venerdì 30 agosto 2013

La ninfa del lago, di Renzo Montagnoli


 
 
 
 
La ninfa del lago
di Renzo Montagnoli
 
 
Sciolti i capelli,
scosso il capo,
in riflessi ondulati di luce
lasciò cadere le vesti
e rimase illuminata dalla luna.
Candida pelle,
baciata dalle stelle
in una notte d’estate forse immaginata,
fra contorni di canne lacustri,
vicini e lontani richiami di civette,
folletti di contorno a un sogno
di un giorno caldo di fuori e freddo dentro.
Con grazia felina
scivolò lesta sull’erba lucente di rugiada,
minuscole lacrime di un cielo
estasiato da tanta bellezza.
Corse all’acqua e lenta vi si immerse,
fino a sparir del tutto alla mia vista.
Il cuore galoppava dietro a lei,
ma il corpo restava,
greve,
un’ancora agganciata alla realtà della vita.
Le ore passavano e la ninfa del lago non tornava.
Già l’alba s’annunciava con frecce di luce
che cacciavano le ombre del buio.
Lontano, un gallo cantò,
mi richiamò dal sogno.
La mente corse invano all’acqua,
increspata dalla brezza del mattino,
e sul fondo non vide che lo spesso strato del limo.
L’ombra di un airone sorvolò i miei pensieri,
trascinando con sé l’illusione di una notte.
 
                  
Da Canti celtici – Il Foglio, 2007
 
Credo che questa colonna sonora possa richiamare l’atmosfera sognante della poesia:
 
 
 
N.B.: La fotografia è stata reperita sul bellissimo sito Settemuse.it
 

Giallo d’Avola, di Paolo Di Stefano




Giallo d’Avola

di Paolo Di Stefano

In copertina: I corvi di Vittorio Corona, 1926 circa (particolare)

Sellerio Editore


Narrativa romanzo

Collana La memoria

Pagg. 340

ISBN 9788838930171

Prezzo € 14,00

 

 

 

Presunzione di colpevolezza

 

 

In tutti gli ordinamenti giuridici moderni vale il principio della presunzione d’innocenza e quindi nel processo penale l’onere della prova della colpevolezza dell’imputato ricade sulla Pubblica Accusa che, sulla scorta solo di prove certe, imposta il suo iter, la sua azione in aula. Quindi non sussiste mai la presunzione di colpevolezza, come anche espressamente evidenziato dal secondo comma dell’art. 27 della nostra Costituzione, che così recita:  L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Stupisce quindi quanto accaduto nel lontano 1954 a Salvatore Gallo e a suo figlio Sebastiano, imputati di avere assassinato Paolo Gallo, rispettivamente fratello e zio, e di averne occultato il cadavere. Vero é che era notorio un permanente stato di litigiosità e pure vero é che spesso Paolo veniva aggredito e malmenato da Salvatore, ma da lì a imbastire un processo senza uno straccio di prova, sulla base solo dei precedenti pessimi rapporti, è senz’altro azzardato, anche perché per poter parlare di omicidio necessitava la presenza di un cadavere, che appunto non c’era. E che l’abbaglio venisse dalla Pubblica Accusa ci può anche stare, ma che poi si riconfermasse nel collegio giudicante in tutti e tre i gradi processuali è veramente inconcepibile. E tanta era la sicurezza, viziata dalla presunzione di colpevolezza, che si arrivò addirittura ad accusare di falsa testimonianza chi aveva visto, vivo e vegeto, il cadavere. Fu solo grazie alla tenacia di un avvocato e di un giornalista se finalmente, anche se in notevole riardo, fu fatta giustizia, con la liberazione dal carcere di Ventotene, dove scontava l’ergastolo, di un Salvatore Gallo ormai ridotto a un relitto umano. Tutto bene, quindi? No, perché lo stato è un Moloch mostruoso e si piega di fronte all’evidenza dei fatti, ma non si spezza e si prende la sua rivincita. Non aggiungo altro della trama, che ripercorre puntualmente un fatto realmente accaduto e che non solo in Italia ebbe vasta risonanza.

Il merito di Paolo Di Stefano è stato di riproporcelo, fedele alle carte processuali, ma anche con la capacità di trasmettere al lettore il pathos di una vicenda che si snoda in una Sicilia arcaica, fra povera gente, ricca solo di miseria, e per lo più anche ignorante. Il dramma dell’individuo ingiustamente condannato viene delineato non per sollecitare la commozione del lettore, ma per  dimostrare come i preconcetti siano sempre frutto di una illogicità che nasconde un’altra ignoranza, quella di chi crede di sapere perché può giudicare, un enorme potere che in mani sbagliate sancisce, inequivocabilmente, il trionfo dell’ingiustizia.

Giallo d’Avola è un legal thriller per nulla simile ai tanti, per lo più di autori americani, che ogni tanto tornano ad affollare le librerie; qui si rievoca e si fa tornare in vita un’epoca che molti non conoscono o hanno dimenticato, in un’Italia che allora cominciava a beneficiare del boom economico,  che tuttavia appariva così lontano dai terreni aridi e sassosi in cui contadini analfabeti si rompevano la schiena solo per sopravvivere, senza speranza, un mondo statico e spesso feroce, teatro di delitti anche familiari e in cui è potuto perfino accadere il dramma psicologico del “morto-vivo” di Avola.

Paolo Di Stefano sa scrivere bene, sa coinvolgere il lettore con attenta gradualità e il suo “Giallo d’Avola” è uno di quei romanzi che non si scordano facilmente.

 

Paolo Di Stefano è nato ad Avola (Siracusa) nel 1956. È inviato del «Corriere della Sera». Ha pubblicato inchieste e romanzi, tra cui Baci da non ripetere (1994, Premio Comisso), Tutti contenti (2003, Superpremio Vittorini e Flaiano), Nel cuore che ti cerca(2008, Premio Campiello e Brancati). Con questa casa editrice La catastròfa. Marcinelle 8agosto 1956 (2011, Premio Volponi) e Giallo d'Avola (2013).

 

 

Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 30 agosto 2013


MondoBlog

 

 

L’estate sta finendo, come le ferie,  e i blog cominciano a riaprire, anche se ci sono ancora non pochi ritardatari; ecco perché le segnalazioni odierne sono necessariamente limitate.

 


 


 

venerdì 23 agosto 2013

La primavera del lupo, di Andrea Molesini


 
 
La primavera del lupo

di Andrea Molesini

In copertina: Olio su tela di Edvard Munch, 1903 (particolare).

Art and Cultural History Museum, Lubecca

Sellerio Editore


Narrativa romanzo

Collana La memoria

Pagg. 304

ISBN 9788838930546

Prezzo € 14,00

 

 

 

Dagli occhi di un bambino

 

 

 

“E adesso sono triste anche se la mia zuppa non scotta più e me la mangio con questo pane buono. Perché delle volte la tristezza viene che non te l’aspetti, e così penso a Mauriziada, penso a Lirlandese, penso a frate Ernesto. Loro sono là fuori che camminano nel bosco sotto la pioggia, forse parlano con i lupi, forse parlano con le faine, dormono nella tana delle volpi e sono contenti che io e Dario stiamo al caldo di un fuoco, nella baita, con la zuppa. Sono fatti di gocce, i morti, e si vestono con gli aghi di pino, borbottano con le civette, entrano nei sogni per ridere e piangere con noi, di noi, dell’aria, dei gufi, delle cose che brillano come le pietre preziose, le stelle e tutto l’oro della luna. Siete voi, Mauriziada frate Ernesto Lirlandese, quelli che mi fido per davvero. Voi che non sento più le vostre voci quando c’è la paura e c’è che si scappa. Voi che di notte siete la pioggia che cade, le stelle che se allungo la mano vanno più in là, voi che di notte siete il mio lupo e una musica che si allontana.”  

 

 

Ho scoperto Andrea Molesini quasi per caso, anche se lui in campo letterario non era di certo uno sconosciuto, in quanto autore di libri di poesia, di saggistica, e traduttore dall’inglese di opere soprattutto di Derek Walcott. Ricordo che era l’anno 2010 e avevo letto una recensione di Ferdinando Camon al suo primo romanzo (Non tutti i bastardi sono di Vienna), recensione che mi aveva non poco incuriosito per le caratteristiche del libro, ambientato nel corso della prima guerra mondiale al di là del Piave dopo la tragica ritirata di Caporetto.

In quella occasione ho apprezzato la struttura, la narrazione fluida, scorrevole, in un italiano impeccabile, e in generale un’impostazione che, per quanto classica, è riuscita ad avvincermi dall’inizio alla fine, una sorta di lungo adagio che, ogni tanto, si impenna, ma senza mai arrivare a eccessi, insomma quello che si può definire un libro scritto bene e senz’altro molto bello. E infatti ha incontrato un notevole successo di pubblico e anche di critica, ottenendo perfino premi prestigiosi, fra i quali il Comisso e il Campiello.

Del tutto naturale è stata quindi l’attesa per il suo secondo romanzo, La primavera del lupo, uscito sempre per i tipi della Sellerio nella prima metà dello scorso mese di maggio.

Infatti mi chiedevo se questa nuova opera avrebbe potuto riconfermare le eccellenti qualità della prima, oppure se, come abbastanza di frequente capita, il nuovo lavoro, magari pur gradevole, sarebbe risultato inferiore al precedente.

L’ho letto, con immenso piacere, e mi sento tranquillamene di affermare che Molesini ha confermato il suo talento.

La primavera del lupo presenta alcune analogie con il precedente Non tutti i bastardi sono di Vienna (si svolge durante una guerra, non la prima guerra mondiale, bensì  la seconda, e anche qui c’è un’occupazione, non quella dell’impero austriaco, ma quella senz’altro più dura e crudele del terzo Reich). Queste le analogie, poi, per il resto, è completamente diverso perfino come impostazione e struttura.

La vicenda di un piccolo gruppo in fuga dai nazisti (si tratta di due bimbi, di cui uno ebreo, di due anziane sorelle, pure esse ebree, di una finta suora,  a cui poi si aggregherà in circostanze drammatiche un enigmatico disertore tedesco) potrebbe fare pensare al classico romanzo d’azione, ma non è così.

Infatti l’io narrante, di volta in volta, è Pietro, un bambino di dieci anni, ed Elvira, la finta suora, un’alternanza che, oltre a non stancare, dato l’inevitabile diverso modo di esprimersi, presenta i punti vista dell’infante e dell’adulto che non sono mai coincidenti.

Il  primo riesce istintivamente a vedere ciò che più si avvicina alla realtà, il secondo, ormai prigioniero della sua stessa logica, ha un approccio ben diverso, frutto di più di un ragionamento che lo porta ad avere una visione personale.  

Ma la forza straordinaria di questo romanzo sta nel linguaggio del bambino, nelle sue osservazioni che, ad differenza dell’adulto, non sono frutto di laboriose riflessioni, ma che risultano istintive, perfino nei suoi giudizi dei grandi. E’ ammirevole e anche stupefacente la capacità di Molesini di esprimersi come se avesse una decina d’anni, nel coniare frasi sgrammaticate, ma di grande valore, un po’, insomma, come se fosse riuscito a retrocedere nel tempo, alla ormai non più vicina infanzia.

E’ del tutto naturale, quindi, che Pietro desti una grande simpatia, superiore a quella degli altri suoi compagni di fuga, ma il gruppo va assottigliandosi nel lungo itinerario che li porta da Venezia a risalire la valle dell’Adige per rifugiarsi in una laterale della Val di Sole, un luogo adatto a ospitare dei fuggiaschi e dei disertori e in cui c’è una baita di proprietà di Elvira. Sempre sotto l’oscura presenza di una lussuosa Mercedes che li segue e su cui si nota la presenza di un misterioso albino, un’ombra malefica che aggiunge terrore alla paura,  giungeranno poi alla meta, e mi fermo qui, per non svelare il bellissimo finale che impreziosisce ancora di più un romanzo veramente bello  e più che mai avvincente. Scoppiettante, con frequenti colpi di scena, con un ritmo sostenuto e diverso a seconda dell’io narrante, per dirla con l’autore se Non tutti i bastardi sono di Vienna è paragonabile a un’opera di musica classica, La primavera del lupo è invece vero e proprio jazz, ma mai stridente e perfettamente raccordato in un equilibrio armonico di rara efficacia.

Credo che non sia necessario aggiungere altro, perché quando un’opera parla da sé, con le sue qualità, con il suo linguaggio semplice, ma non elementare, è solo opportuno evidenziare, non occorrono spiegazioni, perché queste avvengono spontaneamente in chi legge, tanto che scoprire pagina dopo pagina quanto sia avvincente e appagante finisce con il diventare l’elemento determinante. E solo alla fine resta il tempo per pensare e riflettere, e vi assicuro che di occasioni, passi, frasi al riguardo ce ne sono certamente non poche.

Buona lettura, quindi.

 

 

Andrea Molesini è l’autore di Non tutti i bastardi sono di Vienna, pubblicato da questa casa editrice, che nel 2011 ha vinto, tra gli altri, il Premio Campiello e il Premio Comisso, in corso di traduzione in inglese, francese, tedesco, spagnolo e molte altre lingue. Nel 2013 Sellerio ha pubblicato anche La primavera del lupo.

 

 

Intervista ad Andrea Molesini, autore del romanzo La primavera del lupo, edito da Sellerio.

 


Dopo l’indubbio successo di pubblico e di critica di Non tutti i bastardi sono di Vienna, ambientato nella prima guerra mondiale dopo la disfatta di Caporetto, ora c’è questo romanzo (La primavera del lupo) che si svolge negli ultimi giorni di un’altra guerra, quella del 1940-1945. Penso non sia dovuta al caso la scelta dei periodi, coincidenti con eventi cruenti, come appunto sono le guerre. È così, e se è così, perché?

 

Fin dalle sue origini la letteratura dell’Occidente usa la guerra come teatro drammatico dove ambientare la propria ricerca di senso. Senso dell’io, della Storia, del fato. Nell’Odissea si parla della guerra come di un dono di Zeus – padre degli dèi e degli uomini – perché ci fosse “materia di canto”. Un’intera generazione di principi prende il mare per soffrire e morire sotto le mura di una città lontana non per vendicare l’onta di un rapimento, non perché ingolosita dal miraggio di un bottino, ma perché il grande dispensatore di destini, Zeus, voleva dar loro cose da raccontare. Cose terribili.

La tragedia è il teatro del senso. Tragedia collettiva, con un senso della direzione storica (anche un terremoto o un tornado sono tragedie collettive, ma generate dalla Natura, non dalla Storia) dove ciascuno è costretto a bandire la trivialità dalla propria giornata e a ridurre – ma anche innalzare – se stesso all’essenziale. In tempo di guerra non c’è modo di pensare alla marca dei jeans: bisogna sopravvivere e rimanere esseri umani, civili a dispetto delle circostanze che tendono a ridurre l’uomo in bestia, perché l’orma di Dio, che c’è in tutti e in ciascuno, va comunque onorata.

Da sempre noi raccontiamo la guerra. Senza conflitto da risolvere non c’è storia da raccontare. Nessuno ha mai raccontato un amore felice, si racconta Anna Karenina o Giulietta e Romeo, si racconta quella famiglia infelice che è sempre infelice in quell’unico, irripetibile modo, per stare alle parole di Tolstoj. Perfino il cartone animato dell’orso Yoghi non sarebbe tale se non ci fosse il sergente che spara agli orsetti che attentano al cestino della merenda dei turisti del parco nazionale. Un conflitto mette in campo la nostalgia della pace perduta, ed è questa nostalgia, questa fame rapace, la benzina di ogni storia.

La primavera del lupo, però, è ambientato nella fase finale dell’ultimo conflitto mondiale, nel momento della grande confusione della fine, dove vincitori e vinti, buoni e cattivi, sommersi e salvati tendono – a tratti – a confondersi e tutto sembra ridursi al tentativo di mettere in salvo la pelle. Una situazione tragica ideale per trasportare l’identità dei personaggi là dove la loro consapevolezza di sé rischia di spezzarsi. Un personaggio degno di questo nome – parlo di “personaggio”, non di “tipo” – deve essere abitato da una sua personale “sete di senso” che ne anima e pervade l’identità. Non conta tanto il suo essere uomo o donna, tedesco o italiano, adulto o bambino, quanto quelle cose che nella vita, lunga o breve, dannata o buona, ne hanno fatto quell’essere unico che è, con un nome e un cognome, un singolare modo di vedere il mondo e manifestarsi nel mondo.

Il mistero dell’identità è sempre straordinario. Basti pensare che in un momento della vita abbiamo tre anni e in un altro, se siamo fortunati, ottanta. Due persone diverse? Sì, non solo per capacità ed esperienza, ma anche perché l’anima e il corpo sono mutati, eppure siamo sempre noi, con lo stesso nome, diversi finché si vuole ma nell’ottantenne che si guarda allo specchio resta il bambino che per la prima volta ha detto “mamma” e per la prima volta ha detto “io”. Naturalmente il personaggio di una storia degna di questo nome deve essere sempre “larger than life”, deve avere quel quid in più che lo rende speciale, cioè degno di racconto. Degno della battaglia narrata, che ha sempre al centro, inevitabilmente, la salvezza della sua identità, insieme estetica e morale, in una parola: umana. L’identità di ciascuno è destinata a restare mistero per chi la porta, la sente dall’interno del proprio sé, e per “gli altri”, che la vedono dall’esterno. “Non si sa cosa vedono gli occhi degli altri” dice Pietro, la principale voce narrante del romanzo.

 

In fin dei conti siamo sempre noi, nel bene e nel male, con la differenza però che il pericolo, le tensioni, le paure fanno emergere quanto non sapevamo di essere; questo è senz’altro vero per gli adulti, ma è meno evidente per i bambini, più portati a vedere istintivamente, un retaggio di quel sesto senso che l’acculturamento inevitabilmente fa regredire. Direi che in questo romanzo lo sfondo è rappresentato dall’evento bellico, ma gli autentici protagonisti sono i bambini, in primis Pietro che vive e vede il conflitto, ne trae conseguenze e riflessioni che sono disarmanti nella loro allarmante semplicità e realtà. L’adulto antepone a tutto la logica, l’infante no e perciò i suoi occhi sono quelli terribili della verità, quella stessa verità così bene espressa in quell’unica frase che alla fine esce dalla bocca di Dario. La primavera del lupo diventa così il romanzo dei bambini in preda a un evento più grande di loro e che interpretano con la disarmante semplicità derivante dalla giovanile innocenza, in un’accusa senza attenuanti all’implacabile mondo degli adulti, capaci di concepire un fenomeno che li richiama alla primordiale bestialità.  

Credo che proprio questo contrasto sia la chiave di volta del romanzo, ciò che impone la sua originalità e che, nell’avvincere il lettore, lo induce a meditare, a considerare che la logica non è sempre un bene, ma può anche essere un male.

È cosi?

 

Sì, è così. Anche se Pietro ha una sensibilità tutta sua, non è un bambino qualsiasi, ha visto la madre nella cassa da morto, gli hanno detto “che è in cielo” e così ha scoperto che i grandi mentono, sempre. Capisce che la menzogna è dovunque, ma sa anche che di se stesso può fidarsi: “A me non mi piace morire, a me mi piace io”. E sa che certe cose “non valgono”, se un amico muore “non vale”, dice. Il gioco della vita non è né bello né giusto, e ha regole che non si capiscono. Se muore un amico non vale, pensa Pietro, perché “un po’ della sua morte ti resta appiccicata”. È lo stesso “sapere” che gli fa dire “il mio gatto ha le gambe così lunghe che arrivano fino a terra”. I grandi hanno spesso le idee confuse, ma bisogna capirli, è molto tempo che non hanno più dieci anni. Pietro e Dario, il suo amico per la pelle, sanno che un forte che umilia un debole disonora se stesso e l’umanità intera, sempre. Sanno che “bello” è bene, “brutto” è male, non c’è iato, in loro, fra estetica ed etica. I loro pensieri bambini sono un inno alla vita. Anche la privata, spudorata diffidenza di Pietro per Gesù, che con tutte le spine che ha in testa “funziona” male, cioè non lo protegge abbastanza dai malvagi per via del suo mal di testa, partecipa della sua gioia caparbia e segreta dell’esistere.

 

Non c’è che dire: l’originalità e la bellezza del tuo romanzo stanno proprio nella vita e in particolare nella vicenda vissuta e vista dagli occhi di un bambino. Al riguardo mi ha stupito la tua capacità di ragionare e di esprimerti come un bimbo di una decina d’anni. Devi convenire che per un adulto già navigato ed esperto la cosa non è certo facile e c’era il rischio, abilmente evitato, di ricorrere a stereotipi che avrebbero certamente gravato tutta l’opera. Ma tu sei stato abile a mantenerti in equilibrio su un sottile filo di rasoio. La domanda mi viene spontanea: come può un adulto come te, che peraltro non è un insegnante alle elementari, ma in una Università, immedesimarsi così bene in un bimbo di dieci anni?

 

Intrattengo spesso rapporti puerili con il mondo. Ma non con l’infanzia. Anche se può sembrare strano ho avuto anch’io dieci anni. Un’età magica, dove ci si esprime come bambini di cinque ma anche come ragazzi di quindici anni. Una transizione che i più fortunati di noi non dimenticano. E io sono fortunato, non è un merito, ma una qualità sì. L’infanzia è un luogo di costrizione. Sempre. Le sbarre sono dappertutto, nella famiglia, nel sistema educativo, nella naturale richiesta di conformismo che ogni comunità esercita sull’individuo “in formazione”. E quando sei dentro una gabbia devi inventare la tua libertà, senza la quale non c’è vita. Ecco Pantera, una poesia di Rilke che tradussi qualche anno fa, che racconta cosa penso dell’infanzia: “Dal va e vieni delle sbarre accecata. / L’occhio più niente trattiene. / Dal semicerchio di buio braccata. / Oltre le sbarre più niente avviene. // Passi flessuosi, ritmo, forza / che un arco di ferro smorza. / Danza di tendini nelle forme / dove il volere – stordito – dorme. // Dalle pupille – a tratti – si alza il velo / muto. Un’immagine vi penetra / e scorre, tesa, quieta, nello zelo / delle membra – fino al centro della tenebra”. Un tempo di tenebra e di luce, dunque. La fuga narrata nella Primavera del lupo si svolge quasi tutta di notte, sul mare prima, attraverso i boschi dopo. Il luogo senza confini, la selva oscura. Il mare e il bosco generano e ospitano le grandi paure infantili dell’uomo. Sono strade che uccidono, ma anche sfidano, e liberano.

 

La fuga che si svolge quasi tutta di notte era un’altra mia curiosità, a cui hai risposto prima della mia domanda, ma dato che hai introdotto il discorso dell’itinerario ti devo dire che, se non mi ha sorpreso il viaggio sul mare (partono da Venezia, tu sei veneziano e peraltro mi risulta che ti piaccia veleggiare, e poi una massa d’acqua al buio tende sempre ad accentuare il senso di pericolo), mi ha stupito questa quasi cavalcata di risalita della valle dell’Adige per approdare in Val di Sole. La logica avrebbe voluto che scappassero a sud, verso gli alleati, e invece no, si tende verso il dominio di A.H. forse perché la montagna, con i suoi silenzi e la sua maestosità, infonde un senso di pace.

E’ così?

 

No. Oltrepassare la linea del fronte adriatico, che tagliava in due la Romagna dall’autunno del 1944, era quasi impossibile. Quel fronte era il luogo più presidiato d’Italia. Mentre il Trentino (uno dei fuggiaschi vi possiede un vecchio maso di famiglia, protetto dai boschi) era estraneo alla guerra civile, poiché era stato annesso al Terzo Reich nella primavera del ’44. Niente fascisti e non molti partigiani, insomma. Le sue valli, se si esclude quella dove passa la ferrovia che unisce il Brennero a Verona, che aveva un’importanza strategica e veniva bombardata ogni notte, erano presidiate da pochi soldati, e non certo da truppe scelte, visto che fungevano da gendarmi o poco più. Alla fine del 1944 diversi disertori della Wermacht si nascosero in Val di Rabbi, per attendere lì la fine delle ostilità. Volendo eludere gli inseguitori, Elvira e Karl vanno dove non ci si aspetta che vadano, verso nord. Attendere lì, nel Trentino, la fine della guerra, è stata una mossa scaltra.

 

Vero, anche se mi sembrava di aver capito che l’originaria fuga per mare aveva lo scopo di aggirare la linea gotica appunto procedendo nell’Adriatico verso sud. Comunque, al di là del fatto che pochi tedeschi e altrettanti pochi partigiani fossero presenti nel Trentino-Alto Adige, che all’epoca era stato incorporato nel Reich, e pur tenendo conto che la Val di Rabbi, laterale di quella di Sole, ben si presenta, anche oggi, a rifugio, alla luce della fitta vegetazione, mi chiedo e ti chiedo se questo ameno posto montano ha un particolare significato per te. In fin dei conti potevano cercare scampo anche nella Val di Pejo, altrettanto sicura, e che è abbastanza vicina a quella di Rabbi.

 

Sì, la prima idea di Karl era aggirare il fronte via mare, ma dopo essere stato intercettato da navi tedesche sarebbe stato suicida perseverare nel tentativo.

In quanto alla Val di Sole hai ragione, mi è cara, e anche il paesino di Bolentina. Il maso nascosto dal bosco è un luogo reale, come tutti gli altri del romanzo, lì, durante un’escursione estiva, vi ho scoperto un branco di cervi. Fu allora che decisi di farne un luogo del mio racconto. Non è stata una scelta razionale, ma dettata dal cuore. Come tutto, o quasi, quel che scrivo.

 

Ho visto giusto, quindi. La Val di Sole non è stata scelta a caso, ma per te costituisce un caro indelebile ricordo.

E veniamo ai personaggi, tutti ben delineati e tutti positivi, tranne uno.

Che i due bimbi, Elvira, Karl, frate Ernesto, Lirlandese e le due sorelle ebree Maurizia e Ada destino una naturale simpatia è fuor di dubbio. Ce n’è uno, invece, che è una presenza costante da un certo punto in poi del romanzo, ma è come un’ombra che insegue e di cui sappiamo ben poco, a parte il fatto che è tedesco, albino e viaggia su una lussuosa Mercedes. E’ il simbolo di una minaccia costante, di una spada di Damocle sempre pronta a cadere, è una sorta di morte in agguato che cavalca il destino. Credo che il fatto che si tratti di un albino non sia causale, visto che chi soffre di questa malattia congenita in un passato nemmeno troppo lontano è stato additato come portatore di sciagure, proprio perché diverso e soprattutto per quella particolare colorazione degli occhi. Quindi l’albino, pur essendo in carne e ossa, ha un significato simbolico  e non è un corollario della trama, ma vi si inserisce in modo subdolo per aggiungere tensione a tensione. Come ti è venuta l’idea di mettere questo personaggio?

 

Gli albini fanno pensare ai lemuri, nome che i romani usavano per indicare gli spiriti vaganti dei morti, soprattutto quelli dotati di un’aura maligna. L’albino è un personaggio più da film che da romanzo, per questo mi piace. Scivola nelle pieghe del racconto come un’immagine indistinta, temibile perché mai messa a fuoco. La minaccia è tanto più forte quanto più assomiglia a una pestilenza, a qualcosa di inafferrabile eppure fisicamente avvolgente. Qualcosa che respira, che ci segue, ma di cui niente o poco sappiamo. Gli occhi bianchi sono gli occhi delle ombre. Anche la Mercedes – la 540K – un miracolo della meccanica, è un attributo del male (fu anche l’auto di Hitler). I fanoni luccicanti della balena (il radiatore cromato), contornati dalle lunghe onde nere dei parafanghi, danno forma a un’immagine spettrale, una Moby Dick che attende il momento di colpire.

 

Sono dell’idea che più di un interessato al tuo libro si chiederà di questo titolo inusuale. Poiché ho letto, ho capito il perché, ma non sarebbe male se tu fornissi le più ampie delucidazioni in merito.

 

Ci sono due tipi di titolo. Il titolo etichetta e il titolo amico. Il primo descrive e annuncia un contenuto, il secondo cammina, passeggia quasi, accanto al libro che denota. La primavera del lupo è un po’ un’etichetta e molto un amico. Etichetta perché l’inseguimento narrato si svolge tra la fine di marzo e l’inizio del maggio 1945, a primavera, dunque, e perché il lupo è un personaggio che abita la vicenda da protagonista; ma è soprattutto un amico perché fa presagire qualcosa di misterioso, di irrisolto, una presenza ambigua, a un tempo buona e malefica: la primavera e il lupo, tradizionalmente, sono simboli antitetici, la prima è bene, il secondo male. Il lupo è l’amico e il protettore di Pietro, ma è anche la bestia che s’insinua e s’incarna, nella battaglia, in Karl, anche lui una presenza amica sì, ma terribile.

 

Siamo alla fine dell’intervista, purtroppo. Proprio in questa sede mi corre l’obbligo di evidenziare come esistano analogie e discordanze fra La primavera del lupo e il tuo precedente romanzo Non tutti i bastardi sono di Vienna. E pur tuttavia penso che debbano essere considerate due opere che procedono sulla stessa strada, anche se costruite in modo diverso.  Non tutti i bastardi sono di Vienna è per certi versi più convenzionale, più lineare, mentre La primavera del lupo è più pirotecnico e perfino con un finale, peraltro logico e bellissimo, assolutamente imprevedibile.

Sei di questa opinione?

 

Sì, la condivido senza riserve. Ci sono due citazioni in questo libro, due versi. Uno in epigrafe, prima che incominci la storia, Car l’amour se fait mieux en langage enfantin, di Marc Papillon de Lasphrise; l’altro appare quando il racconto si approssima alla fine, Gli amanti potrebbero, se sapessero come, nell’aria della notte dire meraviglie, di Rainer Maria Rilke. L’anima di Pietro e di Elvira – un bambino e una giovane donna – le due voci narranti che si alternano da protagoniste nella grande fuga che attraversa il racconto, scorre fra le sponde di questi due versi, che parlano dell’alleanza di Amore con altre due immensità, l’Infanzia e la Notte, che da sempre abitano nel cuore dell’uomo. E quel che unisce e cuce in un unico arazzo queste tre energie primordiali è il Linguaggio: quello dei bambini, quello degli amanti, quello della meraviglia che ci pervade quando siamo al cospetto di una luna immensa sopra il mare o sopra la selva oscura, i luoghi della fuga e dello sgomento.

«Dario ha le orecchie a sventola e quindi non può avere ucciso Gesù»: il libro incomincia così, con un nonsense, che è parodia del senso, non assenza di senso. Se Non tutti i bastardi sono di Vienna è musica classica, La primavera del lupo è jazz. La voce narrante di Pietro è l’improvvisazione del saxofonista che si staglia contro il pulsare isocrono, regolare, della voce di Elvira. L’una è oralità, infanzia, nonsense, l’altra è scrittura adulta, riflessiva, femminile.

La lingua dell’infanzia (Pietro) e quella del coraggio e della grazia (Elvira) si oppongono alla lingua della violenza, alla stupidità che, al contrario dell’intelligenza, non ha confini.

 

Ringrazio per la cortesia, l’attenzione e per la piacevolissima conversazione; ti saluto con l’augurio che La primavera del lupo abbia successo come  Non tutti i bastardi sono di Vienna. 

 

 

Recensione e intervista a cura di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 23 agosto 2013


MondoBlog

 

 

C’è ancora chi è in ferie, ma comunque ho pescato questi:

 

 

Siamo in estate e quindi non potevano mancare i Tipi da spiaggia.