sabato 23 giugno 2012

Il venditore di angurie, di Renzo Montagnoli


Foto da web


Il venditore di angurie

di Renzo Montagnoli





Una volta assai più numerosi, ora meno frequenti, ma chi non ha mai visto quei chioschi in fregio alle strade di uscita dalle città, oppure ai lati di certe provinciali preferite dal traffico veicolare perché più sgombre di auto? Una baracca, con il tetto di lamiera, sovente coperto da un po’ di paglia, un bancone ricoperto di alluminio, o più recentemente di plastica, come le quattro o cinque sedie messe lì alla rinfusa accanto a un tavolo di legno segnato dagli anni e dall’uso, una tinozza piena d’acqua con le angurie al fresco e, nella migliore delle ipotesi, un grande frigorifero con la porta a vetro ed in bella mostra delle fette rosse del frutto tipicamente estivo, oppure bene ordinate in un contenitore fra pezzi di ghiaccio che la calura va sciogliendo sempre più rapidamente: questa è una melonaia, annunciata lungo il nastro d’asfalto da cartelli scritti in un italiano spesso approssimativo, evidenziata nelle notti d’estate da una ghirlanda di luci multicolori.

Ce n’è una anche vicino a casa mia: è lì, come il suo proprietario, da quasi trentacinque anni. Si anima con i primi caldi e si chiude non appena le sere si rinfrescano. Dietro il bancone c’è Claudio, capelli bianchi che un tempo erano biondi, occhi chiari, il volto segnato dalle rughe, la voce che si è fatta roca per via di quei sigari che costituiscono al tempo stesso il suo vizio e il suo passatempo.

Di giorno apre i battenti verso le nove e la sera chiude quando non ci sono più avventori. 

Lo conosco da quando ero ragazzino; è un po’ più vecchio di me e non ha avuto una vita fortunata, perché il matrimonio si è rivelato un fallimento e l’unico figlio, che adorava letteralmente, una sera di novembre non è più tornato dal lavoro: a un incrocio, complice la nebbia, un autocarro gli si è parato davanti; inutile è stata la frenata e in quel fragore di lamiere contorte e vetri infranti con cui si è spenta quella giovine esistenza è iniziata per Claudio una lunga vita di solitudine che sembra non avere mai termine.

Per lui la melonaia non è solo un’attività, ma è molto di più, perché rappresenta un breve intervallo di vita; ascolta le chiacchiere degli avventori, si unisce alle stesse, arriva perfino a sorridere.

Quest’anno l’estate è cominciata prima del solito e già ai primi di giugno il caldo è stato soffocante, e con esso l’arsura, che solo una fetta di anguria dolce, tenera e saporita può calmare. Ho deciso, quindi, di comprarne una intera e ovviamente, anziché ricorrere al supermercato, dove peraltro costa meno, sono andato da Claudio.

Ricordo, come fosse ieri, l’emozione che ho provato nel vedere quei bei frutti verdi, oblunghi, gocciolanti d’acqua e il sorriso del venditore che ne magnificava le qualità.

A onor del vero, ho avuto qualche cosa da ridire sul prezzo, aumentato un po’ troppo rispetto allo scorso anno, ma Claudio ha saputo spiegarmi anche questo; ha abbassato gli occhi, poi, con voce bassa, mi ha detto:

- E’ vero, costano caro rispetto al supermercato, ma io non vivo che di queste e in una stagione devo fare la provvista di quel poco che mi è necessario per vivere, ma che è aumentato a dismisura… Mi accontento, a mezzogiorno un piatto di pasta, la sera spesso di un po’ di pane con il latte, ma anche questi hanno il loro prezzo, così come  l’affitto del monolocale dove vivo, la luce che in inverno è d’obbligo, il riscaldamento, i      pochi sigari, la benzina della motocarrozzina con cui vado a prendere dai coltivatori le angurie. Risparmio su tutto, ma non bastano mai.

E’ stato talmente convincente che, quando gli ho dato una banconota da 10 Euro, a fronte di un prezzo di 8, non ho potuto fare a meno di dirgli di tenere il resto, ma non ha accettato. Mi ha guardato negli occhi e con tono normale ha quasi scandito le parole:

 – Sono povero, è vero. Ti ringrazio, ma non offendermi con la tua misericordia.

Mi sono sentito un verme, ho abbassato lo sguardo, ho mormorato velocemente alcuni convenevoli per scusarmi e sono corso via.

Quando sono tornato le volte successive, nessuno di noi due ha accennato a quella mia infelice frase e anzi il tono di familiarità si è accentuato.

Un giorno, che non c’era nessun altro, mi ha detto:

- I tempi cambiano. Una volta si veniva da me per gustare l’anguria e per chiacchierare, oggi i più divorano quasi la fetta e poi scappano all’inseguimento di chissà che cosa e il saluto di commiato ha più il sapore di un obbligo di cortesia che del ringraziamento  per un po’ di tempo trascorso insieme. La gente corre come impazzita, ha molto di più come beni, come mezzi, ma in fondo in fondo si sente più sola di me.

Si ferma un attimo, abbassa gli occhi e riprende:

- Finita la stagione, io cambio e come un orso vado in letargo, modifico perfino il carattere, saluto appena, evito i clienti anche come te, perché non è il tempo per parlare. La solitudine può anche essere sopportabile se non ci sono brevi interruzioni della stessa, un po’ come il silenzio di cui non ti accorgi se non dopo un rapidissimo rumore. D’estate è diverso, con il brusio della strada, il viavai dei clienti… E la solitudine allora non esiste, nemmeno la notte, quando dormo sulla brandina dentro la  baracca.

Le sue parole fanno riflettere, i pensieri di quest’uomo scarsamente istruito sono una fonte che sgorga nel deserto, sono la base di qualsiasi esistenza e dimostrano che la felicità non è canonizzabile, ma come concetto è differenziato per ciascuno di noi. Claudio, nel pur breve periodo dell’estate, a suo modo è felice, perché realizza una condizione diversa dal solito, perché il contatto umano, per quanto spesso superficiale, può essere altamente gratificante.

Sì, lo ammetto, sono orgoglioso di essere parte della temporanea felicità di Claudio, perché pure io, quando ho modo di parlare con lui, mi accorgo di quanto la vita possa essere interessante: nel suo accontentarsi di così poco c’è tutta la ricchezza d’animo di chi sa che la vita è fatta di piccole cose, il cui significato, la cui portata, può anche essere molto grande.

Ed è con vero dolore che oggi ho appreso una notizia quasi sconvolgente.

Sono andato per la solita anguria e ho trovato il mio amico Claudio invecchiato, quasi fossero passati da ieri più di cento anni.

Mi ha mostrato una lettera del Comune nella quale, con quel tono asettico tipico della burocrazia, gli è stato comunicato che non gli verrà rinnovata la licenza per esigenze di sicurezza del traffico sulla provinciale, quasi che, se invece di un chiosco dove fanno sosta sempre meno auto, si trattasse di un’avvenente passeggiatrice che richiama decine di clienti.

Il vero motivo lo sappiamo entrambi: quell’area è stata resa edificabile e per costruire bisogna abbattere.

Ha le lacrime agli occhi, la voce che gli trema, quando mi dice:

- Fammi un favore, passa la voce in paese che oggi, ultimo giorno di vita della melonaia, ci sono angurie gratis per tutti. Voglio vedere tanta gente, sentire una moltitudine di voci e ...

La voce gli si spezza e il pianto diventa irrefrenabile.

Gli metto una mano sulla spalla: - Dopo, Claudio, qualche giorno vieni a trovarmi, stiamo un po’ insieme, magari ti fermi     anche a cena; guarda che mi farebbe piacere.

Si asciuga gli occhi, mi guarda fisso e mi scandisce con voce ferma: - Ti ringrazio, ma te l’ho già detto un’altra volta, se ricordi: non offendermi con la tua misericordia.

Non oso replicare, perché ha ragione; lo saluto, prometto che diffonderò la voce in paese e sto per andarmene quando lui mi allunga una bella anguria.

Non so se pagare o no, biascico un semplice ringraziamento e me ne vado, consapevole che non lo rivedrò mai più.  



(da “Storie di paese”)

  


Colazione con i Modena City Ramblers, di Milvia Comastri



Colazione con i Modena City Ramblers

di Milvia Comastri

Historica Edizioni


Narrativa raccolta di racconti

Pagg. 102

ISBN 9788896656433

Prezzo € 12,00





Sensibilità e delicatezza





La canzone cessò, lasciando echi di una dolcezza struggente.

Rimasero ancora abbracciati, ondeggiando leggermente.

Il ragazzo capì che era arrivato il momento di dirle della nave che fra poche ore lo avrebbe riportato a casa.

La ragazza si ricordò di una frase che le diceva sempre la nonna: che i sogni muoiono all’alba.  

(dal racconto I’m in the mood of love) 





I racconti non hanno un grande successo di vendite nel nostro paese ed è un vero peccato, perché per loro natura (sono notoriamente più brevi di un romanzo) si possono leggere velocemente, anche nella pausa lavoro, e hanno il notevole pregio di portare una storia compiuta, cioè che nasce, si sviluppa e finisce, il tutto in poche pagine. Come per la narrativa più lunga se ne trovano di buoni e meno buoni, e fra i primi metterei quelli di questa nuova raccolta di Milvia Comastri.

Sono dieci prose, alcune delle quali piuttosto brevi, che, fra i tanti pregi, hanno anche quello di presentare storie non campate in aria, ma assai plausibili. In ogni caso va dato  l’ulteriore merito all’autrice di portare alla ribalta personaggi non certo eroici, spesso umili, vittime sovente di una condizione imposta da una società classista, quale la nostra. Il tutto viene porto al lettore con delicatezza, senza imposizioni, e venato da un’accentuata sensibilità che smorza i toni eccessivi, amplifica la bontà dei sentimenti, lascia sempre uno spiraglio di speranza e, quando questo proprio non c’è, è solo perché la vita ha delle ineluttabilità a cui è impossibile opporsi.

In queste storie si passa dall’infermiere del reparto pediatrico-oncologico al giovane pescatore che, suo malgrado, va a lavorare in terraferma, dal libraio che la grande distribuzione gli impedisce di continuare a lavorare a un amore perso e poi ritrovato.

Si potrebbe dire che ce n’è per tutti i gusti e che le trame sono così variegate che è impossibile che non riescano ad accontentare tutti i lettori, perché c’è sempre la possibilità di imbattersi in qualcosa che si gradisce meno, ma è compensata da ciò che piace di più.

Personalmente quelli che mi sono piaciuti maggiormente, anzi che mi sono piaciuti tanto, sono Antonio e l’odore del mare e I’m in the mood for love.

Nel primo c’è un ambiente che si trova frequentemente negli scritti di Milvia Comastri, quel mare che è simbolo di libertà, e come tale difficile da mantenere, spesso da conquistare. Antonio e l’odore del mare poi introduce discorsi di ordine sociale, di disoccupazione, di lavoro ingrato, ma c’è anche una speranza, con quella scena di Antonio e di Amid, un immigrato marocchino, seduti all’ultimo piano dell’edificio in costruzione per la pausa pranzo e che guardano lontano, un orizzonte in cui si indovina il mare, un mare personalizzato per entrambi.

I’m in the mood for love è il racconto breve, semplice, ma struggente, di un breve incontro, di una parentesi d’amore che si apre e si chiude quasi in un battito di ciglia, con i due protagonisti che sanno che non potrà durare, ma che si abbandonano a un ultimo scambio di affetto come solo due ragazzi, nel corso di una guerra, sanno fare, per vincere la paura, per riprendere la speranza in un domani, anche se questo li vedrà separati.

Vi assicuro che questo racconto è stupendo, con un’atmosfera tenue ricreata in modo magistrale, poche pagine che da solo valgono l’intero libro, tanto sanno farsi cogliere dal lettore.

In ogni caso, il mio consiglio è che acquistiate Colazione con i Modena City Ramblers, perché merita, perché lì la banalità di non pochi autori moderni è bandita e anche perché ritrovare i sentimenti più belli porta a un etereo senso di serenità.  







Bolognese, Milvia Comastri è autrice di “Donne, ricette, ritorni e abbandoni” (Pendragon), una raccolta di racconti che hanno vinto diversi concorsi letterari. Questo è il suo secondo libro.



Intervista a Milvia Comastri, autrice della raccolta di racconti Colazione con i Modena City Ramblers, edito da Historica







Sono passati sette anni dall’uscita di Donne, ricette, ritorni e abbandoni, un’altra raccolta di racconti edita da Pendragon, e che io ho avuto occasione di leggere nella primavera del 2006, formulando un giudizio positivo, estrinsecato nella recensione che è possibile leggere qui. In quella circostanza ebbi a evidenziare che si trattava di vicende spesso semplici, narrate con garbata partecipazione, una caratteristica dell’autrice che è possibile ritrovare anche in questo nuovo libro. Insomma, non c’è bisogno di storie astruse, spesso tirate per i capelli, per rendere gradevole e avvincente la lettura, perché quel che più conta è una freschezza di stile che mai appesantisce, riuscendo anche a colpire con immediatezza. Là mi aveva impressionato in particolar modo Il compleanno di Amalia Gargiulo; qua, invece, è un racconto brevissimo che mi è rimasto dentro nonostante il titolo non proprio italiano: I’m in the mood for love. Belle anche queste nuove prose, ma mi chiedo, o meglio ti chiedo: perché non scrivere un romanzo, magari prendendo spunto da una di queste storie?



Già… sette anni. Un lungo intervallo di tempo dalla prima pubblicazione. E dire che di cose, nel cassetto, ne ho. Molti racconti, ma non solo. Ma rimangono lì, in attesa. Per ora, almeno.

Racconto storie semplici, dici. Credo che tu abbia ragione: spunti di narrazione li colgo spesso da frammenti di discorsi ascoltati sull’autobus, dall’espressione che mi pare di leggere in una persona incontrata per caso, da spizzichi di conversazioni al cellulare, su un treno. Attimi di vita di gente comune, di uomini e donne come me, insomma. E dopo, parte l’immaginazione.

Credo anche che il racconto, proprio per la sua forma breve, non possa addentrarsi in storie troppo complesse: una storia complessa, mi vien da dire, si troverebbe a disagio, in un racconto, come una balena stretta fra le rive di un fiume. Ma, forse, è questione di capacità, e un bravo… allevatore di balene,

non avrebbe problemi a far vivere felicemente il suo cetaceo anche in un piccolo fiume. Non so, può essere che sia io, a non saper racchiudere una storia complessa in un racconto.

Chissà perché proprio quel brevissimo I’m in the mood for love, ti è rimasto in testa? Noto, nonostante il tuo apprezzamento per il testo, un lieve disappunto per la scelta del titolo, che è in inglese: ed è il titolo, come sai, di una vecchia canzone. Perché, ora te lo dico, fra le fonti di ispirazione che ho precedentemente citato, ce n’è anche un’altra, ed è la musica. Avrai notato che in più di un racconto vengono citati titoli o brani di testi di canzoni, e, d’altra parte, il titolo stesso della raccolta propone il nome di un gruppo musicale che, fra l’altro, è uno dei miei preferiti nel panorama musicale italiano. Così, un giorno, ascoltando I’m in the mood for love, ho immaginato un ragazzo e una ragazza mentre stavano ballando. Ecco tutto.

Ho scritto, prima, che ho molte cose, rinchiuse in un cassetto. Molti racconti, è vero. Ma anche un romanzo. E così rispondo alla tua domanda. Sì, il romanzo c’è. Incompleto, per ora, e mi vergogno un po’ per non averlo ancora finito, visto che l’ho iniziato nel 2005. Però, dopo un lungo periodo di stasi, ora, pian piano, sta andando avanti. Ha anche un titolo: Isole, si chiama. E la storia, questa volta, non è semplice: è una saga famigliare, tre generazioni di donne, ognuna con il proprio segreto, ognuna chiusa nel proprio isolamento. Queste donne io le amo, anche se nessuna di loro mi assomiglia. O forse, no, forse, qualcosa di me lo hanno tutte. Devo proprio finirlo, questo romanzo.



Non è solo questione d’ispirazione, ma di trovare il giusto tempo per mettere nero su bianco quello che aleggia nella mente. Ti capisco, perché capita anche a me, che in questo periodo ho tante idee, ma riesco a concretizzare ben poco. Quando parlo di storie semplici non intendo dire che possano apparire banali; al riguardo di banalità ce n’è anche troppa in giro e ad opera anche di autori di una certa caratura. Osservare la vita, le persone aiuta a mettere a fuoco atteggiamenti, anche comuni, ma che assumono di volta in volta le caratteristiche di ogni individuo e per questo mi piacciono le tue storie, così normali e al tempo stesso così originali, e poi il tutto sta nel come vengono raccontate, nei punti che si intendono evidenziare e in quelli che si vogliono sfumare. E’ una questione di equilibri e nel libro ci sono.

Ricorrono alcuni sfondi fondamentali, quali la musica e anche il mare, e questi sono peculiari dell’autrice. L’inserimento di alcuni versi di canzoni, secondo me, non ha solo la funzione di un motivo di supporto al discorso, ma credo che il ricordo della relativa musica sia un valido aiuto nello svolgimento del tema, insomma una fonte, mediata, d’ispirazione. E’ così?



Lo so che con “semplice”, non intendi banale. Una delle mie paure, quando scrivo, è proprio di scivolare nella banalità (e anche di essere patetica).

Sono contenta, poi, che tu trovi equilibrata la struttura dei miei racconti. Evidenziare e sfumare non è facile, e si rischia, se non si usano le giuste dosi, di rendere incomprensibile al lettore la narrazione (come accade per una ricetta, la giusta dose dei componenti è indispensabile). E anche non raggiungere un giusto equilibrio è una delle mie paure, quando scrivo (e anche quando cucino…)

Hai perfettamente ragione quando dici che la musica, nei miei racconti, non è un supporto alla scena. Non è, infatti, una semplice colonna sonora della storia. Direi che, quasi sempre, è il contrario. La musica, che amo in quasi tutte le sue espressioni, mi evoca immagini, ricordi personali, emozioni. Certa musica, certe canzoni, mi rendono, come dire… creativa. E così, come è accaduto con I’m in the mood for love, è dalla musica che nasce il racconto. Anche se poi, il racconto, non ha niente a che fare con il testo della canzone.

Guarda, io non potrei stare senza leggere, leggo libri da quando avevo sei anni, e da allora non è mai praticamente trascorso un solo giorno senza che abbia letto almeno qualche pagina di un libro. Però, sai, se dovessi scegliere fra non poter più leggere, o non poter più ascoltare musica… mah, non sarebbe una scelta facile. Sarebbe difficilissima, in verità. Ma spero proprio di non dovermi mai trovare davanti a una simile scelta.



Un altro sfondo è costituito dal mare, che probabilmente è visto come infinito spazio di libertà. Lo è per Antonio e lo è per Davide, protagonista di Libri sull’acqua, il racconto più lungo della raccolta. Ma sarebbe troppo semplice definirlo così e allora ti chiedo che cos’è per te il mare?



“Il mare, è la voce del mio cuore…” cantava, in un vecchio Festival di San Remo, il mio concittadino Giorgio Consolini, recentemente scomparso. Non so se davvero il mare sia la voce del mio cuore. Il mio cuore ha molteplici voci, vibra per diversi elementi legati alla natura. Ma, in due cittadine di mare, ho trascorso più della metà della mia vita: a Fano, nella primissima infanzia, e a Igea Marina, per trentaquattro anni della mia vita da adulta. “E qualcosa rimane, fra le pagine chiare e le pagine scure…” (altra citazione canora, da me molto più amata della precedente) del tempo. Rimane, come tu dici, l’idea di infinito spazio di libertà, rimane l’odore, rimangono i colori che mutano in sintonia con il cambiamento del colore del cielo. Per anni ho pensato che mi sarebbe piaciuto vivere su una barca (“e navigando con le vele tese, io sempre cercherò il mio orizzonte”: autocitazione, questa). Oggi non so. Oggi, che ho ripreso a vivere in città, ho scoperto come può essere pacificatore e terapeutico sedersi sulla riva di un fiume, o camminare in un bosco. Forse, oggi, il mare, è qualcosa di troppo immenso, per me.



Sì, forse spazi più raccolti, quando siano pressoché incontaminati, hanno il pregio di isolare dal mondo e di nutrire l’anima, in una sorta di simbiosi con la natura che ci circonda e di cui – non dimentichiamolo – siamo parte spesso prepotente e irrispettosa.

Ho notato una frequente tematica relativa a donne vessate, e nella migliore delle ipotesi trascurate dagli uomini, donne che poi riescono a dare una svolta alla loro vita ribellandosi e troncando un rapporto turbolento, oppure asfittico. Non è per difendere la mia categoria, ma mi sembra che non siano infrequenti i casi contrari, cioè di uomini tormentati dalle compagne.

Mi piacerebbe che una volta tanto ci fosse un racconto in tal senso, se non altro - per dirla con una locuzione latina oggi tanto di moda – per par condicio. Non trovi che in questo XXI secolo, pur in presenza di retaggi maschilisti del precedente, ci possano essere situazioni come quelle da me sopra auspicate? E in ogni caso, perché la vittima dovrebbe sempre essere solo la donna?



Domanda interessante, che richiederebbe una risposta molto lunga e articolata. Ma mi sforzerò di stare in limiti accettabili.

Solitamente, giudico le persone non tanto per il genere sessuale di appartenenza, ma, appunto, come persone. Non mi piacciono troppo le contrapposizioni, gli schieramenti che mettono da una parte tutti i buoni e dall’altra tutti i cattivi. Ma una considerazione la devo fare: se è vero che ci sono uomini vessati dalle donne, la loro percentuale è di gran lunga inferiore a quella delle donne tormentate dagli uomini. Non lo dice solo la mia esperienza basata su racconti di altre donne, ma lo dicono le statistiche, quelle che riguardano il femminicidio, per esempio. Penso che tu sappia che, dall’inizio dell’anno, le vittime accertate di questo crimine orrendo, sono 56. Donne uccise da uomini, nella maggior parte dai loro compagni o ex compagni.

I retaggi maschilisti dello scorso secolo esistono ancora: “o mia, o di nessun altro” è ancora, nel XXI secolo, una folle concezione su cui molti, troppi uomini, basano il rapporto di coppia. Poi ci sono le donne vittime di violenze sessuali… E, drammi meno cruenti, ma sempre drammi, ci sono le donne che più facilmente degli uomini, in questo periodo di crisi, perdono il lavoro.
E all’elenco di vessazioni nei confronti delle donne, se ne potrebbero aggiungere molte altre.

Per fortuna esistono, e spero non siano pochi, anche uomini splendidi, che le donne le rispettano e non le valutano come oggetto di appartenenza.

E, certo, esistono donne (la minoranza, io credo) che gli uomini li tormentano e li vessano. Raramente, però, li uccidono. E, forse, un giorno scriverò un racconto proprio su di loro. Non tanto per par condicio, ma per narrare una realtà diversa.



Sì, effettivamente è raro il caso di donne che uccidono uomini, mentre il contrario è imparagonabile. Io sono sempre dell’idea che queste prevaricazioni degli uomini sulle donne, frutto di una mentalità distorta, abbiano origine nella famiglia e in particolare nel ruolo della madre che, spesso inconsciamente, tende a privilegiare il ruolo del maschio.

Altro argomento che ti è caro è quello letterario e un classico esempio è portato da uno dei racconti, Libri sull’acqua, in cui il protagonista, che fa tanto tenerezza, è un uomo. Potevi mettere una donna, ma hai messo un uomo, forse uno di quei maschi splendidi di cui accenni nella precedente risposta.

Al di là di festival letterari e di fiere del libro, resta un fatto incontrovertibile: si vendono sempre meno libri. E imputarne la causa alla crisi economica è secondo me molto riduttivo. I motivi di questo calo, a mio avviso, vanno ricondotti alle famiglie, che sempre meno inculcano ai figli il piacere e l’utilità della lettura, alla scuola che presenta gravi lacune, accentuate dalle recenti riforme, e anche a una progressiva disaffezione, soprattutto dei giovani, per la cultura (è di questi giorni la notizia che è in diminuzione il numero dei laureati).

Qual’é la tua opinione al riguardo?



Mi fa piacere che tu citi Davide, il libraio protagonista di Libri sull’acqua, perché è un personaggio che amo particolarmente.
Così come la famiglia è fondamentale nell’educazione sentimentale e civile di un figlio (ed è purtroppo vero che alcune madri, con il loro privilegiare il figlio maschio producono danni ingentissimi, ma anche i padri, però, non sono da meno, privilegiando le figlie femmine), così ha un ruolo molto rilevante nell’inculcare ai propri figli l’amore per la lettura. Io mi ritengo molto fortunata: se la lettura è diventata, per me, una sorta di fame, e se, anche attraverso la lettura, ho cominciato a scrivere, lo devo a mia madre, che, pur non avendo un alto titolo di studio, leggendomi ad alta voce i suoi autori preferiti, regalandomi qualche giocattolo, sì, ma anche tanti libri, mi ha fatto innamorare del mondo della letteratura (ma anche della musica, e del teatro..).

Però è anche vero che non tutte le famiglie sono in grado di trasmettere questo amore, e non si può colpevolizzarle, per questo. Il discorso qui, si farebbe molto lungo, dovrei parlare del rapporto TV/famiglie, dei tempi ristretti che i membri della famiglia hanno a disposizione per comunicare fra loro, e altro ancora. Ma non è questo il luogo.

Pur non sottovalutando il ruolo della famiglia, credo che debba essere principalmente la scuola a far… come dire… da Cupido. Non è che a scuola non si legga e non si parli di libri. Ma come lo si fa? Nella maggior parte dei casi lo si fa male, l’approccio è solo accademico e noioso, gli autori degli ultimi cinquant’anni sono pressoché ignorati. Tanto è vero che i libri fatti leggere dagli insegnanti vengono odiati dai ragazzi, che poi, magari da adulti, se capita loro di riprenderli in mano, ne scoprono stupiti la bellezza. Si possono forse condannare, questi ragazzi? Non credo proprio. Non puoi far leggere un libro a un ragazzino e poi obbligarlo a scriverne il riassunto, o un piccolo saggio. Che poi si sa come vanno a finire queste cose: una volta lo studente copiava da una enciclopedia cartacea, ora copia e incolla da Wikipedia… Meglio sarebbe, secondo me, leggere ad alta voce il libro in classe e poi aprire un dibattito cui, collettivamente, possano partecipare tutti gli allievi, ma senza obbligo. Leggere insieme un libro avvincente, e, perché no, interrompere la lettura in classe in un punto particolarmente interessante, potrebbe indurre i ragazzi a continuare la lettura per conto loro, non più per dovere, ma per piacere. E potrebbero scoprire quanto è bello leggere. Mi sto dilungando troppo, ma l’argomento è veramente ricco di suggestioni.

Forse, comunque, la crisi un poco c’entra, con il calo di vendita della librerie… I libri costano davvero tanto.

Per il calo del numero dei laureati, che dire? O un ragazzo si laurea per puro amore del sapere (ammesso che le Università siano culle del sapere), oppure che spinta può avere a conseguire la sua laurea? Quella di andare a lavorare in un call center? Son tempi duri, durissimi. E per i giovani, soprattutto. Che non sono così superficiali e… fannulloni come li si descrive. La maggior parte ha perduto i propri sogni, e di questo siamo tutti responsabili.



Io non me la sento di dare la colpa all’attuale generazione; la vita è un susseguirsi di eventi che finiscono inevitabilmente per ricollegarsi. Noi siamo i figli di chi, terminata la guerra, si è rimboccato le maniche e, fra mille difficoltà, è riuscito a portarci un po’ di benessere, sul quale ci siamo adagiati, e, senza che portassimo ai nostri figli insegnamenti negativi, non siamo riusciti a far comprendere loro che questa seppur modesta agiatezza era il frutto di sacrifici e che nella vita il denaro è sì importante, ma non è il fine della stessa. La scuola ha una responsabilità relativa, perché gli insegnati attuali sono cresciuti in quell’assenza di valori che impedisce di far comprendere agli allievi che la cultura è soprattutto libertà. Come vedi la situazione attuale trova spiegazioni nel passato, come sempre.

Non è un caso, quindi, se fra i racconti c’è E una sera se n’è andata, perché di personaggi così opachi e vegetali se ne incontrano sempre di più. Gli ideali sono spariti e senza questi non è possibile vivere, se non alla giornata.

Ma veniamo alle domande dell’intervista.

Mi sono chiesto - e penso che la stessa domanda potresti rivolgerla a me – perché mi abbia così colpito un racconto dal titolo in inglese. La lingua non c’entra niente, anzi nel caso specifico è necessaria. Ho pensato a lungo e ho concluso che nella sua disarmante semplicità questo racconto descrive in modo ineccepibile un breve incontro, una storia del cui esito i protagonisti sono consapevoli fin dall’inizio; eppure ci credono, si illudono, intendono dare un significato al loro rapporto che va oltre l’aspetto affettivo, vogliono creare una parentesi di umanità negli orrori di una guerra, desiderano fortemente che nasca una speranza d’avvenire. Accettano l’effimero tempo di questa unione come ineluttabile, ma il loro è un carpe diem che li fa tornare alla vita.

Ecco, non so se la mia interpretazione sia esatta ed è appunto questa la domanda: ho colto nel segno?



Ma neppure io mi sento di dar la colpa alle nuove generazioni! Ci mancherebbe… Forse qualcosa nella mia precedente risposta ti aveva fatto pensare che io le condannassi? Se è così, significa solo che non sono stata chiara.

Sul tuo drastico giudizio sulla scuola e sugli insegnanti non sono completamente d’accordo. Non tutti gli insegnanti sono cresciuti con un’educazione priva di valori: credo che molti di loro, nonostante tutto, facciano il possibile per trasmettere agli allievi le regole basilari del vivere civile. Purtroppo non è facile, troppi ostacoli da superare, sul loro percorso.

Ma torniamo ai racconti. Trovo singolare la tua analisi di “E una sera se n’è andata”. Non credevo di aver raccontato una storia che fosse, in un certo senso, uno specchio dei tempi: così, come l’ho visto io, è un rapporto fra coniugi come poteva esistere anche cento anni fa, con la sola differenza che, cento, ma anche trenta, quarant’anni fa la donna sarebbe rimasta accanto a quel marito così poco sensibile alle sue esigenze. Ma mi piace la tua interpretazione, anche se è diversa dalla mia, perché amo pensare che, una volta che il mio libro passa nelle mani del lettore, non mi appartenga più, e ognuno ci possa vedere, dentro, quello che più gli aggrada.

Siamo invece in sintonia sull’interpretazione dell’altro racconto,I’m in the mood for love”. Hai colto nel segno, parola per parola. Non ho vissuto quegli anni (non son mica così vecchia…), però, forse attraverso letture e film ambientati in quegli anni, credo di averne introiettato l’atmosfera. Credo, almeno.



Non ti sei spiegata male, il mio è un giudizio in sintonia con il tuo sulle assenze di colpa per l’attuale generazione. Per quanto riguarda la scuola gli insegnanti di cui accenni ci sono indubbiamente, ma non sono la norma, bensì quasi delle mosche bianche. Per rendere partecipi gli allievi occorre passione, capacità di stimolare, di proporre, coinvolgendo, la materia, e ciò spesso manca. In relazione alla mia interpretazione di E una sera se n’è andata non dobbiamo dimenticare che siamo nel XXI secolo e che molte cose, alcune in bene, altre in male, sono cambiate. C’è stato un progressivo svilimento del concetto di famiglia, circostanza che, dopo una primavera al riguardo avutasi nel dopoguerra, incide sul rapporto di coppia e che tende a chiudere, soprattutto dalla parte maschile, un dialogo affettivo relegando la convivenza a quella ripetitività alienante di cui proprio spesso la donna è più vittima.

Io ho espresso le mie preferenze per i racconti, ma vorrei chiedere a te che li hai scritti quale é quello a cui sei più affezionata e per quale motivo?



Prima di rispondere alla tua domanda, vorrei soffermarmi brevemente sul concetto di famiglia. Non sono sicura che ci sia stato uno svilimento di questo concetto. Forse c’è stata una trasformazione, un ampliamento: la famiglia, nel senso di coppia, oggi, non deve essere necessariamente sancita da certificati o da cerimonie siano esse civili o religiose, né deve essere, necessariamente, composta da un uomo e da una donna. Lo svilimento, forse, è più dei sentimenti. Ma non ne sono molto sicura. Le coppie “e vissero per sempre felici e contenti” erano rare anche un tempo. Ma una volta non c’era il divorzio, e quel “per sempre” era, spesso, una condanna.

Come ti ho già detto, un personaggio che amo è Davide, il protagonista di “Libri sull’acqua”. Ma il mio racconto preferito è “Angelo dei bambini”. Anche se non amo scrivere storie autobiografiche, in molti miei racconti ci sono frammenti di esperienze personali. In “Angelo dei bambini” di questi frammenti ce ne sono diversi. Anni fa assistetti per una settimana una mia carissima amica ricoverata all’Istituto dei tumori di Milano, nel reparto riservato al trapianto delle cellule staminali. Quel piccolo reparto si trovava proprio accanto a pediatria. Il racconto è nato da quella esperienza dolorosa: quel bimbo che cammina lungo il corridoio portandosi appresso il trespolo della flebo l’ho conosciuto, e ho conosciuto la disperazione aggressiva di sua madre, e i parenti della ragazzina che veniva dal sud, e il padre smarrito, nella sua tenerezza verso il figlioletto neonato. E di angeli, sì, di angeli dei bambini, ce n’erano tanti, fra il personale paramedico. Ho sentito l’esigenza di raccontare di loro, forse per stemperare il dolore e il senso di impotenza che ho provato in quei lontani giorni milanesi.



La famiglia è l’unione di più persone sostenuta dal reciproco affetto, e non importa che esista un vincolo matrimoniale, bensì quel che conta è che i suoi componenti si sentano parte attiva, non solo rispettandosi reciprocamente, ma anche donandosi l’un l’altro. Non conosco altri significati, se non quelli giuridici, che ovviamente prescindono dal legame affettivo. Anche un tempo di coppie felici ce n’erano poche, ma la differenza sostanziale è che ora la maggior parte dei componenti della famiglia, a partire dal marito e dalla moglie, sono già infelici per conto loro; insoddisfatti uniscono le loro piccole tragedie personali e frequentemente quel sottile filo invisibile che li legava finisce con lo spezzarsi. E in questi casi o si procede come estranei sotto lo stesso tetto, o ci si lascia; esiste un’incomunicabilità che il mettersi insieme non può sanare e quindi l’istituto familiare si svilisce in una sorta di banco di prova che solo raramente dà buoni frutti.

Penso che si possa passare all’ultima domanda, quella che è quasi d’obbligo: e ora che farai? Che progetti, ovviamente letterari, sono in corso, oppure solo in nuce?



Senza dubbio questi sono anni di depressione e di infelicità. Ma, anche se io stessa ho ricevuto schiaffi, o meglio pugni, dalla vita, continuo ad avere speranza, continuo a credere nella, a volte… insostenibile, bellezza della vita, della natura, e anche nell’altrettanto insostenibile, a volte, gioia che l’amore ti procura.

Di un mio progetto letterario ho già detto nella prima risposta. Quel romanzo, “Isole”, in attesa di essere concluso. Celeste, Assunta, Nadia e Mira, le quattro protagoniste, ogni tanto mi si presentano davanti, si piazzano le mani sui fianchi e: “Allora?” mi chiedono, “Dobbiamo aspettare ancora molto?”. Un po’ di pazienza, care amiche… L’attesa sarà breve, care le mie donne. Ve lo… quasi prometto. E poi, sorpresa sorpresa, ho già una mezza ideuzza per un sequel. Si sa mai…

Ho poi molti racconti, alcuni già pronti per una raccolta, altri legati da un filo, direi, noir, che, forse, potrebbero interessare qualche editore. E poi… E poi chissà. Che la vita è sempre piena di sorprese.

Grazie, Renzo, per il tempo che mi hai dedicato e per le tue intelligenti domande, che mi hanno anche portato a fare riflessioni su di me e sulla mia scrittura.



Sono io a ringraziare te per la piacevole conversazione e, nell’accomiatarmi, ti auguro che questo libro ti dia le soddisfazioni che senz’altro meriti.





Recensione e intervista a cura di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 23 giugno 2012


I miei consigli per questo fine settimana:



















































sabato 16 giugno 2012

John e Milena, di massimolegnani

                                                                      Foto da web


John e Milena

di massimolegnani





Dopo appena sei giorni il silenzio fra loro divenne la regola. Regola e necessità di trovare un’altra via di comprensione, perché a parole Milena e quell’omone che un pomeriggio aveva suonato alla sua porta proprio non si capivano. Chi fosse le era apparso subito evidente, cappellaccio, scarponi e fango, bastone e zaino zeppo, doveva essere un camminatore, quasi certamente impegnato nel percorso della via francigena che passava lì vicino, come pure non aveva avuto bisogno di chiedergli che cosa volesse, ovvia la doccia, impellente un letto per la notte. In periodo di bassa stagione Il Glicine, bed&breakfast inaugurato di recente, era privo di ospiti per cui lei lo aveva accolto con particolare entusiasmo.

Quella sera non c’erano stati problemi di comunicazione, l’uomo stravolto dalla fatica aveva consegnato il passaporto e, ritirata la chiave, era subito salito alla sua stanza. Probabilmente si era addormentato senza nemmeno cenare.

La donna, compilando la scheda con i dati del cliente, John McCullough, 45 anni, australiano di Crane, località imprecisata del Queensland, era stata presa da una sottile eccitazione, finalmente avrebbe collaudato con uno straniero madre-lingua il proprio inglese, frutto recente di un corso full-immersion, immersione per altro assai salata. Purtroppo al mattino era riuscita a scambiare solo pochi convenevoli, intuendo più che capendo le risposte dell’ospite. Poi l’uomo aveva saldato il conto ed era ripartito. Lei aveva provato un vago rammarico mentre lo guardava allontanarsi appesantito sotto il carico; la sua mole già spossata alla partenza ispirava tenerezza, qualche parola in più con lui l’avrebbe detta volentieri.

Grande lo stupore quando il turista era riapparso alla sua porta poco prima del tramonto.

- La credevo ormai lontano, a scalar le mura di Monteriggioni se non a Siena a riposare all’ombra della Torre - gli aveva detto a mo’ di saluto in un inglese che le era sembrato impeccabile.

John l’aveva guardata strizzando gli occhi come si stesse sforzando di capire, poi aveva scosso il capoccione e allargando le braccia aveva iniziato un lungo discorso di cui Milena comprese solo sorry e poco più. Sembrava che l’uomo volesse giustificare la propria ricomparsa o forse cercava di spiegare qualcos’altro, il tono era impacciato e docile, la voce piacevolmente cavernosa, ma le parole erano un alternarsi di suoni duri e altri strascicati che poco assomigliavano alla lingua imparata da Milena.

La stessa scena, con piccole varianti, era stata replicata nei giorni a seguire.

L’australiano partiva al primo sole con il suo passo barcollante, dopo aver pagato il dovuto per la notte e averla salutata con calore, anche abbracciandola come non dovesse rivederla più, ma nel tardo pomeriggio era di nuovo lì a chiedere una camera con l’imbarazzo di un bambino sorpreso con le mani nella marmellata. E invece nelle mani stringeva qualche fiordaliso o pochi papaveri sgualciti da offrire alla donna che non cessava meraviglia.

Lei aveva presto imparato a non chiedere il motivo di quella bizzarria, gioiva ad ogni suo ritorno e sorrideva porgendogli sempre la stessa chiave.

“Florence” le aveva detto lui una delle prime sere, ma Firenze giorno dopo giorno era apparsa sempre più distante, sembrava che John non riuscisse a staccarsi da quel luogo, un’attrazione più forte dei propositi. A Milena, osservando la sua imponenza in controluce e il tenue smarrimento che conservava negli occhi anche se rideva, era venuta in mente l’immagine di una balena spiaggiata. Contravvenendo all’etichetta della brava proprietaria, aveva preso l’abitudine di cucinare per entrambi, non tollerava l’idea che lui si nutrisse a scatolette nella solitudine della stanza. Cene consumate con naturalezza in cucina accanto alla stufa accesa, John divorava ogni novità, lei si deliziava alla sua fame. Solo le parole erano ancora faticose come il primo giorno.

Una sera l’uomo aveva cercato di spiegare, scandendo ogni sillaba: - Nel bush parliamo un inglese storpiato che nessun cittadino britannico sarebbe in grado di capire.-

Lei aveva annuito come avesse ben compreso, poi in un moto di sincerità aveva chiesto: - Bus? What a bus?

ripetendo la domanda a mezza voce anche in italiano,

- Quale autobus?

come tentasse di trovare da sola il bandolo del discorso.

Un breve imbarazzo quindi avevano riso all’unisono. L’unica certezza tra loro era l’incomprensione della lingua. Così, senza nemmeno stabilirlo avevano deciso il silenzio.

Accantonate le parole come un libro fascinoso ma difficile, quella sera non fecero altro che tacere.

Qualche sorriso da una poltrona all’altra, la musica soffusa, il Morellino sorseggiato con lentezza, gli sguardi che s’incrociavano tranquilli, l’ostinazione della pendola che restava inascoltata.

Milena fissò le mani forti e inoperose dell’uomo, ne immaginò il tocco sulla pelle, quasi lo sentì, incredibilmente delicato. John andò fantasticando sui paesaggi appena attraversati e si sorprese a confondere le ondulazioni delle terre di Siena con le forme morbide di lei, convinto di saperle senza approssimazioni.

Una piccola felicità era lì a portata di silenzio.


La notte della cometa, di Sebastiano Vassalli




La notte della cometa

con il racconto Natale a Marradi

di Sebastiano Vassalli

In copertina Gianni Segantini, graffito su cartone,

1894 Zurigo, Kunsthaus

Giulio Einaudi editore

Narrativa romanzo

Collana ET Scrittori

Pagg. 282

ISBN 9788806205096

Prezzo € 11,00




La Poesia





Dino Campana nacque a Marradi il 20 agosto 1885 e morì a Scandicci il 1° marzo 1932.

La sua fu una vita travagliata, errabonda, con ogni probabilità del tutto infelice, un’esistenza al di fuori di ogni canone, con frequenti ricoveri in manicomio.

Rifiutato di fatto dalla madre, tollerato dal padre, emarginato dai suoi compaesani che lo consideravano “il matto”, osteggiato dai letterati dell’epoca, non è difficile comprendere come Dino Campana sia passato da una naturale predisposizione (uno zio era pazzo e lo stesso genitore aveva trascorso un  breve periodo in una clinica per malati mentali) alla malattia vera e propria, diagnosticata dallo psichiatra Carlo Pariani in ebefrenia, una forma acuta e particolarmente grave di psicosi schizofrenica.

Ma Dino Campana era veramente un alienato mentale e, se lo era, quali furono le cause? E’ questo che si deve essere chiesto Sebastiano Vassalli quando iniziò ricerche in proposito, ultimate le quali scrisse questo libro, una vera e propria biografia del poeta di Marradi che spesso sconfina nel romanzo, nell’indagine storica, nell’analisi comportamentale, e che non solo consente di avere un’idea abbastanza esatta dell’uomo Campana, ma anche una maggior comprensione dei Canti Orfici, il suo poema, il riflesso di una persona sola e senza speranza che si rifugia nell’unica soluzione possibile: uno stato di dormiveglia in cui il sogno è la valvola di sfogo per fuggire da una realtà intollerabile.

Rifiutato da tutti, più volte internato in manicomio, appare  un’immagine del poeta simile a un anarchico errante, ma che non distrugge, non contesta, bensì rifiuta quel mondo che non lo vuole fino ad autodistruggersi, non prima però di aver alzato il suo canto di dolore e di libertà, quei Canti Orfici, prima osteggiati da tutti e poi, molto più tardi, dopo la sua scomparsa, osannati.

Si potrebbe dire che Campana presenta uno sdoppiamento della personalità: l’uomo, emarginato dalla società, che vive alla giornata seguendo improvvisi impulsi, e il poeta, o meglio la poesia. Come precisa Vassalli ci sono scrittori di poesie, ma Dino non lo è, perché in lui vive la poesia e finisce con il diventare la poesia stessa, una poesia onirica. Così Campana diventa un mezzo, una voce attraverso la quale la poesia parla, uno strumento di cui egli stesso è artefice e succube, è l’unica vita possibile che gli è rimasta e nulla ha più senso dopo il completamento dei Canti Orfici, un’opera che per l’autore è un volo senza tempo, la misura dell’esistenza di un uomo a cui è stato reso impossibile vivere da uomo.

Vassalli scrive “Ma forse è proprio vero che i poeti appartengono ad una specie diversa, «primitiva», «barbara», da sempre estinta eppure sempre in grado di rinascere come quella dell’araba fenice. I poeti autentici, dico: non i letterati o gli scrittori di poesie, ma proprio quelli per mezzo dei quali la poesia parla. Gli unicorni, i mostri”. E’ forse il più bell’omaggio a Campana, ma non è gratuito, è una valutazione ragionata, che mi trova d’accordo.

E i Canti Orfici diventano così la giustificazione di un’esistenza invivibile, quasi un’altra vita, autonoma, ma immortale.

Vassalli ha inoltre il pregio di inquadrare il personaggio nella società dell’epoca, con degli spaccati precisi e fluenti di non pochi ambienti, da quelli di paese ai letterari, dagli ambienti universitari alla triste condizione dei ricoverati in manicomio, un lavoro preciso - si potrebbe definire di cesello – che aiuta molto a comprendere la figura di Campana, forse un originale che non sarebbe mai impazzito se fosse stato accettato e rispettato come tale.

Avremmo avuto così un Dino Campana diverso e Sebastiano Vassalli avrebbe potuto scrivere questo libro solo con l’estro della fantasia, come del resto precisa “Ma se anche Dino non fosse esistito io ugualmente avrei scritto questa storia e avrei inventato quest’uomo meraviglioso e «mostruoso», ne sono assolutamente certo. L’avrei inventato così” .

Il grande merito dell’opera è quella quindi di una ricerca della verità attraverso la quale comprendere Dino Campana e, soprattutto, i Canti Orfici.

Vassalli è riuscito a portare a termine un’impresa quasi titanica, con la pazienza e la meticolosità dello storico, unite a un grande amore per la poesia, senza il quale non avrebbe potuto concludere nulla, rimanendo attinente ai fatti, sviscerandoli, interpretando anche, ma senza inventare nulla.

Dino Campana è talmente unico che non c’è bisogno di creatività per narrare della sua vita non vita; quel che occorre, invece, è il rispetto, la pietà per l’uomo e appunto l’amore per la poesia, caratteristiche che a Vassalli di certo non mancano.

Il libro termina con un racconto di grande effetto: Natale a Marradi, relativo all’ultimo Natale trascorso da Dino Campana nel paese natio insieme a Sibilla Aleramo.

E’ la degna conclusione di un’opera di grande valore non solo storico, ma anche letterario.





Sebastiano Vassalli è nato a Genova e vive in provincia di Novara. Presso Einaudi, dopo le prime prove sperimentali, ha pubblicato La notte della cometa, Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo, La chimera, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012, Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del presente, Dux, Stella avvelenata, Amore lontano, La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano, Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni e Le due chiese.





Recensione di Renzo Montagnoli