giovedì 28 febbraio 2013

L’ultimo viaggio di Ofelia, di Renzo Montagnoli


Fu un destino crudele.

 


                                                                  Foto da web
                                                              

 

L’ultimo viaggio di Ofelia

di Renzo Montagnoli

 

 

 

Ora ha pace il tuo dolore

mentre il fiume lento

ti culla nella corrente

e t’accompagna

al mare dell’eterno sonno.

S’inchinano al tuo passaggio

i verdi salici

e le loro son lacrime

di rugiada lucenti

al primo sole del mattino.

Le ninfee son le corolle

dei tuoi desideri mai realizzati

e lente si schiudono

quando il tuo corpo lieve

le sfiora come una carezza

a un mondo che hai lasciato.

Laggiù c’è il mare

e i delfini t’accoglieranno

i dorsi inarcati ti solleveranno

affinchè i pietosi dei

ti portino su nel cielo.

Là, fra le infinite praterie

troverai l’oblio d’ogni cosa

la pace che tanto ti è mancata.

 

Un albatro sorvola le onde spumose

e silenzioso piange

una fanciulla che conobbe un po’ d’amore

ma anche tanto

tanto dolore

da portarla alla follia.

 

 

Da La pietà

 

 

La colonna sonora è quella di un film stupendo (The ladies in Lavender) e il violino solista è quello accarezzato dalle magiche mani di Joshua Bell:


 

 

 

 

Lucrezia Borgia, di Maria Bellonci




Lucrezia Borgia

di Maria Bellonci

Introduzione di Alcide Paolini

In copertina: Bartolomeo Veneto, Flora (Part.)

Presunto ritratto di Lucrezia Borgia, Francoforte Stadelsches Kunstinstitut

Arnoldo Mondadori Editore

Narrativa romanzo

Pagg. 625

ISBN 9788804451013

Prezzo € 11,00

 

 

 

Un grandioso affresco rinascimentale

 
 
 

Corre l’anno 1939 quando esce in lingua italiana, per i tipi della Mondadori e in lingua inglese per i tipi della Phoenix, Lucrezia Borgia, un’ampia ed esauriente biografia che va dal 1492, allorché il padre Rodrigo viene eletto pontefice, alla sua morte, avvenuta nel 1519, probabilmente per setticemia. Si tratta di un’opera monumentale, frutto di un lungo periodo di ricerche nei più svariati archivi, ed è la prima di Maria Bellonci, un esordio clamoroso, visto il successo da subito incontrato, e che fra l’altro le valse il Premio Viareggio, e la sua diffusione in moltissimi paesi del globo. Già da allora si delineava chiaro lo stile di questa storica e narratrice piemontese, uno stile che, pur non scostandosi dalle risultanze emerse dai carteggi, non solo non è mai greve, ma addirittura avvincente, tanto lega il lettore al filo del discorso con una continuità che non viene mai meno, con un ritmo per lo più incalzante che lascia tuttavia lo spazio per ponderate riflessioni e per pagine più quiete, in cui si sviluppa un linguaggio di soffusa poeticità che dà respiro a un lavoro innegabilmente complesso. In buona sostanza Maria Bellonci è in grado di narrare la storia, intessendo una trama senza voli di fantasia, se non per le personali considerazioni in ordine ai vari protagonisti.  Che Lucrezia Borgia di per sé sia un personaggio di estremo interesse è fuor di dubbio ed è stata vista dagli storici via via come diabolica avvelenatrice, soprattutto per quelli che all’epoca trovavano vantaggiosa questa definizione, oppure come fanciulla infelice perché piegata alla ragion di stato, fondamentalmente innocente, ma purtroppo succube del padre e del fratello Cesare. Al primo, come scrive Maria Bellonci, somigliava nel suo modo gioioso d’aver fede in tutte le promesse del futuro; ma si può anche aggiungere che ne era la figlia anche per una innata carnalità, di cui tuttavia all’epoca nessuno si meravigliava; abile nel condurre anche una signoria, differiva dal genitore e dal fratello in quanto immune da una smania di grandezza volta a costituire uno stato dominato dai Borgia, anche in danno della Chiesa stessa. E per far questo, non esitavano a ricorrere alle arti diplomatiche per legare, tramite uno sposalizio, questa o quella signoria, così come utilizzavano metodi più spicci, come l’eliminazione fisica di un avversario, pratiche entrambe che, tuttavia, erano in quel periodo storico assai diffuse. A questo punto è indubbio doversi chiedere chi in realtà sia stata Lucrezia Borgia? Fra accusatori e difensori dei Borgia Maria Bellonci si pone in una prospettiva diversa, come appunto risulta da alcune righe di una Nota generale posta al termine dell’opera. Scrive: Scrivendo questa storia, ho inteso non tanto di rifare il secolare processo ai Borgia, quanto di rappresentarli nel loro modo quotidiano, caldo e naturale di stare al mondo, in una prospettiva umana di individui, non mostruosa di criminali. E poiché ho preso a narrare particolarmente di Lucrezia Borgia, aggiungerò che ella è stata di tutta la famiglia la più maltrattata, e dagli accusatori e dai paladini: un vero destino da donna. 

E’ così che, se Rodrigo e Cesare Borgia sono particolarmente invisi – ma come ho scritto prima il loro comportamento era diffuso all’epoca - , a Lucrezia per il solo fatto di essere donna e di quella famiglia vengono da un lato attribuiti i più nefasti crimini e dall’altro invece la si evidenzia come una succube, un essere privo di personalità, appunto a conseguenza del suo essere femmina.

Non era né l’una, né l’altra, era invece un essere pieno di vitalità che nella sua esistenza ebbe da scontare quella parentela che tanto spaventava, perché le mire di Cesare, sostenute da suo padre, non erano limitate territorialmente, ma abbracciavano idealmente l’intera Italia. 

Maria Bellonci è riuscita in un difficile compito, cioè rendere giustizia alla storia e allo stesso tempo alla dignità di una donna che aveva l’unico torto di appartenere alla famiglia Borgia.

In una narrazione senza respiro, minuziosa nei fatti come nelle descrizioni dei personaggi e  delle atmosfere, emerge la figura di una donna che in pratica ebbe a conoscere un po’ di felicità solo dopo la scomparsa del padre ed il crollo dei sogni di conquista del fratello. Lei che fu sposa, per breve tempo, di Giovanni Sforza ( i due non si amavano) e poi del duca di Bisceglie, il suo primo autentico amore, ucciso dai sicari di Cesare - il che potrebbe avvalorare le voci di un loro rapporto incestuoso, ma sono solo mere supposizioni, perché di certo non vi è nulla di concreto – troverà la pace e l’appagamento come donna  nel rustico, ma suo modo fascinoso Alfonso d’Este. Ferrara diventerà per lei la seconda patria e piano piano riuscirà, se non a farsi amare, almeno a farsi rispettare dai suoi cittadini.

Quanto alla tresca con il cognato Francesco Gonzaga viene di molto ridimensionata, nel senso che se si trattò di vera attrazione (lei bellissima, lui non bello, anzi bruttino, ma dotato di una particolare personalità) il tutto si risolse in una schermaglia amorosa di tenore platonico, all’epoca peraltro molto in voga.

Grazie alle ricerche e ai documenti reperiti negli archivi, di Lucrezia si viene a sapere pressoché tutto: dei favolosi vestiti che indossava, della sua preziosa collezione di monili d’oro e di pietre preziose e perfino dei componenti la sua corte personale.

Fra guerre combattute e battaglie diplomatiche emergono, escono dall’ombra, per poi infine ritornarvi, personaggi famosi, come l’Ariosto, il Bembo, lo Strozzi, tutti letterati che le corti cercavano di attrarre e che Lucrezia annoverò fra i suoi frequentatori.

Ebbe molti figli, fra cui l’erede al ducato, ma i parti sfibrano, stancano una donna, la indeboliscono e così a 39 anni, alla sua ottava gravidanza, ebbe un parto prematuro; la bimba sopravvisse, la madre penò ancora due giorni fino a esalare l’ultimo respiro. E qui Maria Bellonci si supera, con le ultime righe che raggiungono vertici sublimi. Lucrezia rivede la sua vita, la sua partenza da Roma per Ferrara:  Forse a questo rombo che sembra arrivare da un tempo remotissimo, da un’eternità umana, con una voce che ha tanto di magia quanto di antica incuorante serenità, i terrori finivano di sbandarsi per dar luogo ad una stanchezza lunga, filata, vicina alla pace. Era venuto il momento di non aver più paura. Lucrezia guardava in viso suo padre come al momento della loro separazione, quel nevoso mattino d’Epifania. E come allora sospirò appena, quando qualcuno disse che bisognava partire.

Ecco, senza volerne fare un’eroina, non vorrei che l’epitaffio dicesse Qui giace Lucrezia, sposa e madre esemplare, ma semplicemente Qui giace Lucrezia, che amò la vita senza toglierla ad alcuno.

Il libro è sicuramente stupendo, un grandioso affresco rinascimentale dipinto con mani sapienti ed equilibrate.

 

 

 

 

 

Maria Bellonci, di origini piemontesi, nacque a Roma nel 1902 ed esordì nel 1939 con Lucrezia Borgia, che vinse il premio Viareggio. Insieme al marito Goffredo diede vita nel 1947 al premio Strega. Tra i suoi libri: Segreti dei Gonzaga, Pubblici segreti, Tu vipera gentile, Marco Polo. Rinascimento privato esce nel 1985, l'anno precedente la morte dell'autrice.

 

 

Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 28 febbraio 2013


MondoBlog

 

 

Che c’è che c’è che c’é…:

 


 


 


 


 


 

giovedì 14 febbraio 2013

La penna, la spada e l’aratro, di Renzo Montagnoli


La penna, la spada e l’aratro

di Renzo Montagnoli

 
 


 

 

Era da un po’ di tempo che cercavo un po’ di tranquillità per scrivere di un grande autore, doppiamente sfortunato, in quanto deceduto e anche per il fatto che i suoi libri, quasi tutti di notevole livello, non hanno trovato il successo di pubblico che ampiamente avrebbero meritato.

In particolare avrei voluto stilare una sua biografia, accompagnata da un’analisi critica dei suoi romanzi, onde porlo nella giusta luce per quel posto che, benché snobbato dai critici, si è sicuramente ritagliato nella storia della nostra letteratura.

Il tempo, purtroppo, è tiranno e dopo non pochi ripensamenti sono giunto alla conclusione che in fondo la biografia di un uomo, di un artista è sì importante, ma ciò che più conta sono le sue opere e pertanto è del narratore che intendo scrivere e non anche dell’uomo.

A lui ero legato da una viva amicizia e fra noi vigeva una reciproca stima; solo la distanza fra la mia e la sua residenza ci ha impedito di conoscerci materialmente, ma gli scambi di posta elettronica, le non infrequenti conversazioni telefoniche e, soprattutto, la lettura dei suoi libri ha consentito che mi facessi più di un’idea, permettendomi addirittura di comprenderne l’intima natura, forse in misura maggiore di una frequentazione abituale. Di Valentino Rocchi, perché è di questo autore romagnolo di nascita e pesarese d’adozione che sto parlando, non posso che avere un caro e indelebile ricordo e scrivere di lui come romanziere mi sembra la giusta mercede per quanto di positivo mi hanno dato i suoi libri.

Fino al febbraio del 2008 mi era del tutto sconosciuto e fu proprio in quel mese che ricevetti da Pina Vicario delle Edizioni Agemina un libro che lei mi aveva definito piuttosto interessante. Si trattava di La Magia del Fuoco, titolo di per sé tale da destare una naturale curiosità, ma io, per principio, guardo poco a queste cose, preferisco leggere, analizzare lo stile, verificare la trama, ponderare gli elementi valutativi salienti. Devo ammettere che quelle 175 pagine, divorate in pochi giorni, mi sorpresero non poco, presentando caratteristiche di qualità, sia sotto l’aspetto strutturale, sia sotto quello stilistico. La trama, poi, di questo romanzo di sentimenti, di vita vissuta, di riflessioni si presentava appetibile, era un piacere andare avanti nella lettura, che fra l’altro risultava avvincente. Sarà stata la sobrietà dello stile, l’equilibrio nella narrazione senza mai una parola di troppo, una delicatezza quasi soave nella sempre difficile descrizione di un’iniziazione sessuale, ma resta il fatto che mi entusiasmai al punto che mi venne naturale chiedere all’autore se si trattava dell’opera prima, oppure se ne aveva già scritte altre.

Emerse così che esistevano altri romanzi nel cassetto e altri ancora, pochi, erano stati pubblicati con alcuni piccoli editori e Valentino fu tanto gentile da farmi avere una copia di ciascuno.

Passarono così per le mie mani pagine e pagine di opere che non fecero altro che rafforzare la mia convinzione sul fatto che ci si potesse trovare davanti a un autore rivelazione. Soprattutto questi lavori erano caratterizzati da una costanza di rendimento invidiabile, da uno stile di cui si notava il progressivo affinamento, ma ciò che più m’impressionò fu l’ambientazione, rurale, con descrizioni di personaggi e di luoghi mai greve, ma concisa ed esauriente. Questo mondo agreste, che si ritrova in L’eredità di Venanzio, Gli uomini di Bluma e La saggezza di Toni, ricostruito in un’epoca in cui ancora la civiltà contadina non era morta, fatto di sentimenti e di superstizioni, di odi lancinanti e di amicizie salde, non era solo il palcoscenico su cui venivano rappresentate le varie trame, ma assumeva una valenza propria, frutto probabilmente di una nostalgia per gli anni precedenti la seconda guerra mondiale, che avevano visto la giovinezza di Rocchi, non certo agricoltore, ma di estrazione contadina. Anche questi tre romanzi erano belli, coinvolgenti, piacevolissimi da leggere e toccavano le corde dell’animo; ne fui e ne sono tuttora entusiasta, ma il meglio doveva ancora venire e venne con Notte all’Hostaria La Guercia.  Il libro mi fu recapitato dallo stesso autore che ci tenne a dirmi che era un’opera a cui teneva molto e ne aveva ben ragione. Infatti, nonostante il titolo non proprio invitante, in queste 305 pagine, nel parlarci di un personaggio realmente esistito, tale Pandolfo Collenuccio, diplomatico del XV secolo, pesarese di nascita, ci offre un affresco stupendo del nostro rinascimento, in un periodo particolarmente travagliato, di grandi lotte di potere, con le mire espansionistiche del pontefice Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, sulle Signorie  dell’Italia Centrale e poi anche più su, fino alla Romagna.

Dicevo del titolo non invitante, ma che ha un preciso significato, poiché Rocchi, invece di narrarci la vita di questo personaggio dalle origini fino alla sua morte, preferisce mostrarcelo in questa notte trascorsa vegliando in una vecchia osteria in prossimità di Pesaro, a cui, non senza fondati timori, si accinge a ritornare. In queste ore insonni Pandolfo, in preda a comprensibili paure e incertezze, rievoca il suo trascorso con le considerazioni del presente. È un’idea felicissima, questa, perché in questo modo si mette alla luce una vena malinconica, che ravviva l’opera, avvicinando il protagonista al lettore. Questo grande uomo, che ha servito gli Sforza, i Medici e i Gonzaga, e che dunque nella sua carriera è arrivato a vertici elevati, ora è diventato pauroso, incerto, perché teme che quell’invito a rientrare sia una trappola (e infatti lo sarà). Nondimeno è consapevole che la vita è una parabola e che lui è ormai è nella fase discendente, in cui le glorie trascorse si appannano, in cui sorgono rimpianti; la sua coerenza forse vacilla, ma deve andare, costi quel che costi, perché così è scritto nel libro del destino, perché in fondo ogni giorno è buono per morire, purché non si tradisca se stessi.  

Scritto in modo elegante, con non sporadiche felici intuizioni, Notte all’Hostaria La Guercia mi colpì profondamente ed ebbi netta la sensazione di essere in presenza di un capolavoro. L’edizione era vecchia e meritava quindi di essere ripubblicata, e a ciò provvide la casa editrice Agemina che, nell’occasione, fece un saggio e ponderato editing, che impreziosì l’opera ulteriormente. Fu così che nell’autunno del 2008 uscì 1504 – Notte all’Hostaria La Guercia, che ritenni di prefare, tanto ero e sono convinto della validità di questo romanzo. In quell’occasioni scrissi quanto segue:

 

Già ho scritto qualche tempo fa di questo bellissimo romanzo storico, allorché risultava edito da Argalia e con il titolo di Notte all’Hostaria La Guercia.

Mi risulta quindi difficile riparlarne in altri termini, per quanto in questa seconda edizione non sia cambiato solo il titolo, ora più indovinato ed esplicativo, ma anche perché opportunamente l’autore ha colto l’occasione per apportare piccole modifiche, per la verità nulla di importante, ma che hanno finito per perfezionare un’opera già originariamente di elevato livello.

A suo tempo avevo scritto che era un capolavoro e anche ora il mio giudizio resta invariato, perché l’impronta, la struttura mantengono le stesse caratteristiche che così tanto mi avevano impressionato.

Quella notte trascorsa in una cameretta dell’Hostaria La Guercia è lunga un’intera vita, costituisce l’occasione per l’uomo Collenuccio di ripensare al lungo percorso che l’ha portato fin lì. E se il personaggio storicamente si presenta di notevole interesse, quello che permea di grazia tutta l’opera è la sua essenza, è quello spogliarlo dei panni di protagonista famoso di un’epoca per metterlo a nudo, per ricondurlo al suo stato di uomo fra gli uomini.

È solo così, infatti, che ci è consentito di avvicinarlo, di vivere con lui, di essere parte dei suoi sentimenti.

Se fosse rimasto un personaggio idealizzato, ben staccato nelle sue caratteristiche da quelle di tutti i mortali, non avremmo potuto apprezzare le bellissime pagine della sua iniziazione alla vita sessuale, né avremmo potuto comprendere i suoi tormenti, né essere partecipi delle sue pene d’amore.

Così, in una notte dal futuro molto incerto, anzi dalla sensazione che non ci sarà un futuro, Pandolfo Collenuccio, nel raccontare di se stesso, finisce con il dialogare con noi, proponendoci episodi in cui non è difficile che ci possiamo riconoscere, ma il tutto con una delicatezza che dona al ricordo la dimensione della sacralità, lo fa diventare una testimonianza indelebile di una vita vissuta.

Quel rievocare il tempo andato alla luce dei dubbi e dei patemi d’animo del presente impregna tutto il romanzo di una velata malinconia, umanizza il personaggio e in tal modo lo fa sentire parte di noi.

Così la sua emozione del primo rapporto con Maria, chiamata affettuosamente ‘susina acerba’ per le sue qualità estetiche, diventa anche la nostra emozione, la sua nostalgia per questo primo amore finisce con l’essere anche la nostra e, sebbene per un naturale senso di conservazione non moriamo con lui (una pagina, questa, di altissima letteratura), però siamo lì presenti e diventa veramente difficile riuscire a trattenere le lacrime.  

Ma anche l’aspetto storico è tutt’altro che secondario, con la descrizione di un’epoca e con un corollario di personaggi anche famosi che non finiscono lì a caso o che vengono citati solo per convenienza, ma perché c’è una precisa ragione logica che li colloca nella trama, rispondendo di fatto a quello che avvenne veramente.

Si riesce così a tornare indietro nel tempo, quasi ci si cala nel mondo del quindicesimo secolo, in compagnia di questo protagonista che in effetti fu un grande cortigiano e diplomatico.

Incontreremo così Poliziano, Pico della Mirandola, i Borgia e così via, in un affresco storico che nulla lascia alla fantasia, ma che interpretato in chiave romanzesca risulta particolarmente avvincente.

È strana, comunque, la vita. Io non sapevo nulla di questo Pandolfo Collenuccio, ma da quando ho letto questo libro mi sembra che sia diventato un vecchio amico, il cui ricordo ormai mi accompagna.

I personaggi storici normalmente si ricordano per ciò che hanno fatto di straordinario, nel bene o nel male, ma dell’uomo, cioè della sua essenza, distaccata dall’incarico ricoperto o dall’impresa svolta, sappiamo ben poco, perché ciò che conta sono le azioni che ne decretano la memoria.

L’abilità di Valentino Rocchi è l’averci rivelato anche un Pandolfo Collenuccio privato, di averlo svestito dei panni ufficiali della storia per mostrarci l’uomo, con le sue debolezze, i suoi patemi d’animo, le sue piccole gioie.

Questa umanizzazione del personaggio, anziché sminuirlo, tende ad avvicinarlo a noi, a ricondurlo a quella natura che è propria di tutti, così che è anche possibile comprendere il comportamento e le azioni che lo hanno reso celebre.

La caducità, invece di svilirlo, ha finito con il donargli uno spessore del tutto particolare,  che non potrà non restare impresso nella memoria del lettore, conferendogli così quell’immortalità dell’uomo salito all’olimpo degli dei. “.

 

A distanza di tempo, pur sopite le emozioni provate nella lettura, sottoscrivo in toto  il contenuto della mia prefazione e quindi il mio giudizio resta inalterato su quelle che sono le qualità, notevoli, dell’opera, un vero e proprio capolavoro.

Tuttavia, la nuova edizione non ebbe il successo che avrebbe meritato per diverse ragioni, soprattutto per queste: le modeste possibilità pubblicitarie di una piccola casa editrice, un mercato artefatto in cui si tendono a imporre per  lo più autori prefabbricati, che scrivono solo il nulla per un popolo di lettori ormai asservito, il silenzio, non certo casuale, di critici che sovente danno l’impressione di avere accordi segreti con questo o quell’editore.

C’è tutta una casistica al riguardo e che vede sconosciuti e incapaci scrittori ottenere riconoscimenti di pubblico e di critica per opere che francamente sono quasi spazzatura e magari quelle che veramente valgono passano inosservate, così come nel mercato finanziario la moneta cattiva prevale su quella buona.

Tuttavia, Valentino non ne soffrì in modo particolare, perché era contento del giudizio anche di pochi, ma che per lui erano considerati molto, e del resto non era nel suo carattere abbattersi, ma proseguire, far conoscere ad altri i suoi romanzi nel cassetto. Fu aiutato, in questo, dalle Edizioni Agemina, da Pina Vicario che aveva per lui la stessa stima che avevo io.

Fu così che nell’autunno del 2009 venne pubblicato Confrontarsi con Karolina, un romanzo un po’ atipico nella produzione di Rocchi, dalle tinte gialle, e in un ambiente non rurale. Ciò nonostante il mio giudizio fu confortante, nel senso che si trattava di un libro piacevole da leggere e in fin dei conti di un’esperienza diversa che l’autore aveva saputo interpretare con mano ferma e senza alterare le sue radici artistiche.

Nel frattempo Valentino mi aveva fatto avere tre suoi libri, pubblicati da diverso tempo da altri editori: Una storia a Castelvecchio, che è la storia di un’emancipazione femminile fra le due guerre,  Il pianoforte a coda, storia di un bancario che cerca la libertà dedicandosi al commercio ambulante e La padrona di Santa Maria, una vicenda di ribellione femminile allo stato di sudditanza imposto in un passato non troppo lontano dall’altro sesso, accompagnato dalla grettezza sovente presente nel mondo contadino. Sono tre romanzi piacevoli da leggere, di buona qualità, ma ovviamente incomparabili con 1504 – Notte all’Hostaria la Guercia.

Il 30 gennaio 2010 Valentino Rocchi, da tempo malato, veniva a mancare ed è di pochi giorni prima l’uscita, per i tipi di Agemina, di Giolina, uno fra i suoi romanzi nel cassetto di cui più mi aveva parlato.  E qui ritorna uno dei suoi temi cari, quello dell’inferiorità femminile, più accentuato nel mondo rurale. Da buon conoscitore di questa realtà, Valentino è stato in effetti un cantore della civiltà contadina, in cui miseria diffusa, grettezza, superstizioni, avarizia e ingordigia  si mescolavano in un calderone che sembrava sempre pronto a scoppiare, ma che poi sbuffando si quietava. Era l’immutabilità di una condizione che un altro narratore, Ferdinando Camon, ha saputo descrivere così bene; anche Rocchi   guarda a quella società, composta per lo più da miseri, con uno straordinario affetto, proprio di chi è giustamente convinto che il tempo delle stagioni, che regola la vita dei campi, sia l’unico per gli uomini, con quelle ore di lavoro che vanno dal sorgere del sole al suo tramonto, una metafora della vita che ogni giorno si rinnova. Giolina è effettivamente un bel romanzo, con una trama avvincente e convincente, e testimonia una volta di più che chi è legato alla terra scrive della stessa.

Sono usciti poi, postumi, e sempre pubblicati da Agemina, due lavori con temi completamente diversi: Menelicche e L’uomo del cardinale.

Il primo trae origine da una filastrocca e tratta delle insormontabili barriere sociali, con l’amore fra una giovane ricca, ma menomata, e un povero operaio di un cantiere navale.  E’ quasi una favola, non a lieto fine, scritta in punta di penna, con leggerezza e rispetto per gli sfortunati protagonisti, uno di quei romanzi in cui i sentimenti sono espressi con pudore, circostanza sempre più rara oggi, e in cui l’eterna lotta di classe trova nel popolino, ignorante e invidioso, il maggiore inconscio alleato del certo forte.  All’inizio sembra una storia da poco, ma poi, mano a mano si procede nella lettura, non si possono non apprezzare descrizioni di paesaggi marini sfumate come in un acquerello, caratterizzazioni precise e convincenti, una malinconia diffusa che s’accompagna a una scorrevolezza frutto di uno stile meditato e studiato.

Con L’uomo del cardinale Rocchi ritorna al romanzo storico, anzi in questo caso di ambientazione storica, perché fra tanti personaggi che vi figurano e che sono realmente esistiti il protagonista principale è di pura fantasia.  E come per 1504 – Notte all’Hostaria La Guercia emergono le migliori qualità dell’autore, tanto che il libro è veramente stupendo, sia per la trama che per l’ambientazione, oltre che per la morale dello stesso; al riguardo credo che meglio di qualsiasi giudizio valgano le parole della mia recensione:

 

Alla ricerca del senso della vita

 

 

<<Era un bambino. Sedeva sull’orlo di un dirupo, proteso a valle, ad osservare la luna nelle notti di sereno e, molte volte, durante il giorno, da lì spiava ciò che accadeva in basso, attorno al suo paese maledetto.>>

 

Inizia così l’ultimo romanzo di Valentino Rocchi, compianto autore di quell’autentico capolavoro che è 1504 – Notte all’Hostaria La Guercia; quel paese maledetto è un agglomerato di casupole in cui non vivono, ma vegetano donne, abbandonate dai loro uomini o semplicemente diventate vecchie anzitempo,  compagne di soldati di ventura, mercenari come loro, un reclusorio in cui attendere la fine dei propri giorni. Quasi assenti i maschi, al più qualche marmocchio, frutto di amori fugaci o di una notte di meretricio, questa è una favela dell’umanità in un’epoca  di predatori voraci e  di prede rassegnate.

Da qui parte quel bambino, risultato di un rapporto forse con un nobile dei dintorni, che la madre in un certo qual senso ricatta, al punto da ottenere che il figlio lasci quel luogo senza speranza perché possa finalmente vivere. Affidato all’istruzione di un ex capitano di ventura, diventato abile di spada, ma anche ingordo di letture, Antonio, questo il suo nome, a cui assocerà il cognome Bagno del padre putativo, si fionderà nel mondo di lotte cruente, di sangue grondante, di tradimenti e di viltà, di passione per il bello, per le arti, di superstizioni dirompenti, di orgiastici intrallazzi che è proprio del Rinascimento.

Lui si pone ai servizi del miglior offerente ed esegue il suo lavoro con grande competenza e meticolosità, sia che si tratti di consegnare il riscatto per la liberazione di un nobile, sia che debba indagare su misteriori tentativi di omicidio; la certezza del risultato lo contraddistingue, al pari della riservatezza, della capacità di arrivare allo scopo nel modo migliore, anche uccidendo, se necessario.

Il suo primo e principale committente è il cardinale Ascanio Maria Sforza Visconti, famoso per aver fallito nel tentativo di ottenere l’investitura di pontefice, che invece andò, grazie anche ai suoi buoni uffici, a Rodrigo Borgia, salito al trono di San Pietro con il nome di Papa Alessandro VI; in cambio dei favori prestati, il cardinale ottenne la nomina a Vice-Cancelliere, in pratica il primo ministro dello Stato della Chiesa, un incarico di grandissima importanza che assolse soprattutto con un occhio di favore per la famiglia d’origine (era fratello minore di Galeazzo Maria Sforza e di Ludovico il Moro).

Per assolvere agli incarichi di volta in volta assunti, Antonio Bagno è sempre in movimento, in un lungo viaggio che lo porta dalle Marche al Regno di Napoli, dalla città di Roma, corrotta, fonte di ogni peccato, alla Firenze bacchettona del Savonarola, dall’allegra corte estense alla pacifica signoria di Urbino.

E ogni volta sono nuovi successi, ricompense cospicue che entrano nella scarsella, insomma quel bambino cencioso, ormai diventato uomo, si può considerare “arrivato”, ma non è contento, perché avverte la solitudine di quel peregrinare che scandisce impietoso i tempi della vita. Gli anni passano e in Antonio c’è l’insoddisfazione, perché si accorge, giorno dopo giorno, che la sua non è vita, che lui è sempre di più meno padrone di se stesso; alla fine riuscirà a imprimere una svolta decisiva, terminando il viaggio in un paese quieto, lontano dai clamori dei signori e delle battaglie, fra le braccia di una donna, a cui si è avvicinato non per consumare un rapporto, ma per amore.

Ed è questo il grande messaggio del romanzo: tutto ciò che si fa, tutto quanto si mette in atto per emergere è la gioia di un momento, è nello stringere fra le mani un sogno impalpabile. La vita non ha senso se non nell’amore, in quel reciproco affetto che permette di proseguire con serenità quel cammino che è di tutti, dall’alba al tramonto.

Se tanti personaggi che compaiono sono realmente esistiti, quello di Antonio Bagno è esclusivamente frutto di fantasia, ma è anche un emblema, quello di un uomo che vuole essere artefice della propria vita e che comprende strada facendo che nessuno è veramente libero, che la sorte toccata agli uomini, ai potenti e ai derelitti, è di essere schiavi del proprio ruolo; l’unico rimedio è allora di non darsi come sudditi, ma di donarsi per amore.

L’uomo del Cardinale è sì un libro d’avventure, ma queste non sono la sua finalità, bensì l’esclusivo mezzo per portare avanti quel discorso sul senso della vita di cui ho detto poco fa.

L’epoca, l’ambientazione, i personaggi veri e inventati sono descritti in modo ammirevole e considerato che ci sono notizie perfino sul modo di vestire o di spostarsi, sulle principali strade da percorrere, il libro è una fonte quasi inesauribile di conoscenza, ma ciò che balza subito evidente è l’effetto immediato che hanno le parole sul lettore; sia che si parli dei locali di una taverna, sia che si tratti delle mura possenti di un castello, in un attimo si ha la visione di ciò che è descritto, al punto di vedere noi stessi fra gli ospiti seduti a un tavolo, oppure fra le guardie che procedono lungo il cammino di ronda.

In fondo, se anche fa piacere che Antonio alla fine trovi la sua giusta strada, rimane una sensazione di mancanza, come di qualche cosa di cui si è sempre fruito e ora si è perso; ma se non ci saranno altre avventure, a cui così bene ci eravamo abituati, di una cosa saremo certi e orgogliosi: l’aver letto un libro di grande bellezza.”.

 

Mi risulta che nei cassetti ci siano altre opere inedite, ma dubito che possano vedere la luce del sole, ed è un peccato perché Valentino Rocchi ha scritto tanto e in proporzione ha pubblicato poco, ma quel poco non è paccottiglia, non sono inutili pagine da leggere per ingannare il tempo mentre si fa un viaggio in treno. In quelle righe, in quelle parole c’è tutto un mondo che si agita e che si affaccia alla ribalta: la terra, fonte di vita, ma anche di fatiche e di dolori, e chi la coltiva, figure di un mondo che mai più ritornerà, ma che Valentino ci ha fatto conoscere e anche amare; uomini d’arme e di penna, ombre ormai disperse nell’Ade e che grazie ai suoi romanzi sono rinate, a insegnarci che, se tutto passa e va, restano comunque valori imprescindibili, tali da sacrificare per essi anche la vita. Fra l’ostinata coerenza di Pandolfo Collenuccio e la ricerca del senso della vita di Antonio Bagno non c’è nessuna differenza, sono entrambi personaggi che vogliono conoscere se stessi, che scavano nel loro intimo affinché l’esistenza non sia un semplice e inconsapevole passaggio dall’alba al tramonto. Ma in mezzo a loro c’è anche qualche cosa d’altro, che li avvicina e ce li addita come esempi: una penna, la penna di Valentino Rocchi, mai dimentica di un aratro che traccia il solco nella feconda terra e che lascia un segno, indelebile, in chi ha letto i suoi libri.



 

 

 

   

 

 

 

 

MondoBlog del 14 febbraio 2013


MondoBlog

 

 

Oggi segnalo:

 

 


 


 


 


 


 


 

 

martedì 5 febbraio 2013

Il Parco del Mincio

                                                Bosco della Fontana con villa gonzaghesca
 
 
 
Il Parco del Mincio

di Renzo Montagnoli

 

                                                             Cicogne nel nido
 

 

 

Istituito dalla Regione Lombardia nel 1984 il Parco del Mincio è una vasta area protetta, estesa su una superficie di circa 16.000 ettari, che va, seguendo il corso del fiume Mincio (emissario del Lago di Garda), dal comune di Peschiera a quello di Sustinente, passando dai rilievi delle Colline Moreniche alla pianura alluvionale del Po.

Se si scende lungo il corso del fiume si incontrano via via borghi di grande interesse storico e paesaggistico, nonché diverse realtà naturali, ognuna con una sua peculiarità al punto che alcune sono elevate al rango di riserva naturale (Riserva Regionale Valli del Mincio, Riserva regionale Castellaro Lagusello, Riserva Statale Bosco Fontana, e queste sono solo le più note).

                                                   Scorcio di Mantova dal Lago di Mezzo


Considerata l’elevata estensione ed il fatto che in esso siano presenti più borghi il Parco è visitabile liberamente.

Se la natura, con il suo paesaggio, la flora e la fauna, è di indubbia attrattiva, vi è anche da considerare il percorso artistico, forse assai più rilevante.

Lungo le rive del fiume Mincio o nelle immediate vicinanze si trovano Ponti sul Mincio, con il suo antico castello del XII secolo, di cui si restano le torri e la cinta merlata, Monzambano, anche qui con un castello medievale, Volta Mantovana, arroccata sulle ultime propaggini delle colline e rivolta alla pianura, Goito, il paese dei Bersaglieri, testimone del nostro Risorgimento, Rodigo, con la frazione di Rivalta, lambita dalle acque del fiume che poco più a sud si amplia, rallenta la sua corsa e si trasforma in un lago, il primo dei tre laghi di Mantova, e appunto Mantova, una più belle città d’arte del mondo, che merita un articolo tutta per sé che magari scriverò in altra occasione, Virgilio, famoso per aver dato i natali al più grande poeta latino, Publio Virgilio Marone, e senz’altro meno noto per il fatto che qui è la mia residenza, Governolo nel comune di Roncoferraro, luogo di celebri battaglie in tempi piuttosto remoti.

A volte affacciati sul fiume, altre più in dentro ci sono luoghi di grandissimo interesse, magari meno noti di Mantova, ma comunque meritevoli di una visita:

- Il Forte di Pietole, struttura abbandonata, ma di cui è previsto il restauro, opera muraria imponente sorta per volontà di Napoleone Bonaparte;

- il Santuario delle Grazie, edificato nel 1406;

- i Mulini del Naviglio, di origine medievale;

- il sito etrusco del Forcello, uno dei meglio conservati in Italia;

- i castelli mantovani (a Volta Mantovana, a Governolo, a Castellaro Lagusello, che è uno dei più bei borghi d’Italia, a Curtatone, a Mantova (quello di San Giorgio, dove di trova la famosa Camera degli Sposi, opera di Andrea Mantegna, purtroppo lesionato dal sisma di quest’anno e in attesa di fondi per i restauri).

                                                             Airone bianco maggiore

Ma il Parco è anche flora e fauna e al riguardo quest’ultima è caratterizzata dalle presenze degli aironi bianchi, degli aironi cinerini, degli aironi guardabuoi, dei cigni reali, dei fischioni, delle garzette, dei germani reali, delle nitticore, delle oche selvatiche, dei tarabusini, delle cicogne, dei cormorani. E questi sono solo i volatili, perché poi ci sono mammiferi, come i caprioli, i cervi, i cinghiali, i gatti selvatici, le lepri, le volpi, i ricci, ecc. Non mancano poi i rettili, fra i quali la biscia d’acqua e il biacco; la vipera aspis è invece presente in modo più marcato nel Bosco della Fontana. E poi con tanta acqua ci sono naturalmente i pesci, dalla trota al persico, dal luccio al persico-trota, dalla tinca al pesce gatto. Per quanto riguarda la flora, a parte i maestosi salici piangenti che sovente si rispecchiano nelle acque del fiume, uno dei tre laghi di Mantova, quello superiore, presenta anche i fior di loto, stupendi e caratteristici durante la fioritura.
 
                                                       Tramonto con i fiori di loto
 

A girare e a camminare vien fame e queste sono zone dove si mangia bene e in cui si beve altrettanto bene, soprattutto se si ha l’accortezza di ordinare i vini (bianchi, rossi e rosati) dei Colli mantovani, considerati di assoluta eccellenza.

Come arrivare?

La base ideale è Mantova e vicino alla città ci sono le due uscite (Mantova Nord e Mantova Sud) dell’Autostrada del Brennero (A22); inoltre c’è un servizio ferroviario, invero assai modesto, con partenze da Modena, Verona, Milano, Nogara (VR); da ultimo c’è anche il Valerio Catullo, l’aeroporto sito vicino a Villafranca di Verona, da cui dista una quindicina di chilometri, mentre invece da Mantova sono circa 35 chilometri.

Ad ogni buon conto di seguito riporto i link di approfondimento e di utilità, con notizie più ampie sul parco, su dove alloggiare, dove mangiare, dove andare:

 


 


 


 


                                                              Valli del Mincio
 

Le fotografie sono state tratte dal Sito Internet del Parco del Mincio.