mercoledì 30 aprile 2014

Primo maggio 2014




 1° maggio 1947
di Natàlia Castaldi

Portella della Ginestra
sento il dovere morale
di cantare oggi
Il sangue che macchiò
Le tue brulle pietre,
sangue innocente
di giovani padri contadini
uomini normali e callose mani,
donne senza belletti e due bambini:
In tutto undici
vittime innocenti che il primo maggio
s’eran riunite a festeggiare
nel giorno dedicato a chi conosce
dignità nella fatica
la vittoria contadina del “Blocco Popolare”.

Con muli, zappe e parole
inseguendo un ideale di ateo cristianesimo
che d’antiche radici,
 più volte estirpate e soppresse,
da Chicago a Parigi
avea natali,
di otto ore di lavoro
per diritto e dignitoso fardello
a rivendicar e festeggiar conquistato
diritto e sventolar rosse bandiere
s’eran dati appuntamento.

Povera gente,
-         ché dirigenti di partito
non se ne videro! -
terre e poteri già arsi dal sole,
per giustizia sociale,
volèan strappare
a baroni e potenti,
che ignoranza del volgo
e povertà seminavano
a feudalesimo e sopruso.

Vertici in tacito consenso
di Stato e Chiesa
e democratica elargizione pecuniaria
dell’America alleata
ad armar Giuliano
non ebber pudore né alcun ripensamento:
Portella della Ginestra,
ennesimo primo maggio di sangue e dolore,
ché non cessi nella memoria
di quest’Italia Repubblicana
la data del suo primo politico scempio.




Splendeva il sole
di Piero Colonna Romano


In quella piana di rosso garrivano
bandiere al vento e contadini canti,
nell'aria tersa si diffondevano
dell'Internazional note festanti.

Collina di  ginestre colorata,
famiglie unite in quel gioioso maggio,
appuntamento là sulla spianata
per rendere al lavoro giusto omaggio.

Da un uomo su di un palco la lezione
diceva di vittoria e di diritti ,
diritti su quei campi e all'istruzione
e con la schiena stando sempre dritti.

Un secco crepitio fu all'improvviso
e nel suo inizio parve di petardi
ma seminò la morte su ogni viso,
sparavan dall'altura dei codardi.

Così Giuliano con  i suoi sicari,
al soldo  di quel Scelba e di Messana,
compì la volontà di quegli agrari
per cancellare la sconfitta insana.

Fu quella nella storia del Paese
la prima strage nata da simbiosi,
un correo abbraccio che tuttora pesa,
tra loschi governanti con mafiosi.






Il quarto stato
di Renzo Montagnoli

A Giuseppe Pelizza da Volpedo (1868 – 1907)

Insieme, uomini liberi, la fronte al vento.

E’ una marcia ritmata dai passi sicuri

Di chi più non ignora la verità.

Uguali nascemmo e uguali sempre saremo.

Ovunque c’è terra, ovunque splende il sole,

Mai più oppressione, mai più dolore.

Il mondo è di tutti e non di pochi,

La ricchezza è il procedere uniti,

E’ percorrere questa strada verso la vita.







La forza della verità
                             di Renzo Montagnoli

E’ la notte del 23 agosto 1927. Nel penitenziario di Charlestown (Massachussets) una violenta scarica elettrica pone fine alle 0,19 alla vita di Nicola Sacco e sette minuti più tardi è la volta di Bartolomeo Vanzetti. Due italiani, immigrati, lavoratori, anarchici, ma soprattutto innocenti sono stati immolati alla ragion di stato.

Mai vivendo l’intera esistenza avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini…Il fatto che ci tolgano la vita, la vita di un buon operario e di un povero venditore ambulante di pesce…è tutto! Questo momento è nostro quest’agonia è la nostra vittoria!
Così, nel corso del processo, Bartolomeo Vanzetti si era rivolto alla pubblica accusa. La voce era ferma, frutto di una rassegnata consapevolezza che è presente solo nell’innocente animato da nobili ideali.

E’ passato tanto tempo e alle attuali generazioni i nomi di Sacco e Vanzett idicono poco, al più qualcuno si azzarda a buttare lì un “mi pare di aver sentito che erano rivoluzionari”. La memoria degli eventi trascorsi va sempre più riducendosi , ma ci sono fatti di una portata tale che non possono essere dimenticati, soprattutto quando le parole libertà e democrazia diventano pura e inutile retorica.


“ L’essere innocenti di ciò che ci accusano e poterlo gridare al mondo è la nostra forza per affrontare con serenità il martirio.”

Dei due immigrati italiani, Bartolomeo Vanzetti è il più erudito, è quello che già da giovanissimo, andato per lavoro a Torino, si accosta ai primi movimenti socialisti. In lui poi prevale una visione dell’umanità senza prevaricazioni, senza accumuli di proprietà; avversa poi uno stato che vive sui suoi cittadini e non per i suoi cittadini. Il passaggio quindi all’anarchia avviene in via del tutto naturale, frutto di esperienze e di osservazioni.
Emigrato negli Stati Uniti, durante la fuga in Messico per evitare di essere arrestato quale obiettore di coscienza, conosce un immigrato pugliese, Nicola Sacco, presente per lo stesso motivo. I due, frequentandosi, scoprono di essere iscritti allo stesso circolo anarchico e così diventano amici, legame che li unirà anche ritornati negli Stati Uniti e fino alla loro tragica fine.

Il 5 maggio del 1920 vengono fermati su un tram e, tradotti in carcere, sono accusati di aver rapinato il 15 aprile il calzaturificio “Slater and Morrill”, uccidendo a colpi di pistola il cassiere e una guardia giurata.
Professano subito la loro innocenza, indicano i testimoni a discaricano che possono fornire loro un alibi ineccepibile, ma è tutto inutile, perfino la confessione del vero colpevole.
Lo stato, quando vive sui suoi cittadini, ha bisogno di dimostrare loro la sua solidità, la sua capacità di proteggerli dai pericoli che sono frutto della sua struttura. Guai a chi osa mettere in dubbio la sua validità, guai agli anarchici che ne contestano la liceità dell’esistenza, e allora si deve colpire, si deve dimostrare a tutti che nulla è più forte dello stato, nemmeno la verità.
Sacco e Vanzetti non sono altro che due capri espiatori e le menti meno intorpidite lo comprendono e si danno da fare con azioni legali, campagne stampa, comitati, manifestazioni popolari, negli Stati Uniti e in Europa.


“ Siamo solo due uomini e mai avremmo pensato con le nostre idee di smuovere così tanta umanità. La gente capisce che il nostro reato è di essere innocenti, pensando da uomini liberi.”


E’ un processo di stato, una macchina inesorabile che non può e non deve perdere colpi, anche di fronte all’evidenza dei fatti, è una democrazia fittizia che si basa su un concetto limitato di libertà, al servizio di pochi e al danno di molti.
Del resto non sono passati molti anni da quell’8 marzo 1908, quando alle operaie in sciopero dell’industria tessile Cotton di New York fu riservato un trattamento del tutto particolare: sbarrate le porte della fabbrica con dentro le maestranze, lo stabilimento venne dato alle fiamme e nel rogo perirono 129 donne.

“ Chiedemmo una vita più umana
e ci venne data un’orribile morte.
 Sognammo un mondo migliore
e lo trovammo solo nell’aldilà.”

Non c’è da meravigliarsi di questi fatti in una nazione che si è proclamata culla della democrazia e della libertà, ma che ha sistematicamente eliminato tutti coloro che, non beneficiando di questi valori, avevano osato alzare la testa: dagli eccidi degli indiani al rogo di New York, dalla guerra di Cuba all’omicidio di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.
Quando lo stato non rappresenta tutti i cittadini, ma solo alcuni, quando gli interessi di parte sono il fine di una nazione, la democrazia e la libertà non esistono, e allora, nel loro nome, si commettono gli orrori più incredibili.

Scrive Bartolomeo Vanzetti alla sorella prima di morire:
Tu non puoi capire quanto io soffra di vederti assistere alla mia agonia e di vederti costretta a vivere le sofferenze che io devo affrontare. Quando ti sarai riposata e quando avrai ritrovata la forza necessaria, ritorna in Italia, presso i nostri cari. A questi cari, come ai nostri buoni e fedeli amici, tu porterai il mio messaggio di amore e di riconoscenza. Che importa se nessun raggio di sole, se nessun lembo di cielo penetra mai nelle prigioni costruite dagli uomini per gli uomini? Io so che non ho sofferto invano. Ecco perché porto la mia croce senza rimpianto.
Presto i fratelli non si batteranno con i loro fratelli; i bimbi non saranno più privati del sole e allontanati dai campi verdeggianti; non è più lontano il giorno nel quale vi sarà un pane per ogni bocca, un tetto per ogni testa, della felicità per ogni cuore. E questo sarà il trionfo della vostra azione e della mia, o miei compagni ed amici".

E’ una lettera struggente, in cui l’umanità dell’uomo Vanzetti stride evidentemente con il ritratto della pubblica accusa del criminale Vanzetti.

In Italia il duce fa mettere tutto sotto silenzio, perché è lui lo stato; anzi si fanno circolare voci sulla colpevolezza degli imputati, in modo da creare quell’isolamento indispensabile affinché non si arrivi a scoprire la verità.

Questa notte lasceremo la vita per entrare nell’eternità.”

Ci vollero anni, battaglie di gente coraggiosa per riabilitare la memoria delle due vittime, ma infine nel 1977 Michael Dukakis, governatore dello Stato del Massachusetts, scagionò con un proclama e per non aver commesso il fatto Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, ammettendo di fatto la responsabilità della giustizia americana.

In Italia erano iniziati gli anni di piombo, quelli degli omicidi individuali e delle stragi. Di quel periodo sappiamo solo dei morti, ma non ci è dato ancora di sapere chi fossero effettivamente gli esecutori e soprattutto i mandanti. Il tutto è secretato e la ragion di stato è di nuovo imperante.

Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, se ci vedono, scuotono la testa e scrivono con le nuvolette del cielo la parola libertà.


Nota: Le frasi in corsivo in verde furono quelle pronunciate o scritte effettivamente da Bartolomeo Vanzetti; le altre in corsivo in nero sono libere elaborazioni dell’autore come la poesia delle operaie della filanda.




Here’s to you cantata dalla voce splendida di Joan Baez





Giovanni Pascoli, di Gian Luigi Ruggio



Giovanni Pascoli.

Tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta.

Con in appendice un'ampia antologia dei suoi versi migliori

di Gian Luigi Ruggio
Premessa dell’autore
In copertina primo piano di Giovanni Pascoli nel 1891
quando, trentacinquenne, insegnava in un liceo a Livorno
Simonelli Editore
Biografia
Pagg. 504
ISBN 9788886792127
Prezzo € 17,04


Una biografia particolarmente avvincente

Gian Luigi Ruggio, conservatore dei Beni Pascoliani, è indubbiamente un profondo conoscitore della vasta produzione poetica di Giovanni Pascoli, ma, senza provvedere a un’analisi specifica della sua poetica, ha ritenuto molto più opportuno scriverne una biografia, evidenziando la correlazione fra eventi della vita del poeta e le sue opere, poiché appare evidente che gli influssi esterni finiscono con il determinare i vari risultati di un artista. Nondimeno, si è preoccupato, nella premessa al libro in oggetto, di spiegare il perché della necessità della biografia di un autore la cui vita non fu assolutamente normale e tantomeno monotona.
Ne è uscito un lavoro di grande pregio, indispensabile per conoscere il Giovanni Pascoli poeta. Segnato da innumerevoli lutti, in primis quando era adolescente la scomparsa del padre, assassinato da ignoti, e da li a poco quella della madre, morta di crepacuore, l’autore romagnolo non riuscì ad avere un regolare passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta, privato delle figure di riferimento dei genitori, posto in gravi difficoltà economiche, insomma ben sapendo quanto sia importante e decisivo per il futuro di un essere umano questo periodo di ognuno di noi, fu vittima di circostanze tali da impedirgli poi in seguito di condurre una vita normale.
Nelle sorelle, in particolare in Maria, trovò rifugio, identificandone la presenza nella figura materna, uno scambio di ruoli che poi lo vedrà confusamente considerare Maria, che il poeta affettuosamente chiamava Mariù,  di volta in volta madre, sorella e amante, senza che per questo si arrivasse a un incesto carnale, e se incesto vi fu assai probabilmente fu solo di carattere psicologico. Ne derivò una fragilità che lo accompagnerà tutta la vita fino alla morte dovuta, almeno ufficialmente, a un cancro, anche se corsero voci di effetti infausti di una cirrosi epatica che gli avrebbe devastato il fegato. Queste ipotesi non erano campata in aria, poiché si sapeva del suo difetto di ricorrere frequentemente, e non per modiche quantità ,agli alcolici, altro segno di quella fragilità di cui ho accennato.
Sempre a corto di soldi, anche quando i guadagni da insegnante universitario e i proventi dei diritti d’autore non erano certo trascurabili, Pascoli doveva ricorrere spesso ai Monti di Pietà, impegnando le medaglie d’oro vinte nei concorsi di poesia latina che allora si tenevano ogni anno in Olanda, per non parlare della necessità non infrequente di chiedere prestiti a terzi contro rilascio di cambiali.
Fu un’esistenza sofferta, quindi, senza il piacere di una vita familiare con mogli e figli, a volte accompagnata da stati di vera e propria indigenza, soprattutto quando studiava all’università di Bologna, periodo in cui finì addirittura in carcere per le sue idee socialiste non disgiunte da una certa propensione all’anarchia. E’ vero che col tempo la componente estremista finì con lo scomparire, ma restò sempre socialista, di un socialismo di stampo patriottico, teso più a valorizzare la nostra fase risorgimentale che a cercare di elevare le masse più deboli.
Non è quindi un caso se la sua produzione passa da Myricae ai Poemi del Risorgimento, questi ultimi quasi a giustificare la sua mancata partecipazione allo stesso dovuta peraltro solo a motivi anagrafici (il 31 dicembre 1855 è la sua data di nascita).
Ruggio, sulla scorta solo dei numerosi manoscritti (soprattutto lettere) raccolti nella Fondazione dedicata al poeta, ha la straordinaria capacità di condurci per mano nell’itinerario vitale di Giovanni Pascoli, quasi che lui e noi fossimo presenti ai tanti fatti che lo connotarono, e ciò senza mai essere greve, in un apprezzabile equilibrio di stile e d’impostazione in cui non si avverte mai la presenza dell’autore, magari con congetture e con riflessioni, ma come in un romanzo avvincente dalla prima all’ultima pagina. E a proposito di ultime pagine richiamo l’attenzione su quelle dedicate alla morte del poeta, avvenuta dopo lunga e penosa malattia. Lì non si indulge alla facile commozione, ma la sensazione di essere spettatori del trapasso di un uomo è ben viva, tanto da lasciare quasi sgomenti.
In appendice, poi, è riportata un’ampia antologia dei suoi versi migliori, scelti con oculatezza, l’omaggio migliore che si potesse rendere a un grandissimo poeta che fu un uomo infelice.
La lettura di questo libro non è solo consigliata, ma è senz’altro più che raccomandata.

Gian Luigi Ruggio ha compiuto tutto un suo originale itinerario culturale prima d'incontrare Pascoli. Nato a Barga (Lucca) l'11 maggio 1937 e compiuti gli studi a Roma, si è appena iscritto a Giurisprudenza quando decide di trasferirsi in Svizzera perché in quel momento lo attraggono di più gli studi scientifici. E là prende un diploma in fisica termodinamica e meteorologia. Ma non ha affatto dimenticato Giurisprudenza. Rientrato in Italia, riprende quegli studi e si laurea a Pisa dove frequenta pure, come uditore, la facoltà di Lettere. Sì, perché anche la Letteratura è fra i suoi interessi. Dopo la laurea collabora, scrivendo articoli di carattere culturale, con i giornali del gruppo Corriere della Sera e La Nazione. Svolge una intensa attività di divulgatore che, in anni più recenti, sviluppa anche in alcune televisioni locali. Intanto, è tornato a vivere nella sua Barga e ha accettato di assumere l'incarico di Conservatore dei Beni Pascoliani custoditi nella Casa Pascoli di Castelvecchio trasformata in museo e centro di studi sul poeta. Ma il primo studioso è proprio Ruggio. Ed è da un quarto di secolo di sue ricerche che è ora nata la prima biografia completa di Giovanni Pascoli.


Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 30 aprile 2014

MondoBlog

Le segnalazioni odierne:


mercoledì 16 aprile 2014

Il sogno di Felicita, di Renzo Montagnoli




Il sogno di Felicita
di Renzo Montagnoli


Quando nacque, il padre, uomo d’armi, ufficiale dell’allora Regio Esercito e appena promosso al grado superiore, non trovò di meglio di dichiarare all’addetto dell’anagrafe che, essendo particolarmente lieto dell’evento, avrebbe chiamato la piccola Felicità.
Forse l’impiegato non conosceva bene gli accenti, oppure comprese male, o meglio ancora si scordò quel baffino sulla a e così finì per chiamarsi Felicita.
In ogni caso il nome fu nettamente in contrasto con il destino di questo essere umano, votato dalle circostanze a uno stato di perenne infelicità.
L’ascendente dei genitori, in particolare del padre, la costrinse a un’educazione rigida, in cui nulla era lasciato al caso ed erano perfino scelte le eventuali amichette compagne di giochi.
Se poi si considerano i frequenti trasferimenti legati alla carriera del genitore, fu inevitabile che le conoscenze di Felicita fossero solo temporanee, cosicché al raggiungimento della maggiore età il concetto di un’autentica amicizia non era ancora innato nella fanciulla. 
Al compimento dei 18 anni il padre era già generale di divisione, una posizione di prestigio che imponeva un matrimonio altolocato per quell’unica figlia.
La giovinetta non era né bella né brutta, altezza media, capelli neri, occhi scuri vivacissimi e che sembravano alla perenne ricerca di qualche cosa, forse di quella libertà che tanto le mancava.
Come era d’uso fece il suo ingresso in società al ballo delle debuttanti, una serata di galateo schizofrenico in cui dovette mostrare l’educazione ricevuta e poiché questa era stata rigida e inflessibile finì con il comportarsi come un soldato prussiano, con il risultato che scoraggiò tutti i cavalieri, tutti meno uno.
Il tenente Bruno Arvati, bello, alto, slanciato era la preda più ambita della serata, ma questi non aveva occhi che per Felicita e finì con il danzare con lei fino alla mezzanotte. Fu  un colpo di fulmine e lei se ne innamorò subito, desiderando ardentemente di essere ricambiata.
- Signorina Felicita, lei balla divinamente.
Arrossì, abbassò gli occhi, mentre il petto le scoppiava.
- Se…se è d’accordo, chiederò al suo signor padre il permesso di incontrarmi ancora con lei.
La risposta fu un sì sommesso, come si conveniva a una fanciulla di buona famiglia.
Il generale non risultò per nulla d’accordo, ben conoscendo il carattere del tenente, gran donnaiolo e impenitente giocatore d’azzardo indebitato fino al collo, uomo più di apparenza che di sostanza.
Felicita pianse, si disperò, supplicò il padre, ma fu tutto vano e conobbe il primo rifiuto, il primo di tanti che l’accompagnarono nella sua breve vita.
Dapprima furono frequenti e le scuse del genitore le più varie (non è degno di te, non ha una posizione pari alla nostra, è uno scapestrato, andrebbe bene, ma non ha un soldo), poi cominciarono a diradarsi mano a mano che Felicita invecchiava. Lei finì con l’incupirsi e quando arrivò a compiere trent’anni sembrava già una donna matura, spenta e senza futuro.
La scomparsa prima del padre, poi quella della madre, anziché farle ritrovare la libertà che aveva persa, sembrarono rinchiuderla ancora di più in una vita di steccati, fra pareti senza finestre.
Così diceva all’unica amica: - Sono vecchia, il mio tempo ormai è passato.
E quella rispondeva: - Non è vero, sei ancora giovane, puoi ancora trovare l’amore.
Felicita si schermiva più per convenienza che per una nascosta speranza, ben sapendo come un cuore inaridito non possa più offrire nulla.
Così i giorni passavano, monotoni, grigi, senza primavere, solo lunghi desolanti autunni.
Fu l’anno in cui ne compì trentuno che si accorse di quello strano malessere, di quella tosse stizzosa che andava crescendo e che ogni tanto provocava sbocchi di sangue.
Andò dal medico, la visitò e fu ricoverata immediatamente all’ospedale, con un verdetto che all’epoca (fra le due guerre) era una sentenza senza appello: tubercolosi.
Lì la curarono un po’, ma poi le consigliarono vivamente di cambiare aria, di andare dove questa era più sana e leggera e così si trasferì in un paesino del trentino, un borgo incantevole fra le Dolomiti.
La notizia dell’incurabilità della malattia non l’aveva di fatto sconvolta, tanto ormai da tempo era morta dentro. Fu quindi un ripetersi della solita vita anche nella nuova località, quasi sempre chiusa nella camera della pensione che l’ospitava, con rarissime uscite solo per andare in farmacia.
Durante una di queste, mentre chiedeva un prodotto vitaminico, chissà per quale segreto meccanismo  le parve all’improvviso che l’uomo dall’altra parte del banco assomigliasse al tenente Arvati.
- Ecco signora, ecco il suo prodotto.
- Grazie, dottore.
E fece per uscire, ma poi sulla porta si fermò e si voltò a fissare l’uomo.
- Ha dimenticato qualcosa?
- No, è che lei assomiglia a una persona che ho conosciuto tanto tempo fa.
- Spero sia stata una conoscenza piacevole.
- Sì. – e corse fuori.
Da allora le visite in farmacia si intensificarono. Con tatto aveva chiesto informazioni e aveva così saputo che l’uomo non era un né fratello, né un parente dell’Arvati, ma anche che era considerato una brava persona, un po’ sfortunata, poiché l’anno prima gli era morta la moglie, lasciandolo praticamente solo, non avendo prole.
- Ecco anche oggi la nostra signora. In cosa posso servirla?
- Avrei bisogno di cachet contro l’emicrania.
- Spero che questi gliela facciano passare.
Ma l’emicrania diventò ricorrente e i cachet non bastavano mai, giacché Felicita, come usciva dalla farmacia, li gettava nel torrente che scorreva nei pressi.
I contatti più frequenti crearono una situazione di imbarazzante complicità, perché anche l’uomo cominciò a desiderare la visita di quella cliente.
Pur mantenendo le distanze, dalla semplice ordinazione si passò a discorsi sul tempo, poi sulle proprie origini, sulle scuole frequentate, insomma si venne a creare una relazione di conoscenza.
E se mentre Felicita, una volta uscita dal locale, provava il desiderio di rientrarvi immediatamente, lui invece vedendola andarsene avvertiva un senso di vuoto, come se all’improvviso le mancasse.
Quel che non fecero le parole lo realizzarono gli sguardi, grazie ai quali entrambi compresero l’interesse dell’uno per l’altro.
Ormai i tempi erano maturi per una dichiarazione, per rompere quegli indugi che usi e convenienze riuscivano a frenare.
L’occasione sarebbe stata l’invito a visitare con lui una cascata nelle vicinanze del villaggio.
- Sembra che domani sia bello e dato che è domenica la farmacia è chiusa. Così ho deciso di muovermi un po’, di fare quattro passi. A non più di due chilometri dal villaggio c’è un posto stupendo, con una cascatella da cui sembrano uscire le ninfe.
- Deve essere bello, dottore.
- Io lo considero incantevole. Non c’è nessuno di quelli che stanno qui che non l’abbia visto almeno una volta…
Felicita restò zitta, ma i suoi occhi scuri brillarono all’improvviso.
- Perché non viene anche lei? E’ solo una passeggiata; le farebbe bene e…io sono un galantuomo, una persona seria. Per me sarà un onore accompagnarla.
Felicita si volse e fece per uscire, ma poi quando fu sulla porta girò il capo e disse: - A che ora?
- Alle 10. Passerò io dalla pensione.
- D’accordo. – e uscì raggiante.
Fu un giorno speciale per lei, tutta tesa a immaginare l’indomani. Per la prima volta si sentì leggera, avvertì che le membra si scioglievano, perdevano quella composta rigidità da soldato prussiano. Il mondo finalmente si apriva, il cielo così cupo lasciava intravvedere i raggi del sole.
Dimenticò tutto, il suo passato, la vita monotona e inutile,
iniziò anche a fantasticare, a immaginare  le mani di lui sulle sue, avvertendo un leggero brivido che, anziché turbarla, la fece sorridere.
Forse non tutto era perduto, si disse, forse anche lei avrebbe potuto conoscere che cos’era l’amore.
I sogni hanno però vita breve e quando già era raggiante si ricordò del motivo per cui si trovava lì e riemerse, prima sommessamente, poi in modo prepotente, il pensiero della malattia, di quella morte che sembrava vicina.
Arrivò a sera angosciata e dopo la cena si coricò subito, cercando di non pensare, sperando di dormire.
E fra tanti patemi d’animo, improvvisi ripensamenti, speranze che nascevano e subito finivano, il sonno al fine la colse.
- Felicita, Felicita!
- Chi è che mi chiama? Non vedo nulla, è tutto buio, anzi no là in fondo c’è un chiarore.
- Felicita, Felicita, vieni da me!
- Dove sei e chi sei?
Felicita procedeva lungo una specie di galleria e passo dopo passo il chiarore si avvicinava e faceva scorgere l’immagine per ora indistinta di una persona.
- Felicita, vieni con me, dove più non si soffre.
I contorni della figura prendevano corpo ed era evidente che si trattava di un uomo.
- Se lì non si soffre più, vuol dire che sono già morta.
- Che cos’è la morte, se non la continuazione di se stessi nell’eternità.
- Ma chi sei?
- Non mi riconosci?
- No, non ti vedo ancora bene.
- Sono il tuo angelo custode.
Felicita osservò meglio e vide le ali che sovrastavano le spalle, poi corse al viso, in tutto e per tutto uguale a quello del farmacista.
- L’appuntamento è domani, non oggi.
- Che cosa conta il tempo di fronte all’eternità: oggi, ieri, domani non sono nulla per ritrovare te stessa, per mettere quell’accento sulla a che da troppo tempo ti manca. La felicità è anche nel ricordo di un sentimento, tu che di ricordi ne hai avuti così pochi.
Si accorse che stava correndo, sentì la fatica dei passi ripetuti sempre più velocemente, avvertì l’affanno della respirazione. Fu allora che si risvegliò tossendo e chiazzando di sangue la vestaglia da notte.
Prese fiato, ripensò al sogno, considerò che la sua vita ormai era prossima al termine, ma che prima aveva avuto la grazia di un desiderio ricambiato, e poiché ormai voleva troppo bene a un uomo che aveva già sofferto per la perdita della moglie decise che il giorno dopo avrebbe preso il torpedone delle 9 e sarebbe tornata a casa.
Così fece e il ricordo di lui l’accompagnò fino alla fine.