domenica 27 gennaio 2013

Bergen Belsen 1944, di Renzo Montagnoli

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Bergen Belsen 1944

di Renzo Montagnoli

 

 

 

Prima mi tolsero gli abiti

e mi vestii dei panni dei morti.

 

Poi mi tolsero la carne

e la pelle scivolava sulle ossa.

 

Quindi mi tolsero la speranza

e il tempo cessò di colpo.

 

E infine mi tolsero la vita

ma questa era già finita  con la speranza.

 

E ora non togliete il ricordo

vigilate ogni giorno

perché ciò che è stato

non avvenga mai più.

 

 

(da La pietà)

 

 

La musica:

 


 

 

Lui passerà per il camino e Nei suoi occhi, di Renzo Montagnoli


                          Foto da web
 
 
       Lui passerà per il camino

                                     di Renzo Montagnoli

 

 

Fu un inverno freddo quello del 1944 e con tanta, troppa neve. Quando la guerra sembrava concludersi da un momento all’altro, il proclama di Alexander rivolto ai partigiani affinché sospendessero le ostilità raggelò tutti: gli italiani, inermi, privi di tutto, sfibrati dai bombardamenti alleati e che sopravvivevano solo nell’attesa della liberazione, nonché gli stessi coraggiosi che da un anno combattevano, con enormi sacrifici, sia in montagna che in pianura, contro i nazifascisti.

Questi ultimi, ormai consapevoli dell’esito della guerra, intensificarono invece le ostilità, con una brutalità senza precedenti di cui furono vittime sia gli uomini della resistenza che la popolazione civile. Fu intensificata, fra l’altro, la caccia agli ebrei, con esiti raccapriccianti e di uno di questi il paese serba ancor oggi, commosso, il ricordo.

Agli inizi di dicembre la città e tutta la provincia furono oggetto di una retata capillare, a cui parteciparono sia le famigerate SS che le non meno odiate Camicie Nere.

Ben pochi israeliti riuscirono a sfuggire, o perché avvisati in tempo da qualche doppiogiochista che già allora cercava di assicurarsi il futuro, oppure per pura casualità, come avvenne per Isaia Forni, un bimbo di appena sei anni.

Quando la marmaglia sfondò la porta di casa e catturò i suoi genitori, lui si trovava da una vicina, una signora anziana che voleva fargli vedere il suo gattino. La donna, nonostante il pericolo, lo tenne con sé qualche giorno fino a quando, a una parente che le fece visita, propose di portarlo con lei in campagna, in un posto ritenuto più sicuro.

Fu così, che una settimana prima del Natale, Isaia Forni arrivò in paese e, poiché le sfortune spesso si sommano, subito nel pomeriggio perse la sua accompagnatrice, mitragliata da un aereo alleato mentre in bicicletta percorreva l’argine diretta a una fattoria per vedere di poter avere un po’ di latte.

Della presenza del piccolo era già stato informato il parroco, Don Zeffirino. Appresa la tragica notizia della scomparsa della signora, se lo portò in canonica e decise di tenerlo lì, nonostante fosse un giudeo, ma come ebbe a dire una volta finita la guerra, davanti a Dio non ci sono cristiani o mussulmani, o ebrei, ma solo uomini, e nel caso specifico un bambino innocente, già duramente provato per la perdita dei suoi genitori.

Se lo coccolava con gli occhi, si divertiva a guardare il suo stupore quando lo portava in chiesa, provava una gioia immensa nel sentirsi il suo protettore e già sognava di renderlo partecipe della messa di mezzanotte, non per farne un cristiano, ma perché vedeva in lui, con tutte le sue sofferenze, l’immagine di Cristo.

Per quanto questa ospitalità fosse mantenuta il più possibile segreta, arrivò alle orecchie di qualcuno e così, l’antivigilia, una squadraccia fascista bussò con i soliti modi alla porta della canonica.

Don Zeffirino, sempre sul chi vive, li aveva visti arrivare e aveva nascosto prudentemente il bimbo nel confessionale.

- Sappiamo che c’è un piccolo ebreo e in base alle leggi sovrane della Repubblica Sociale Italiana dovete consegnarcelo.

Don Zeffirino guardò il capo manipolo con occhi stupiti e rispose: - Non c’è nessun ebreo, in questa canonica.

- C’è, ne siamo sicuri e se non è in canonica, è nascosto in chiesa. O ce lo consegnate, o andiamo a prenderlo.

- Vi assicuro che vi sbagliate e se vi azzardate a fare un altro passo, o a mettere i piedi in chiesa con queste armi spianate, dovrete passare sul mio corpo.

- Va bene, prendiamo atto delle vostre dichiarazioni e non vogliamo inimicarci anche il Padreterno. Adesso usciamo, ma chi ritornerà non avrà così tanti riguardi.

Girarono i tacchi e se andarono.

Don Zeffirino si accorse solo allora di quanto sudasse, nonostante il freddo. Era riuscito a parare il primo colpo, ma sapeva bene che il secondo, qualora al posto delle camicie nere fossero arrivati gli uomini delle SS, sarebbe stato fatale.

 

Fu così che andò a prendere il bimbo e lo portò, quasi nascondendolo sotto la tonaca, dalla Tilde, la moglie di Annibale Chiocchetti che solo più tardi sarebbe stato conosciuto con il soprannome di Guercio e che all’epoca era da qualche parte, sugli Appennini, con i partigiani.

- Tilde cara, ti chiedo un gran piacere: puoi tenere questo bambino per un po’, non tanto, finché si calmano le acque.

- Come è bello, Don Zeffirino: ha gli occhi neri, vivi, ma velati di tristezza. E’ rimasto orfano?

- Forse sì.

- In che senso?

E allora il prete raccontò tutta la storia.

- Può restare quanto vuole, come se fosse un altro mio figlio, e anzi può giocare con Giacomo, tanto dovrebbero avere più o meno la stessa età. - E dicendo così, nell’accarezzare i capelli di Isaia, rivolse uno sguardo dolce a quel figlio, avuto immediatamente prima della guerra e che così poco aveva conosciuto il suo papà.

- Mi raccomando solo una cosa: nessuno deve sapere che c’è.

- Naturalmente.

Come preavvisato dai fascisti, il giorno dopo arrivarono, su una macchina nera due loschi figuri, lugubri e laidi nell’aspetto, che si qualificarono come membri della Gestapo e che senza chiedere tanti permessi cercarono in ogni dove, nella canonica e in chiesa, e che se andarono sbattendo la porta.

I due bimbi fecero subito amicizia e poiché Giacomo aveva acquisito dalla madre una fervente religiosità, il giorno della Vigilia si mise a fare il presepe.

Isaia lo guardava e presto cominciò a incuriosirsi e chiese di partecipare a quello che credeva un gioco.

Giacomo, con la naturalezza tipica dei bimbi, gli spiegò che era quasi un rito religioso e Isaia si mostrò ulteriormente interessato.

- Chi è quel bambino che metti nella mangiatoia?

- Gesù.

- E chi è Gesù.

- Era un bambino come noi, ma poi diventò grande, tanto grande, al punto che quando parlava tutta la gente l’ascoltava e lo seguiva nel suo girovagare.

- Che diceva?

- Diceva di essere il figlio di Dio e che era venuto sulla terra per redimere gli uomini, per farli diventare tutti buoni e bravi, e inoltre diceva che siamo tutti fratelli.

- Era grande sì, quasi come il mio papà.

- Anche quasi come il mio, ma di più, perché lui è il papà di tutti.

- E’ vissuto tanto tempo fa?

- Quasi duemila anni fa.

- Tanto, e lo si ricorda sempre così, come un bambino?

- No, anche come un uomo adulto inchiodato a una croce.

- Ah, sì, quando l’uomo con il vestito lungo nero mi ha nascosto in una specie di casetta c’era un uomo grande, mezzo nudo, appeso a due assi incrociate e con una corona di spine in testa.

- Quello è Gesù.

- Ma perché ricordarlo così?

- Perché lui si è fatto giustiziare per salvarci tutti.

- Che buono che doveva essere! E chi è stato così cattivo con lui?

Giacomo rimase assorto, non sapendo che rispondere, nel timore di offendere il suo piccolo amico e poi sbottò:

- Quelli che non erano cristiani come lui.

- Dovevano essere proprio cattivi per fare una cosa simile.

- Sì, ma l’hanno fatto per ignoranza.

- Povero Gesù, trattato male come noi ebrei.

Il Natale trascorse abbastanza tranquillo e perfino Pippo, l’aereo da bombardamento che assillava le notti della gente, se ne stette un po’ alla larga.

Poi venne Santo Stefano e la Tilde e Don Zeffirino cominciarono a pensare che Isaia era finalmente al sicuro, ma l’ultimo giorno dell’anno la Gestapo ritornò e andò a colpo sicuro.

Quando bussarono pesantemente alla porta, la Tilde sentì una fitta al cuore e capì che era finita.

Aprì tremando e i due corvacci in nero entrarono senza presentarsi.

- C’è un bambino ebreo e noi lo vogliamo.

- Non ci sono bambini ebrei.

- Noi vediamo due bambini e siamo sicuri che uno è ebreo e che si chiama Isaia Forni.

- No, c’è solo mio figlio Giacomo e suo cugino Ettore, che ha perso i genitori e la casa in un bombardamento.

- Siamo stati anche troppo pazienti, ma tutto ha un limite. Ripeto: vogliamo, e subito, l’ebreo!

- Quale ebreo?

Per tutta risposta, la Tilde si prese un ceffone che la fece cadere a terra mentre i due piccoli cominciavano a piangere.

- Non lo ripeto più: quale è l’ebreo?

Non ci furono risposte.

- Va bene! Facciamo così: li porto via tutti e due.

- No, vi prego no, se avete un cuore, se anche voi avete dei figli, non fate una cosa del genere.

- L’ebreo, o li porto via entrambi.

Fu allora che, con il capo chino, Isaia si fece avanti e disse, con voce tremante: - Sono io, Isaia Forni.

Lo presero e alla domanda della Tilde su dove l’avrebbero portato, risposero sogghignando:

- Lui passerà per il camino.

Ancora non si sapeva che volesse dire, ma la Tilde pensò al peggio e guardò per l’ultima volta, con animo angosciato, quell’esserino che veniva portato via come fosse un delinquente.

Non fu difficile scoprire chi fosse stato l’ignobile delatore, anche perchè Aldo Marchetti, soprannominato Gerarchetto, lo stesso che aveva indotto con il suo comportamento Annibale Chiocchetti a darsi alla macchia, se ne vantò la sera stessa all’osteria.

 

La guerra terminò e di Isaia Forni non si ebbero più notizie, se non dopo un paio d’anni, quando la comunità israelitica lo rintracciò fra i deceduti del lager di Buchenwald. Don Zeffirino non lo dimenticò mai e fu sempre presente nelle sue messe dei morti.

Quanto a Gerarchetto, scomparso dalla scena negli ultimi giorni del conflitto, ricomparve dopo la costituente fra le file democristiane e fu uno dei primi deputati del neoparlamento, e tutto questo come se nulla fosse accaduto, come tanti altri, del resto.

 

(da Storie di paese)

 

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Nei suoi occhi

di Renzo Montagnoli

 

 

- Vieni via dalla strada.

Franco si volse a guardare la madre che gli faceva cenno di rientrare e rimase fermo sul ciglio della strada.

- Non vedi che passano i soldati che vanno al fronte, che gli autocarri rombano e quasi ti sfiorano?

No, non vedeva quello che diceva sua madre; le immagini scorrevano davanti ai suoi occhi, ma nemmeno le coglieva. Sentiva invece dentro di sé svilupparsi altre visioni: truppe a cavallo che procedevano al galoppo, elmi scintillanti nella luce del sole, spade lucenti sguainate come in una delle tante storie che il nonno gli aveva narrato, battaglie antiche, cozzi di scudi, scontri da cui sempre usciva vincitore il più buono, il più bravo.

E anche ora che soldati stranieri sfilavano davanti a lui diretti verso il vicino fronte non riusciva a scorgere altro che gli eroi di quelle storie.

Si sentì strattonare e trascinare in casa.

- Vuoi capirlo che è pericoloso stare lì fuori!?La guerra non è un gioco e tutti quei tedeschi lo sanno bene. Prova a guardarli in faccia: sembrano granitici, impassibili, ma non possono non aver paura e quando si combatte si muore anche.

- Le storie del nonno, però…

- Appunto, sono storie, favole, ma hanno sempre un fondo di verità e tutte le battaglie di cui parla ci sono state, anche se tanti anni fa.

Franco non disse niente, accostò una sedia alla finestra, vi salì per guardare, al riparo dei vetri, la fila interminabile dei soldati e riprese a fantasticare.

Sua madre si rivolse al nonno, quasi appisolato accanto al focolare – Pa’, smettila di raccontargli delle battaglie dei secoli passati. Non vedi che non riesce più a vedere la realtà, che non capisce che siamo in guerra e non in una delle tue storie.

- E’ troppo brutto questo tempo perché Franco possa accettarlo. Non è che un bambino di sei anni e i suoi occhi vedono la tragedia della guerra in modo diverso dai nostri, e forse è meglio così.

- Meglio un corno! Non voglio crescere un figlio che non è mai presente, che rifiuta la realtà, creandosi un mondo tutto suo.

- Passerà, passerà…

- E se non passa? E se poi in tutta la vita, anche quando verrà la pace, si rifiuterà di essere parte del mondo di tutti?

- Per il momento è meglio così; non voglio che viva con il timore che è sempre dentro di noi; non voglio che debba trasalire ogni volta che bussano alla porta; voglio che i suoi sonni rimangano leggeri e non come i nostri popolati da incubi.

- Va bene, hai sempre ragione tu.

- No, non è vero che ho sempre ragione, ma qualche volta il mondo deve apparire diverso da quello che è e questo è più facile per un bambino.

Già stava calando il sole e con esso il numero delle truppe che percorrevano la strada del paese.

Quando fu tutto buio e non si udì più il rumore sordo degli scarponi chiodati sul selciato, Franco si scostò dalla finestra e si mise a sedere accanto al nonno.

- Hai un’altra storia, nonno?

- Sì, ma non questa sera; è lunga e te la racconterò domani. Ora mangia e poi va di corsa a letto.

Pur a malincuore Franco obbedì e mise sotto i denti quel poco che c’era, poi si coricò.

Rimase a lungo a occhi aperti, contando i travicelli del soffitto, poi si sovvenne di una storia narrata dal nonno qualche giorno prima, di un cavaliere indomito che per il bene di tutti combatteva contro i draghi e, mentre nella sua fantasia ne assumeva le sembianze, il sonno lo colse.

Al canto del gallo si risvegliò, porse l’orecchio alla strada, ma non udì rumori: tutto era quiete nell’alba di quel giorno. Si alzò e andò in cucina: il nonno si era addormentato accanto al focolare e aveva lasciato cadere la vecchia pipa. Il fuoco era spento e faceva abbastanza freddo; allora prese sulle ginocchia Marameo, il vecchio gatto, che si mise a far le fusa. La prima luce che entrava dalla finestra sciabolava il buio della camera, accentuando le ombre, in cui si immaginò di vedere schiere di armigeri, mentre il nonno era il suo fido scudiero e il micio che si strisciava contro il suo grembo altri non era che il destriero che presto l’avrebbe portato a cavalcare alla testa dei suoi prodi.

Improvvisamente udì bussare alla porta, prima un colpo forte, poi un vero e proprio tambureggiare. D’istinto si raggomitolò e quando in un frastuono di assi spezzate l’ingresso fu sfondato rimase impietrito nel vedere due ossessi che entravano nella stanza, gridando come pazzi.

- Rauss, rauss…

Accorse sua madre e subito si prese un ceffone da uno dei due che allungò anche un calcio al nonno che faticava ad aprire gli occhi.

- Fuori, tutti fuori, andare in chiesa.

E furono spinti in strada, dove già c’era un corteo di insonnoliti paesani che procedeva, fra calci e pugni, verso la vecchia chiesa parrocchiale.

Si sentiva l’acre odore del fumo di alcune case che bruciavano e, ogni tanto, delle urla strazianti e poi degli spari.

Avvertì che qualcuno gli prendeva la mano e si volse a guardare: era il nonno, con il volto teso, che si sforzava di sorridergli.

- Che cosa succede nonno?

Il vecchio non rispose.

- Che succede, insomma?

Mentre le lacrime gli rigavano il volto prese in braccio il nipotino e a bassa voce  parlò.

- Ti racconto la storia che ti ho promesso e non aver paura, perché tutto quello che sta succedendo è parte di essa.

Tanti anni fa il nostro paese è stato invaso da un’orda di lanzichenecchi, mercenari tedeschi che non si fermavano davanti a nulla. Dove passavano l restavano solo macerie fumanti e uccidevano tutti, ma non sapevano che c’era qualcuno con cui avrebbero dovuto fare i conti. Infatti, un cavaliere delle nostre parti, Franco da Barberino aveva radunato degli armati e si apprestava allo scontro decisivo.

- Si chiamava Franco come me!

- Sì, come te ed era forte e coraggioso.

Nel frattempo erano arrivati alla chiesa e furono costretti ad entrarvi. Il tempio, di per sé piccolo, non riusciva quasi a contenere tutta la gente. Il parroco cercò di parlare con il capo dei tedeschi, ma per tutta risposta gli spararono alla testa. La soldataglia poi abbatté il portone della chiesa  e portò un autocarro davanti all’ingresso.

All’interno i più piangevano e molti pregavano perché ormai avevano capito.

Il nonno si mise davanti al nipotino, quasi come per fare scudo.

- Lo scontro avvenne proprio in paese, sulla piazza della chiesa. I lanzichenecchi erano molti di più degli armigeri di Franco, ma questi non avevano paura, perché sapevano di essere nel giusto.

Fu alzato il telone dell’autocarro e così apparve una mitragliatrice con i suoi serventi.

- La battaglia iniziò all’alba e…

La voce si troncò di colpo, mentre partivano le prime raffiche della mitragliatrice.

Il vecchio si afflosciò su se stesso, mentre il sangue schizzava ovunque fra le grida, prima di terrore, poi di dolore. I serventi, con calma, alimentavano il mezzo di morte con nuove pallottole e continuarono a sparare come se nulla fosse, come a una esercitazione. Poi, a un cenno del capo, si fermarono; nella chiesa furono gettate una mezza dozzina di granate e quindi entrarono un paio di soldati. Si aggirarono nel carnaio, rivoltando i corpi; se qualcuno ancora respirava gli sparavano.

Franco, coperto dal corpo del nonno, era ancora vivo, anzi non era nemmeno ferito.

Se ne stava zitto, tutto lordo di sangue, e non riusciva a pensare a nulla; tutto gli sembrava così irreale, e non un sogno, ma un incubo.

Quando, sollevato il corpo del nonno, il tedesco lo scorse rimase un attimo senza decidere, poi prese un altro caricatore e lo infilò nel fucile.

Franco lo guardava stupito: era questo quindi il lanzichenecco?

Sì, lo era e allora chiuse gli occhi e si vide nei panni di un grande condottiero che andava a combattere il male per il bene di tutti, in una battaglia cruenta dove anche il suo scudiero era stato massacrato.

Il campo era quello tipico di un grande combattimento ed erano più i morti che i vivi, anzi erano sopravvissuti solo lui e il capo nemico, e adesso loro si sarebbero affrontati.

Il tedesco armò il fucile, guardò un attimo quel piccino dagli occhi chiusi che, rialzatosi, gli stava davanti, ritto, quasi impavido, poi alzò la canna dell’arma verso l’alto ed esplose un colpo.

- Finito?

- Finito.

- Allora usciamo e andiamo a Sant’Anna di Stazzema.

L’autocarro ripartì rombando, fra canti sguaiati.

Il piccolo riaprì gli occhi e si guardò intorno: Franco da Barberino aveva vinto la sua battaglia.        

    

   

 

 

 

 

 

 

 

 

Se questo è un uomo, di Primo Levi

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Se questo è un uomo

di Primo Levi

Postfazione di Cesare Segre

Copertina di Fabrizio Farina

Einaudi

Narrativa romanzo

Pagg. 209

ISBN: 9788806176556

Prezzo: € 9,80

 

 

Testimone dell’orrore

 

 

 

Ancor oggi, anzi ora più che in passato, ci sono non pochi che dubitano che vi sia stato effettivamente l’olocausto. Accanto a quelli che per ideologia lo negano ci sono molti scettici e, purtroppo, tanti, troppi agnostici che si disinteressano completamente del problema.

I giovani, poi, nati molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, ne hanno una vaga conoscenza, spesso maturata visionando pellicole sull’argomento, con il risultato che un’immane tragedia sta per venire sepolta dalla polvere del tempo e dell’indifferenza degli uomini.

I campi di sterminio, i famigerati lager non sono purtroppo una leggenda, ma una realtà che non deve essere dimenticata.

In questo senso la lettura di libri come Se questo è un uomo di Primo Levi non solo è opportuna, ma indispensabile e dovrebbe essere oggetto degli studi scolastici, per sapere, per capire, per evitare che un giorno ci siano nuovi olocausti.

Ogni volta che lo apro, che ne scorro le pagine soffermandomi su un punto o sull’altro, ritrovo l’emozione provata nel corso della prima lettura, perché il pregio della narrativa di Levi è di essere non romanzata, ma la descrizione della pura e semplice verità. L’autore, che racconta in prima persona essendo stato rinchiuso ad Auschwitz, non ricorre all’enfasi, né va alla ricerca della facile commozione, ma, con tono quasi distaccato, parla della sua esperienza e, pur descrivendo sofferenze e patimenti, ha il pregio di effettuare riflessioni che donano all’opera una valenza generale, non limitandola a una dolorosa esperienza personale.

In lui c’è pacatezza, desiderio di comprendere per rendere partecipe il lettore di una grande tragedia che supera ogni umana immaginazione.

Le lunghe giornate invernali, coperti da abiti che non riparano dal freddo, l’alimentazione insufficiente, i carichi di lavoro eccessivi, la spersonalizzazione dell’individuo che perde il suo nome, sostituito da un numero tatuato sul polso, portano in pochissimo tempo a un generale abbrutimento, in uno stato quasi vegetativo, dove ciò che conta è solo il presente, essendo il futuro anche prossimo del tutto inimmaginabile. E’ in queste condizioni che all’eccesso emergono le caratteristiche degli individui.

I deboli si lasciano andare, sono le vittime designate delle prossime selezioni fra chi ancora potrà vivere e chi invece sarà avviato alle camere a gas.

I raziocinanti rafforzano il loro spirito di conservazione e operano per sopravvivere giorno per giorno, per lavorare meno, per mangiare un po’ di più, arrivando perfino al punto di collaborare con l’aguzzino. E se fra questi la quasi totalità cerca di instaurare un rapporto con il carnefice che gli consenta di tirare ancora un po’ avanti, ce ne sono altri che, per attitudini, diventano simili alle crudeli SS e questi sono i Kapò, indispensabili peraltro nella gestione del campo di concentramento, vigilato da un ristretto numero di militari nazisti.

Levi ci descrive così una varia umanità, per lo più cenciosa, spettri che si agitano nelle tormente di neve, che s’impantanano nel fango primaverile, che boccheggiano nell’arsura estiva, tutti figuranti di una danza macabra che porterà all’annientamento della dignità umana e alla distruzione del Terzo Reich.

Ci sono pagine che non si possono dimenticare, sopra tutte le ultime, con i russi ormai alle porte e con i nazisti che eliminano gli ultimi prigionieri rimasti, fatta eccezione, per un motivo che non si saprà mai, per i ricoverati nell’ospedale da campo, forse perché ritenuti insanabili. Fra questi c’è l’autore che, questa volta con una commozione che passa dalla pagina all’animo del lettore, ci racconta delle giornate di ritrovata libertà nell’attesa dell’arrivo dell’Armata Rossa. E’ forse l’unico momento in cui, ipotizzando un futuro, l’uomo non è più così pragmatico e l’essere consapevole di esistere ancora, nonostante tutto,  lo porta a scrivere della penosa fine di alcuni suoi ultimi compagni di sventura. Riaffiora così, se pur frenata, la pietà “Somogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione.”

Se questo è un uomo è un capolavoro?

Lo è, per lo stile narrativo, per il modo di affrontare il tema trattato, per la capacità dell’autore di raccontarci la pura e semplice verità, pur essendo parte della vicenda.

 

 

Primo Levi (1919 – 1987). Ha scritto anche La chiave a stella, I sommersi e i salvati, Se non ora, quando?, Il sistema periodico, I racconti, L’altrui mestiere, La ricerca delle radici, La tregua, L’ultimo Natale di guerra e Dialogo (con Tullio Regge).     

 

 

Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 27 gennaio 2013


MondoBlog

 

 

Le segnalazioni odierne, ricordando che è il 27 gennaio, Giorno della Memoria:

 


 


 


 

giovedì 17 gennaio 2013

La regina d'inverno, di Renzo Montagnoli

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Più di stagione di così…

 

La regina d’inverno

di Renzo Montagnoli

 

 

 

Cristalli di ghiaccio i suoi occhi

fiocchi di neve i capelli

vento di tramontana

la sua voce.

Scende dal cielo

in groppa a una renna

viene al suo regno

di bianco e di brume

la regina d’inverno

dama condannata

al freddo eterno.

Mai un po’ di calore

anche nel cuore

Per lei si spezzano rami

raggelano viandanti

s’imbiancano abetaie

ma nemmeno

un cuore impazzisce

nemmeno

un principe s’appressa.

Corre i suoi giorni

su terre gelate

su ore di buio

sola e indurita

regina senza monarca

di una stagione

che muore

in pozze di fango

nel sole

che di nuovo ritorna.

 

 

La colonna sonora è conosciutissima:

 


 

 

 

Tu vipera gentile, di Maria Bellonci

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Tu vipera gentile

di Maria Bellonci

Introduzione di Geno Pampaloni

In copertina: Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi (Part.)

Firenze, Galleria degli Uffizi

Arnoldo Mondadori Editore S.p.a.

Narrativa

Collana Oscar scrittori moderni

Pagg. XII-248

ISBN 9788804569527

Prezzo € 9,50

 

 

 

La storia narrata

 

 

Per coloro che amano la storia e i romanzi storici Maria Bellonci rappresenta un faro di incredibile originalità, a cui rivolgersi per conoscere meglio e in modo piacevole le vicende di alcune famiglie nobili italiane in quell’aureo periodo che fu il Rinascimento. Se nel romanzo storico la creatività dell’autore poggia solide basi su fatti realmente accaduti, lasciando però ampio spazio alla fantasia, magari con l’invenzione di personaggi funzionali alle vicende, nella storia narrata da Maria Bellonci l’unica licenza è lasciata alle considerazioni, all’interpretazione dei fatti, agli approfondimenti della psicologia dei protagonisti.  Ne esce così una narrazione storica di grande valore, impreziosita dallo stile dell’autrice, mai greve, ma incisivo e per niente logorroico. Delle volte, nel leggere le pagine affascinanti dei suoi libri, mi viene da fantasticare e dato che ho avuto l’occasione di conoscerla tanti anni fa (era spesso a Mantova per laboriose ricerche d’archivio), ho quasi l’impressione di averla seduta davanti a me accanto alle fiamme danzanti di un camino, lei che racconta e io che sto ad ascoltare e nelle vampe di quel fuoco  che illumina a sciabolate di luce la camera vedo i volti dei personaggi che di volta in volta chiama in causa; sembrano lì, scesi dalla cappa, pure loro a udire le loro gesta. Questo per dirvi quanto fosse brava Maria Bellonci, una ricercatrice minuziosa, certosina, attenta, che sulla base dell’aridità di numeri, di date, di nomi e di fatti riusciva a trasformare questo coacervo di elementi in una prosa scorrevole, avvincente, ma legata in modo ferreo alle esigenze dello storico, a quella ricerca di verità a cui naturalmente si tende, pur nella consapevolezza di non riuscire mai a pervenire a un risultato assoluto e incontrovertibile, ma con l’aspirazione di avvicinarvisi il più possibile.

Tu vipera gentile fa parte di un prezioso trittico di romanzi brevi, in cui l’autore parla di altrettante storie ben distinte.

Il primo, Delitto di stato, si snoda in un’atmosfera quasi gotica in una Mantova dal casato reggente ormai in decadenza; è quasi un giallo, anzi più propriamente un thriller, con una serie di delitti, il tutto dipinto con un attento contrasto fra luci e ombre, quasi che Maria Bellonci avesse la mano guidata dal Caravaggio.

Il secondo, talmente bello da essere sublime, e che s’intitola Soccorso a Dorotea, parla della triste vicenda di Dorotea Gonzaga, promessa sposa a Galeazzo Maria Visconti, una giovane innamorata che non riuscirà a coronare il suo sogno per una storia di gobbe ereditarie, ma anche di ragion di stato. Mi permetto solo di evidenziare la fine psicologia con cui l’autore ha narrato, riguardo a questa vicenda, del comportamento dei genitori, Ludovico Gonzaga e Barbara di Brandeburgo, immortalati da Andrea Mantegna nel famoso affresco della Camera degli Sposi.

Il terzo, che dà il titolo all’intera opera, Tu vipera gentile e che è anche il primo verso di un’antica canzone Viscontea, è la storia della famiglia Visconti, dalle origini fino all’acquisizione del titolo nobiliare di duca,  una serie di vicende, spesso intricate, con una galleria di protagonisti che solo la mano di Maria Bellonci poteva restituire come vivi dall’oblio del tempo e dal buio dell’Ade.

E dico solo la sua mano, perché da un altro, da uno storico, avremmo appreso gli stessi eventi, ma con inevitabili sbadigli, perché ne sarebbe uscito un libro puramente di storia, asettico, anche se scientificamente valido. Con Maria Bellonci la storia si anima, cresce il desiderio di giungere alla pagina successiva, e da questa all’altra immediatamente seguente.

Terminata la lettura, avrete la consapevolezza di avere imparato molto e con grande piacere, un risultato del tutto imprevedibile per chi non ha mai letto qualcosa di suo.

Dire che si rimane soddisfatti è dir poco, no, è meglio dire che si resta entusiasti.

 

 

 

 

 

Maria Bellonci, di origini piemontesi, nacque a Roma nel 1902 ed esordì nel 1939 con Lucrezia Borgia, che vinse il premio Viareggio. Insieme al marito Goffredo diede vita nel 1947 al premio Strega. Tra i suoi libri: Segreti dei Gonzaga, Pubblici segreti, Tu vipera gentile, Marco Polo. Rinascimento privato esce nel 1985, l'anno precedente la morte dell'autrice.

 

 

Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 17 gennaio 2013


MondoBlog

 

 

Le segnalazioni odierne:

 


 


 


 


 


 

domenica 13 gennaio 2013

Platz Spitz, di Corrado Sebastiano Magro

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Un racconto crudele, perché veritiero, ed amaro, perché il mondo è anche così.

 

 

Platz Spitz

di

Corrado Sebastiano Magro

 

 

1957. Alla fiera di maggio gli ambulanti esponevano durante una settimana le loro bancarelle nella piazza del Crocifisso, lungo la Sergio Sallicano e nelle viuzze trasversali, quando piazza e via non offrivano più posto. Si andava alla fiera più per vedere che per comprare, nonostante gl'inviti dalle strapazzate corde vocali dei bancarellisti. Era una kermesse dove la gente passeggiando rosicchiava "calia", ceci salati abbrustoliti, si riempiva la bocca con “bomboloni”, le gustose caramelle giganti artigianali, sbucciava e mangiava "calacausi", arachidi, si occupava pazientemente a scorticare e mangiare semi di zucca arrostiti e spegneva la sete con aranciate, gazzose o birra. Se già il caldo si faceva sentire, i piccoli pretendevano il cono, impiastricciandosi la faccia e imbrattando i loro bei vestitini costretti a indossarli più per la gloria delle madri che per il loro piacere.Andando su e giù lentamente tra la folla a passo di processione, s’incontravano amici e si strizzava l’occhio alle ragazze nel tentativo di essere contraccambiati. Alcuni nel disperato tentativo di essere corrisposti da almeno una di quelle che incontravano, dopo una settimana si ritrovavano con un tic, come se un moscerino gli sfiorasse continuamente le ciglia. Anche Vanni sperava incontrare il viso di qualche piacente giovinetta disposta a rispondere ai suoi sguardi eloquenti. Poco prima un barbone si era interposto nel suo cammino chiedendogli con insistenza:"Hai cientu liri? Mi runi cientu liri?" (Hai cento lire? Mi dai cento lire?) Sorpreso dal tono franco e sicuro, piuttosto che evitarlo, si fermò ad osservarlo: la giacca di vecchia lana grigiastra trasandata, lo sguardo furbo, quasi beffardo, incorniciato da capelli grigi. Non era poi così malandato. Quegli occhi volpini la raccontavano lunga. Lui anche se in doppiopetto era forse tanto a secco come quel mendicante, ma fu tanta la curiosità che mise la mano in tasca dove teneva degli spiccioli e gli porse cento lire chiedendogli: "E ora chi ci fai cu sti cientu liri?" (E adesso che ci fai con queste cento lire?) L'anziano, prima di rispondere, si assicurò che le monete non potessero più sfuggirgli: "Vaiu nnà putia ra traversa e mi vivu du lamparuna ri vinu" (vado nell'osteria della traversa e mi bevo due bicchieri di vino di un quarto) Il diciassettenne Vanni per qualche secondo ci rimase male,: "Ma brutto imbecille. - si disse - Adesso mi metto a fare la carità agli ubriaconi?". Poi pensando alla franchezza del tipo che tutto arzillo andava ad irrorarsi palato e gola, era scoppiato in una risata da far pensare a chi lo incontrava che non tutte le viti del suo cervello fossero ben strette.
Svariati decenni dopo per uno di quei casi fortuiti, anche lui era stato sul punto di ridursi come il vecchio mendicante della sua città natale.
Rimasto senza lavoro e con una famiglia da nutrire, sull’orlo del baratro economico e del fallimento totale, si barcamenava come poteva, rifiutando con violenza il ghetto che gli cresceva attorno. Se quelli oltre i quarantacinque erano considerati inutili, per lui che aveva superato i cinquant'anni non c'era più nulla da sperare.
Non l'accettava, e piuttosto che ricorrere all’assistenza pubblica, preferiva fare qualsiasi cosa gli venisse proposta. Si era perfino candidato a pulire i cessi pubblici di alcuni quartieri della città, ma erano stati preferiti altri candidati. Eppure non se la sentiva di farsi travolgere dalla corrente, anche se il rischio era concreto ed aumentava di giorno in giorno. Diventato taciturno, aveva smesso di comunicare e non escludeva l'idea di sparire per sempre. Il solo amico e nemico che riconosceva era se stesso.
Fu così che, lavoricchiando saltuariamente per un’agenzia di sorveglianza a pochi franchi l’ora per pagarsi la benzina, durante una domenica ebbe l’incarico di controllare l’accesso al centro di assistenza di Platz-Spitz, di triste memoria e dove affluivano drogati di tutta Europa.
Ingresso e assistenza erano consentiti solo ai residenti della città o del cantone.
Era una gelida ed umida mattinata di marzo.
Il locale era stato ricavato da un deposito ferroviario, proprio sotto il Kornhausbrücke, “il ponte del granaio” quale ironica coincidenza, a lato di una ferrovia in disuso, scavalcata da un altro arco di ponte.
La miseria che nell’opulenta Zurigo gli apparve improvvisa, lo fece impietrire.
Un puzzo di selvatico, più acuto di quello che esala dal liquame di una concimaia saturava l'aria.
Esseri umani dormivano sotto quel ponte, seminascosti in vecchie scatole di cartone ammucchiate l’una contro l'altra e in parte sventrate, immersi nel fango e nella sporcizia. Una massa amorfa, che ogni tanto emetteva un lamento, un mormorio.
Pian piano, con lo schiarirsi del giorno quel mucchio di rifiuti cominciò a dare segni di vita più evidenti.
Quando alcuni riuscivano ad abbandonare il cartone che li celava fungendo da camera da letto e pavimento, si alzavano, avanzavano barcollanti, allucinati, senza meta, tornavano poi sui propri passi, e cambiavano subito dopo nuovamente direzione. Si comportavano come i suini quando, percependo l’avvicinarsi di un temporale o di un lungo periodo di maltempo, eccitati, con le orecchie drizzate e gli occhietti sanguigni, grugnendo, trasportano frasche e paglia per preparare al riparo il giaciglio.
Ma questi erano esseri umani e non maiali.
Traballando, trasportavano con sé masserizie consistenti in pezzi di cartone mal piegati e luridi stracci, oltre agli aggeggi per iniettarsi la prossima dose.
Poco dopo arrivavano gli spacciatori: odiosi avvoltoi, pronti a succhiare le ultime gocce di sangue a quei relitti di umanità. Avvoltoi e nello stesso tempo unica speranza per calmare la sete di droga di quei corpi smunti, inebetiti, con un cervello che bruciava e turbinava; sarebbero presto svaniti spegnendosi nel nulla, menzionati su due righe di giornale per l’aggiornamento della statistica necrologica.
Il terzo atto, una volta che la massa si era sparpagliata per il parco sottostante, vedeva protagonista la polizia che non veniva per arrestare gli spacciatori, ma sembrava volesse provare sugli esseri umani l’effetto che i lupi hanno su un branco di pecore impaurite, senza guardiano e allo sbando.
Alla vista della pattuglia, che dalla Sihlstrasse attraversava le passerelle sulla Limmat e poi i viali, le pecore si univano in branco, si mettevano in movimento, prima lentamente e poi sempre più in fretta.
Erano giovani, uomini e donne, ragazzi e ragazze di tutte le età, accomunati da una stessa caratteristica: quella di drogati irrecuperabili, sui quali nessun samaritano faceva più presa ed ai quali, in nome della politica benpensante, si negava il diritto di fare uso di ciò che erano ormai costretti a procurarsi pagandolo a peso d’oro sotto gli occhi di tutti, anche se nessuno voleva prenderne coscienza.
Una massa ancor più cenciosa di quella della corte dei miracoli parigina, che provava a correre, arrancando come poteva sulla scalinata del ponte, dove, alla vista di una seconda pattuglia che ne attendeva l’arrivo, invertiva il corso per ridiscendere precipitosamente. Scena incomprensibile che si ripeteva quattro, cinque volte al giorno.
Gli spacciatori non correvano, si mettevano soltanto di lato, certi che nessuno avrebbe osato disturbarli.
La sera, rientrato, Vanni si era rinchiuso solo ed aveva pianto, pianto su quelle vite come fossero state sue, come fossero stati figlie e figli suoi.
Quel ragazzo era poco più che ventenne, la barba curata, in tuta ginnica di lana gialla, ancora non troppo sporca.
Gli si era avvicinato vacillante come una canna scossa dai soffi: "Ho fame ed ho freddo. Posso entrare?"
"Solo se sei del posto, e se puoi fornire la tua identità."
"Non sono di qui, e non ho nessuna carta d’identità con me."
"Mi spiace non poterti lasciare entrare. Perché non torni al paese?"
"I miei non mi vogliono più. Non sanno cosa fare con me. Non ce la faccio più. Sono tre giorni che non mangio, ed ho tanto freddo."
La voce era debole. Tremava e si era appoggiato al muro per sostenersi.
Vanni sentiva un nodo alla gola. Mise mano alla tasca. Aveva qualche spicciolo.
Prese una moneta da cinque franchi e gliela porse.
"Vatti a comprare qualcosa."       
"Sì, vado."

E si allontanò barcollando.
A Vanni venne in mente il barbone delle cento lire: "Racconterà questa storia a tutti quelli che incontra e racimolerà i soldi per la prossima dose."
Non fu così. Lo rivide più tardi. Si reggeva meglio sulle gambe e gli si avvicinò:
"Grazie. Ho comprato due pezzi di torta alle prugne, li ho mangiati, ed ora mi sento meglio. Grazie ancora."
Quel grazie non valeva milioni, valeva una vita. Seppe poi che era figlio di italiani. Molti di quei drogati erano o italiani o figli di immigrati italiani, che per guadagnare o per risparmiare, magari nell’abbaglio di fare fortuna, non erano stati in grado di prendersi cura dei figli adolescenti, abbandonati a se stessi.
Era venuta anche lei.
Giovane, lurida, i capelli grassi, puzzava più di una volpe nella tana:
"Ho fame, ho sete, ho freddo, sto male. Vorrei entrare."
"Fammi vedere i tuoi documenti... No, non posso, ritorna dalle tue parti."
Si allontanò curva.
Ritornò dopo una mezz'ora, piangendo.
"Sto male, ho un ascesso ad una gamba, ed oggi non ci sono medici disposti a visitarmi."
Vanni chiamò il medico del centro, una giovane donna:
"Che dici, la facciamo entrare?"
La dottoressa con l’espressione seccata come a dire: e mi chiami per questo? gli rispose: "Non spetta a me decidere. Vedi tu."
"Ma io non sono un medico per giudicare se il suo stato di salute è precario."
"Qui tutti hanno uno stato di salute precario. Ti lascio, ho da fare." e si allontanò.
Vanni scosse la testa, ma la dottoressa aveva ragione. Tutta quella massa era composta da soggetti con uno stato di salute precario. Rifiutò nuovamente l’ingresso alla ragazza. La vide profondamente umiliata.
Vanni capiva, vedeva, come sotto quel luridume ci fosse la disperata, muta richiesta di un gesto amico che le permettesse di sopravvivere forse ancora qualche mese, o chissà, solo qualche settimana.
Ma cosa poteva fare lui, ultima pedina al confine di quella massa di disperati?
Eppure, per quei miserabili, lui rappresentava lo scalino gerarchico che avallava il diritto ad una tazza di brodo, ad una doccia o ad una fasciatura, visto che non abitando in città, quei derelitti erano da considerarsi esclusi, quasi fossero dei reietti, dei paria.
Quelli che ne avevano il diritto, non chiedevano, pretendevano con sfacciata prepotenza, con un’arroganza beffarda, ostentazione di una vendetta verso quella società che li considerava degli abbietti.
Gli altri, non avevano scelta.
Lei si era di nuovo allontanata, sotto il peso della propria nullità.
Ritornò dopo pochi minuti singhiozzando, come volesse dire: "Sono qui, esisto, esisto anch'io."
Si avvicinò e s’inginocchiò stringendogli le ginocchia. Aveva le guance rigate di lacrime:
"Fammi entrare, ti supplico, ne ho bisogno."
Rimboccando i pantaloni mise a nudo una bella gamba sulla quale troneggiava un ascesso nero all’altezza del polpaccio. Il sistema immunitario cominciava a cedere.
"Vedi? Non dico bugie."
La resistenza di un Vanni già provato crollò. Chiamò il medico:
"La ragazza entra! Ha bisogno di lavarsi, di essere curata e di una tazza di brodo caldo. Me ne assumo la responsabilità."
"Non reclamerà nessuno, sta' certo." - aggiunse la dottoressa con un sorriso e lo sguardo complice che voleva significare: “speravo finalmente che la facessi entrare”.
Venne fuori due ore dopo. Era raggiante. Aveva fatto la doccia, lavato i capelli neri che a riccioli le scendevano fin sulle spalle. Odorava di sapone e di freschezza.
Sembrava ancora più giovane, e sorrideva come se avesse ricevuto l’orsacchiotto dei suoi sogni:
"Vedi come sono bella?" gli disse con un sorriso luminoso.
Sì, era bella. Era una rosa vellutata, una dalia, un’orchidea che poteva cantare un inno alla natura.
"Sì. Sei bella." - le rispose Vanni mentre la voce gli si spegneva in gola.
Per frenare le lacrime dovette mordersi labbra e lingua, quando lei con la mano gli accarezzò di sfuggita la guancia dicendogli:
"Grazie."
E ritornò ad essere un atomo nella massa amorfa, che la ingoiò come in un vortice.
Chissà per quanto ancora riuscì a sopravvivere.
Ma quante altre non venivano a chiedere, perché non osavano, o perché sapevano che sarebbero state umiliate da un rifiuto?
Due trentenni ben vestiti e curati gli si erano avvicinati mentre la polizia ringhiava:
"Trova giusto quello che sta succedendo?"
"Cosa volete che vi risponda. Vale forse qualcosa la mia opinione?"
"Ebbene, lei ci vede ben vestiti, puliti, ma anche noi siamo drogati. Abbiamo la fortuna di lavorare e di pagare quello che ci serve. Veniamo qui perché la droga è meno cara. Ma se domani il nostro datore di lavoro viene a conoscenza del nostro stato, la prossima volta che si trova da queste parti, guardi sotto quel ponte. Ci saremo anche noi."
Quali altre parole potrebbero essere aggiunte, e a cosa servirebbero?

A meno di due chilometri in piena città, in uno dei più cari alberghi dove gli ospiti venivano prelevati e accompagnati in Rolls Royce, una settimana dopo si teneva il ballo della stampa, ballo di "beneficenza", al quale partecipava il fiore della grassa borghesia locale. Gli uomini vestivano il frac o il doppiopetto nero, le donne sfoggiavano pellicce ed ermellini sugli abiti da sera. Pavoneggiandosi, le più ardite mettevano in mostra particolari come un seno quasi nudo, o, con la scusa di non strascicare gli abiti li sollevavano più del necessario, sfoggiando mutandine di pizzo ricamate con perline luccicanti e stelline dorate, o esibendo la coscia fin ben oltre il femore. I cameraman riprendevano dal vivo e i reporters scattavano foto su foto dando la caccia a qualche particolare più intimo. Un clown parodiava il circo. Le belve, accompagnatori e gigolo, venivano invitate a saltare da una predella in un cerchio, ad imitazione di scimmie o di altre bestie da zoo. Obbedivano senza battere ciglia pur di non irritare la dama che non avrebbe gradito uno sgarro alla norma.
"Su, coraggio. Salta dentro! Dalla predella nel cerchio, dai, non aver paura!"
E schioccava la frusta, per quei miserabili che volevano dare l’impressione di essere dei super uomini ma senza la dignità degli animali.
Vanni, vestito e truccato da buffone di corte, in coppia con un’affascinante ragazza, aveva il compito di vendere i biglietti di una ricca lotteria a circa cinquecento franchi l'uno.
Baloccandosi con moine accompagnate da smorfie e sberleffi, polarizzava, attirava l’attenzione, e il sorriso invitante e provocante dell’accompagnatrice faceva il resto.
In meno di un’ora aveva esaurito le riserve e lasciate inesaudite le richieste di un numero elevato di acquirenti.
Gli vennero in mente quei reietti che marcivano nella notte fredda sotto il ponte.
Non trovò una risposta e si chiese come mai dal cielo un dio, se mai ci stava, non spargesse una pioggia di fuoco per distruggere quest’umanità.
Forse le miserie del momento non erano ancora le peggiori, non arrivavano a fare traboccare il vaso e a far si che la distruzione di Sodoma e Gomorra si ripetesse.