo Montagnoli


                                                                   Foto da web

La forza del sogno

di Renzo Montagnoli





Scendevan le stelle

a illuminar la notte

piccole lampade

a tracciar la strada

nei sogni dei dormienti.

E io

che insonne

nel letto mi giravo

fui colto

di colpo

dallo sgambetto d’Orfeo

e condotto

per mari e per valli

alla terra degli avi

a lontane dimore

disperse dal vento

in una nuda brughiera

S’alzavano canti

di donne sfiancate

si levavano coppe

di aureo sidro.

Li volli chiamare

volli loro parlare

ma non m’ascoltavano

perché là io non c’ero

perché là era corsa la mente

a cercare radici

ormai disseccate

memorie d’un tempo

che pare lontano.

Novelle ascoltate

con orecchie di bimbo

al focolare d’inverno

forse leggende

di un tempo che è stato

e che ora può esser solo sognato.



(da Canti celtici II)





La colonna sonora (in tema):











Le due vite di Elsa, di Rita Charbonnier


Le due vite di Elsa

di Rita Charbonnier

Edizioni Piemme


Narrativa romanzo

Pagg. 350

ISBN 978-88-566-1237-0

Prezzo € 17,50





Alla ricerca della propria identità





Dopo due biografie romanzate (La sorella di Mozart e La strana giornata di Alexandre Dumas) che hanno riscosso notevole successo, Rita Charbonier ha deciso di cambiare registro, una scelta coraggiosa perché rappresenta sempre un’incognita, soprattutto per le eventuali reazioni dei suoi lettori, abituati a storie di genere ben diverso.

Questa volta ha creato un personaggio del tutto nuovo e quindi senza che abbia pescato nei molti della storia, ovviamente questi reali e non di fantasia.

Eppure, anche Elsa Puglielli – così si chiama la protagonista – assume caratteristiche di veridicità, ci sembra una presenza non astratta, ma una persona che è esistita, tanto l’afflato, che si viene a formare pagina dopo pagina, fa credere magari di averla conosciuta, oppure di avere incontrato nel corso della nostra vita una donna con identiche caratteristiche.

La trama non è semplice, anzi ha quella particolare complessità che si incontra quando ci si imbatte negli oscuri meandri della psiche umana, la cui perfetta conoscenza è ancora ben lungi dall’essere completata.

Elsa è fragile, ma rivela una forza interiore del tutto superiore alle attese. Eppure, quella ragazza che vive, come in una campana di vetro, in un villino periferico di una Roma fascista, stanze che odorano di chiuso, mentalità ristrette che cercano di celare un essere “diverso”, è in preda a una continua lotta per rendere propria la sua vera identità, una battaglia all’apparenza senza speranza, combattuta senza l’aiuto dei familiari che anzi, per quell’accentuato perbenismo, particolarmente stringente durante il ventennio, si vergogna e fa di tutto per dimenticarla.

Questo è il libro di una donna che, fra tante sofferenze, riuscirà con l’aiuto di un medico e grazie all’ascendente che esercita su di lei Anita Garibaldi, in cui si identifica, a uscire dal girone infernale in cui ha condotto la sua esistenza, trovando ed affermando la sua autentica personalità.

Forse ci voleva solo la sensibilità femminile di una scrittrice, peraltro di qualità come Rita Charbonnier, per allestire una trama che potesse riuscire facilmente comprensibile, senza incorrere nel rischio del romanzo d’appendice, da cui si salva appunto sia per lo stile, misurato e pulito, sia per il grande pregio di descrivere una psiche contorta, senza indulgere al sensazionalismo, al dramma di facile effetto o addirittura alla commozione ricercata e pretesa.

Come ho già scritto sopra, Elsa vincerà la sua battaglia, ma non voglio dirvi come e quando: sta a voi lettori scoprirlo dopo aver amato le pagine di un libro che facilmente non si scorda. 





Rita Charbonnier è nata a Vicenza, ha vissuto a Matera, Mantova, Genova, Trieste, per poi stabilirsi a Roma. Ha fatto studi musicali e ha frequentato la Scuola di Teatro dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa. È stata attrice e cantante in teatro, recitando al fianco di celebri artisti. In seguito si è dedicata alla scrittura e, dopo aver collaborato come giornalista con riviste di spettacolo, ha iniziato a scrivere sceneggiature e infine romanzi, La sorella di Mozart e La strana giornata di Alexandre Dumas, entrambi molto apprezzati dai lettori.





Recensione a cura di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 22 maggio 2012


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I miei consigli odierni:







L’assira Cristina alle mura di Babilonia




































domenica 13 maggio 2012

Amado mio, di Milvia Comastri


Foto da web

                   Amado mio

                   di Milvia Comastri



Amado mio,

uno due tre quatto cinque.

Le cinque pastigliette sono rosa, di un rosa pallido opaco. Come i muri che rinchiudevano il collegio, diritti e ostili alla vita che si srotolava al di là di essi.

Sei sette otto.

Le suore non avevano volto. Erano amido e secchi fruscii, bisbigli, negazioni di risate, passi ovattati perduti in lunghi corridoi. Erano indici puntati, tempi imperativi, gomme che sfregavano ossessive su acerbe emozioni.

Nove.

C’è una piccola pozza di latte, sul tavolo; gocce di sangue si stingono nel bianco. Il latte versato distrattamente stamattina nella tazza blu è fuoriuscito sul marmo grigio. Poi il tagliente coltello che mi è sfuggito di mano, mentre affettavo il pane.

Dieci undici.

Quando il dottore mesi fa mi ha dato la ricetta ha detto mi raccomando, non più di una e solamente prima di dormire.

Una soltanto. Solo una per cessare di mordere il cuscino, per non tirarsi più il lenzuolo sulla faccia, per far riposare le palpebre, per respirare senza macigni, per non allungare più il braccio nel letto ampio e perdersi nell’assenza. Per adattarsi a una vita senza te.

Dodici.

Dodici anni: era apparso per la prima volta il sangue, e le senzavolto avevano sibilato con le labbra tirate ora sei una donna, comportati come si deve. E avevano frantumato le domande, le curiosità. Avevano schiacciato quel languore nuovo che cresceva dentro, avevano dilatato la frustrazione per l’assenza di una madre che mai c’era stata, da sempre sognata.

Era d’estate, le finestre spalancate, gli odori che andavano a posarsi sui letti e si impossessavano delle narici, si accucciavano sotto la pelle.

La musica entrava con il profumo dei fiori dell’acacia, con il secco aroma dei prati, entrava dentro di me e mi riempiva. Era sempre la stessa canzone; iniziava a sedurmi con le sue note nel primo pomeriggio, e andava avanti per ore.

Amado mio, le uniche parole che capivo, e che diventavano ogni giorno di più il mio mantra.

Tredici.

Ho freddo, avverto questo freddo che mi assale sempre.

E tu, amado mio, che sei sotto legno e terra e pietra, lo senti il gelo?

Quattordici quindici.

C’era una donna nei pomeriggi bruciati di quell’estate. La canzone si levava dal suo cortile di cemento, e l’unico movimento era il tendersi del suo braccio che rimetteva la puntina del giradischi all’inizio del disco. Un filo elettrico spariva nel buio del portoncino. Avrei voluto essere quel filo e andare dalla fonte di musica alla casa e conoscerne gli interni.

Avevo eletto quella donna a madre. Non ne conoscevo altre di donne: solo le suore, prive di sogni, di note musicali. Senza sesso.

Di lei, dalla finestra della camerata, vedevo il corpo rannicchiato in una vecchia poltroncina di vimini, le braccia che stavano serrate sul petto, metà volto su cui spiovevano il lunghi capelli neri, l’orlo dei suoi abiti che sfiorava il cemento. Vestiva sempre solo due colori: tutto bianco o tutto rosso. Non riuscivo mai a vederla bene in viso. Lo immaginavo. Immaginavo un’espressione di attesa. Attesa della figlia perduta. La musica era gravida, pesante, la cantante aveva una voce arrochita, come fumo di legna, si insinuava nella mia testa, nella pancia, nel cuore.

Sedici.

In quella estate in cui era terminata la mia fanciullezza, quella donna e quella canzone mi aiutarono a non morire, mi diedero gli strumenti per resistere all’algida durezza delle suore; cominciai a sognare il futuro.

E più tardi mi portarono a te, amore mio, mi diedero la capacità di amarti. Ecco perché sussurravo amado mio, quando ero fra le tue braccia.

Diciassette diciotto diciannove.

Il sangue, nel latte, sta perdendo il suo colore.

Il tuo sangue impazzito, quattro mesi fa.

La sentenza, senza appello, irreversibile. E tu e io increduli, la morte che credevamo un’invenzione, lì, sulla porta.

Venti.

Costruisco un perimetro quadrato sul tavolo. Cinque pastigliette per ogni lato.

All’interno ci metto tutti i baci che non posso più darti, i sorrisi che non fioriranno più, le carezze calde e segrete che mai più ci faremo.

All’interno ci metto tutto il vuoto che ho dentro.

Ventuno ventidue ventitrè ventiquattro.

Quella donna nel cortile. Quella donna era forse il mio futuro d’allora, questo mio presente saturo d’assenza. Sola con una canzone sensuale, con le braccia che stringono soltanto il suo petto, con un volto incompleto, dimezzato.

Venticinque.

Ho dovuto insistere, col farmacista. Gli ho detto che dovevo partire, che me ne serviva una scorta; mi sono stampata in faccia il sorriso di un tempo. Ho trattenuto il respiro fino a quando non ho avuto in mano le tre scatolette. Confezione da dieci. Trenta pass per il nulla.

Ventisei.

Latte, sangue.

C’è latte, c’è sangue quando comincia una vita.

Le macchie umide all’altezza del petto, sulla mia camicia, si stanno allargando.

Non ci riesco, amore mio, a stare senza di te.

Passo un dito sul seno destro, dove la macchia si sta espandendo, e lo porto alla bocca.

E’ un sapore lievemente acidulo, gradevole.

Ventisette.

C’è sempre come un suono sottile, prima che inizi il suo pianto. Lo avverto anche quando sto dormendo.

Il pianto è dapprima una domanda timida, poi esplode presto in una richiesta urgente e rabbiosa.

Ti assomiglia, amore mio: ha gli occhi dal taglio allungato come i tuoi, una minuscola fossetta nel mento, un piccolo neo sulla spalla sinistra, come quello che ti baciavo.

Ventotto ventinove trenta.

Mi hai abbandonato, amado mio, come fece mia madre.

Madre.

Assenza di madre. Vuoto di madre. Figlia negata. Figlia svuotata.

Vedo una bambina che guarda una donna da una finestra. La donna è triste, e sola. Ascolta una canzone, sempre quella.

La bambina alla finestra ha una fossetta sul mento e, guardando, sogna di una madre perduta.

Madre.

Io sono la madre.

Resistere all’abbandono, resistere all’assenza, resistere al desiderio disperato di morire.

Resistere al canto seduttivo del nulla.

Perché la storia non si ripeta.

Pulire il tavolo, sgombrarlo da tutto.

La sollevo dalla culla.

Nostra figlia è calda di sonno e pianto.

Sa di latte e di giorni ancora possibili.


L’ultimo petalo, di Miriam Ballerini


L’ultimo petalo

di Miriam Ballerini

Serel International


Racconti e poesie

Pagg. 179

ISBN 9788889401200

Prezzo € 15,00





Gli eroi di tutti i giorni





“La vita non è bianca o nera; la vita è un arcobaleno steso a lenire lo sconquasso del temporale. Proprio come quell’iride, il suo disegno non è tangibile, spesso va colto al volo”



“ …/ Sola con ciò che è la vita: / erba sotto i piedi / e quel basco turchese / a coprirmi la testa. “



Ritengo doverosa una premessa: in Italia le raccolte di racconti hanno sempre avuto poco successo, fatto del tutto inspiegabile ove si consideri che questa narrativa breve deve avere in sé le qualità del romanzo, cioè la presenza di una storia che nasce, si sviluppa e infine si conclude, compito di certo arduo quando si consideri che il tutto avviene in un numero ristretto di pagine; di conseguenza il racconto non può essere considerato una narrativa di serie B. Ancora più tragico è normalmente l’esito delle vendite dei libri di poesia, circostanza tanto più grave se si tiene presente che in questo campo il nostro paese ha dato autori di grande rilievo internazionale.

E dalla premessa passo al libro di Miriam Ballerini, che è una raccolta di racconti, ma anche una raccolta di poesie, e quindi è ammirevole il coraggio dell’editore di unire due generi che normalmente hanno scarso mercato. C’è tuttavia da precisare che nel volume in questione non si tratta di momenti astratti fra loro, bensì complementari, perché a ogni racconto segue una poesia che offre una visione più personale del tema svolto. E con più personale intendo riferirmi al fatto che mentre nei brani di prosa la presenza dell’autrice non si nota, nel senso che i personaggi sembrano agire in completa autonomia, nelle liriche invece, com’è del resto naturale, si esprimono sensazioni, si traslano emozioni che sono direttamente espressione del sentire dell’estensore.

E’ come se, dopo aver letto una storia, scritta in tono quasi asettico, potessimo cogliere ciò che effettivamente al riguardo prova l’autore, un bisogno impellente di esternarsi che trova la sua forma migliore nei versi.

E’ da un po’ che seguo il percorso letterario di Miriam Ballerini, sempre attenta all’uomo comune, con particolare riguardo a situazioni di disagio. Nei suoi scritti non troverete eroi del piccolo schermo, ma per lo più umili, che, in tal modo, vengono alla ribalta, illuminati dalla luce per quel breve periodo in cui la loro storia si svolge, per poi ripiombare nell’anonimato che li ha sempre contraddistinti.

Sono gli eroi di tutti i giorni, naturalmente vinti, ma che per un attimo hanno un guizzo che interrompe la monotonia di anni nel buio. E, per quanto di fantasia, sono personaggi reali, perché, a voler ben guardare, finiamo pure con il rispecchiarci.

La scrittura di Miriam Ballerini è scarna, ma non povera, è immediata e senza orpelli, di un realismo quasi assoluto, così da risultare efficace, coinvolgente e avvincente.

Sono storie di drammi, di piccole e grandi miserie, anche di riscatti, in una parola una vera e propria candid camera su una realtà osservata attraverso il filtro della fantasia.

Pagina dopo pagina, racconto dopo racconto, poesia dopo poesia ci si accorge di quanto ci sia di noi in quelle righe, uomini semplici, avvolti nella nebbia che solo l’estro creativo per un attimo riesce a dissolvere.

La lettura, senz’altro gradevole, è pertanto sicuramente consigliata.



 



Miriam Ballerini è nata a Como il 28 ottobre 1970.

Ha pubblicato i romanzi Il giardino dei maggiolini (EEditrice.com – Serel International, 2002), Dietro il sorriso del clown (EEditrice.com – Serel International, 2003), La casa degli specchi (Otma Edizioni, 2004), vincitore del premio internazionale Michelangelo, la raccolta di racconti e poesie Bassa Marea (EEditrice.com – Serel International, 2005), Fiori serra (EEditrice.com – Serel International, 2008).

Ha ottenuto ottimi risultati in diversi concorsi letterari nazionali e internazionali, collabora con riviste culturali e siti Internet.

Sito Internet personale: www.miriamballerini.com.



Recensione di Renzo Montagnoli










Mondoblog del 13 maggio 2012


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