mercoledì 25 giugno 2014

Lui e lei, di Renzo Montagnoli

                                                                    Foto da web

Lui e lei
di Renzo Montagnoli


Quando negli umidi giorni di novembre scende la nebbia ad avvolgere ogni cosa, rendendo spettrale la visione del mondo che ci circonda, tanto da avvertire un brivido interno, una sorta di freddo dell’anima, mi viene in mente. Ogni volta rivedo tutto come se il ricordo si materializzasse e allora il gelo sale rapido, proviene dal profondo, si aggrappa al mio corpo e mi stringe lo stomaco.
E’ stato tre anni fa, una mattina dal chiarore lattiginoso, tale da impedire la vista del pallido sole autunnale, ma non di celare i riflessi bluastri e arancioni dei lampeggianti delle auto della polizia e delle ambulanze, luci intermittenti che andavano e venivano.
Ma prima, prima il segno inconfondibile della tragedia: una sirena lacerante, poi un’altra ancora.
Già udire il suono provoca apprensione, ma sentirlo avvicinarsi sempre di più, per poi cessare di colpo vicino a dove abiti trasmette un’angoscia, la certezza che lì, a pochi metri, qualche cosa di grave è accaduto.
Non ho potuto fare a meno di voler sapere e mentre mi precipitavo in strada nella mente si creavano rapide congetture. Che si tratti di Pino, che non stava bene? No, perché lui abita più in là. Forse la signora Giovanna, sempre malaticcia. No, nemmeno lei, perché ieri è entrata in ospedale.
E intanto ero sceso in strada e affrettavo il passo verso quei riverberi di luce. No, fa che non sia uno di loro. Come potrebbe vivere l’altro? E invece penso che sia così, perché ora vedo le auto, le ambulanze e sono davanti alla casetta di lui e di lei.
Rimasi prudentemente sull’altro marciapiedi, in mezzo a tanti vicini attoniti, a gente che, come me, voleva sapere.
- Sei qui anche tu?
Mi voltai e vidi il sindaco, con gli occhi smorti, una maschera che non riusciva a celare un’intensa commozione.
- Abito vicino, Luigi; ho sentito le sirene, poi ho visto i lampeggianti nella nebbia e sono corso subito. Che è successo?
In quel momento il braccio cortese di un poliziotto si interpose fra lui e me.
- Signor sindaco, il procuratore vuole parlarle.
Lo vidi allontanarsi e sparire nella nebbia, mentre invece dalla casa uscirono degli uomini che portavano due casse di zinco.
Tutti e due, allora… E mi vennero le lacrime agli occhi.
In pochi attimi rividi immagini dimenticate, risentii voci che sembravano ormai accantonate negli archivi polverosi del passato.
“- Buona giornata. Siamo i due nuovi vicini.
- Bene arrivati.
- Grazie.”
“ - Passa sempre per questa strada con la sua cagnolina.
- Ha bisogno di un po’ di moto.
- Sarà una compagnia per lei, vero?
- Una grande compagnia”

“- Sono un ferroviere in pensione e con la liquidazione abbiamo preso questa casetta. E’ piccola, ma noi siamo solo in due e non abbiamo altri. Per fortuna che c’è un giardinetto, dove mettere le rose.
- E’ un passatempo anche il giardinaggio.
- Certo”.

Erano tutti convenevoli di buon vicinato, ma non ci presentammo nemmeno, tanto che per me loro due erano semplicemente lui e lei, niente di più di due persone un po’ avanti con gli anni e molto educate.
Tuttavia, passa un giorno, passa un altro, ogni volta veniva spesa una parola di più. L’impressione che ebbi chiara era quella di due esseri in perfetta simbiosi, nel senso che ognuno era in funzione dell’altro e del resto trovarsi in età avanzata senza parenti non faceva che rafforzare quel legame.
Erano però riservati e da loro seppi ben poco di quel che era stata la vita condotta insieme, tranne una volta.
“- Io e mia moglie avevamo anche un figlio.
Tacque un momento, come timoroso di svelare un segreto.
- Poi, aveva ventidue anni, un incidente, un ubriaco con l’auto…
E si fermò, guardandomi con gli occhi lucidi, occhi in cui si leggeva un dolore che non era passato.
Lei non disse niente, anzi gli appoggiò la mano su una spalla e sussurrò:
- Rientriamo. Ci scusi.”

Da quella rivelazione i colloqui ritornarono ai puri convenevoli, quasi se l’aver aperto il loro animo a uno sconosciuto fosse stata un’imprudenza, o forse anche una mancanza di rispetto nei miei confronti.
E quindi  ripresero i soliti saluti, o al massimo brevi accenni al tempo, o a problemi di giardinaggio.
Poi, un giorno, passando, mi accorsi che non c’era nessuno in casa, fatto piuttosto strano per l’orario, e anche al ritorno non notai anima viva. Così per diversi giorni, almeno una decina, fino a quando una mattina lo vidi che mi guardava da dietro la finestra. Feci un cenno di saluto con la mano, ma non rispose.
Solo al ritorno dalla mia passeggiata compresi che cosa era accaduto. Lui mi aspettava in giardino, sembrava quasi che avesse bisogno di dirmelo.
“ -  Mia moglie ha avuto un ictus, è totalmente paralizzata e non ragiona più.
- E’ a casa?
- Sì.
- Vedrà che poi piano piano recupera. Non si butti giù, mi raccomando. Se ha bisogno di qualche cosa, quel che posso, volentieri…”
Non rispose e a capo chino rientrò in casa.

Tre giorni dopo, la nebbia, le sirene delle ambulanze e della polizia e quelle due casse di zinco, una risposta inequivocabile alla mia domanda.
Dal quotidiano locale, il giorno dopo, appresi quel che era accaduto.
Lui, vinto dallo sconforto, aveva ucciso la moglie con due colpi di pistola e poi si era suicidato con la stessa arma. Il giornalista aveva costruito un bell’articolo, quasi strappalacrime sui problemi della solitudine, citava più volte i nomi e i cognomi dei due coniugi, quasi li avesse conosciuti.
Non ricordo più come si chiamassero, un dettaglio di nessuna importanza, a fronte di fatti che superano ogni umana comprensione, laddove l’unico elemento certo è un vincolo indissolubile anche oltre la vita.
Ecco, io li voglio ricordare così e per me saranno sempre lui e lei.


da Storie di paese


Presagio, di Andrea Molesini




Presagio
di Andrea Molesini
Sellerio Editore Palermo
Narrativa romanzo
Collana La memoria
Pagg. 168
ISBN 9788838931956
Prezzo € 12,00


I giorni prima dell’uragano


Questo romanzo storico esce proprio nell’anno in cui si celebra il primo centenario dello scoppio della Grande Guerra, un conflitto che, al di là di quello che costò in milioni di vite umane, segnò una svolta epocale, con la fine dell’Europa quale entità capace di dominare la scena planetaria, con la caduta di tante monarchie, con l’avvento di un regime comunista e negli anni immediatamente successivi alla sua fine con il sorgere in Italia del fascismo e in Germania del nazismo che portarono al secondo grande scontro mondiale.
Andrea Molesini ha colto questa occasione per imbastire un’opera strutturata come una tragedia greca (un prologo, tre atti e un epilogo), ambientando la trama nella sua Venezia, all’epoca meta di soggiorno della più facoltosa nobiltà e borghesia europea. Quella descritta non è una città da cartolina, anzi è limitata al Lido e all’isola di San Servolo, l’isola dei matti, sede appunto del manicomio. L’autore, tuttavia, non si limita solo a proporre una vicenda su quelli che  furono gli ultimi giorni di pace, ma va ben oltre, scende nei meandri dell’animo umano per evidenziare quanto ineluttabili appaiano le grandi e piccole scelte nel destino di ognuno e tanto qui a maggior ragione si comprende come siamo solo dei predestinati. Non è un caso quindi se l’opera è introdotta da una frase di Rainer Maria Rilke (Il futuro entra in noi, e si trasforma in noi, molto prima di accadere); questa epigrafe, scritta dal grande poeta di lingua tedesca proprio in quel periodo, significa in buona sostanza che ogni essere umano sa, sia pure inconsciamente, quel che è prima che lo diventi. E’ una premessa drammatica e ben calza allo svolgimento di questo bellissimo romanzo.
Se fino a ora ho esposto l’opera nelle sue linee generali, ritengo opportuno adesso dare qualche notizia in più, affinché il lettore si faccia un’idea più precisa. 
È il luglio del 1914, il 28 giugno Gavrilo Princip a colpi di pistola aveva spento a Sarajevo le vite dell’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria, e di sua moglie Sofia, lo stato febbrile volto a una guerra, già in atto da tempo, ha colto nell’attentato ai reali l’occasione propizia per concretizzarsi. Schermaglie diplomatiche, più che altro dimostrative, animano quel mese di luglio, ma ciò che già da tempo era stato deciso trova finalmente il suo sbocco in una guerra che è il disperato tentativo per monarchie ormai obsolete di contrastare la loro naturale fine, ed é così che queste (impero russo, impero austro-ungarico, impero turco-ottomano e l’ancor giovane, ma troppo tardi instaurato impero germanico) buttano sul tavolo da gioco della storia le loro consunte carte, così che il 28 di luglio scoppia la prima guerra mondiale. A Venezia, all’Hotel Excelsior, il gran mondo riempie di frivoli cicalecci i saloni, esponenti di un’epoca, chiamata Belle Epoque, in cui tutto sembra eternamente spensierato, in cui, dietro un paravento di eleganza e nobiltà, si cela un profondo malessere, una povertà di valori destinata, prima o poi, a esplodere.   
Molesini avrebbe potuto parlarci di questi sconosciuti per spiegarci quei giorni, ma anziché scrivere un romanzo corale, come i suoi due precedenti, preferisce imperniare la sua trama su due soli protagonisti, il commendator Spada, proprietario dell’Hotel e una sua avvenente cliente, la marchesa Margarete von Hayek. L’uomo non è insensibile al fascino della nobile dama, ma è un pragmatico e comprende che per lui ella può rappresentare solo un esaltazione dei sensi e non un vero e proprio amore, e di ciò ne trae profitto, accompagnandosi con lei senza patemi, ma con impeti carnali. Lei è una femmina fatale, pericolosa quindi, e depositaria di un segreto che, una volta svelato, ce la mostra in un’altra luce. In questo contesto intimo la mostruosa macchina volta all’inizio di una guerra acquista sempre più velocità, fino a quando il 28 luglio l’Austria dichiara guerra alla Serbia, che ha rifiutato un ultimatum impossibile da accettare secondo il buon senso.
Il discorso con cui il commendator Spada comunica ai suoi ospiti, seduti a tavola per la cena, l’inizio delle ostilità è per me la parte più bella del libro e già da sola giustifica la lettura dell’opera. Non c’è retorica nelle parole dell’albergatore veneziano, ma tanto giudizio e soprattutto umanità. Sono pagine che si leggono con vivo piacere, provando un’indicibile emozione. Quella dichiarazione di guerra risuona nel silenzio generale del salone come una condanna per gli appartenenti a un mondo che da lì a pochissimo sparirà e della Belle Epoque, in cui tutto sembrava possibile purché lo si volesse, non resterà che un vago ricordo e i dipinti del can can di Toulouse-Lautrec.
Nel romanzo di Molesini questo passaggio, questa fine di un’era è ben descritta, benché sembri toccare solo le anonime comparse del suo libro. Per i due protagonisti e soprattutto per la marchesa la convinzione che sia stato spazzato via un modo di vivere la vita in nuce  già esiste in loro, nella loro storia d’amore senza speranza, nella estrema sensualità di lei, secondo un copione già noto, ma con una sua peculiarità: lei tende ad autodistruggersi, magari coinvolgendo altri, come un presagio, lo stesso che sotto forma di incubo accompagna le notti del commendatore, con quella bestia che è in noi ed è pronta ad azzannarci. Guai a contrastarla, perché in fondo la guerra è l’emblema di quella bestialità che ci è propria e solo con la consapevolezza che è tipica dell’artista che si limita a osservarla e a descriverla è possibile non essere dalla stessa sopraffatti.
Romanzo che mette allo scoperto la più recondita natura dell’uomo, Presagio è scritto con signorilità, senza mai trascendere e anzi misurando le parole una per una (stupendi al riguardo i duelli verbali fra i due protagonisti), è volto a un messaggio universale, a una ricerca della verità, a quel Wahrheit con cui inizia il libro, che si chiude con un finale enigmatico, ma segnato da una profonda pietà. 
Se l’impianto è teatrale, in un contesto di crescente tensione in cui par già di udire i tuoni delle cannonate, Molesini ha il pregio indiscutibile di accompagnare a una tragedia una vena poetica di cui sia i due protagonisti che l’intero libro beneficiano ampiamente, e questo ha effetto anche sul lettore che giunto all’ultima pagina ricava netta la sensazione di aver letto qualche cosa di molto diverso dal solito, di avere per le mani un’opera di grande valore letterario, una di quelle che, benché riferita a un’epoca, è senza tempo, stupenda oggi come lo sarà domani.
    
Andrea Molesini ha pubblicato con Sellerio Non tutti i bastardi sono di Vienna, che nel 2011 ha vinto, tra gli altri, il Premio Campiello e il Premio  Comisso, tradotto in inglese, francese, tedesco, spagnolo e molte altre lingue, La primavera del lupo (2013) e Presagio (2014).

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Recensione di Renzo Montagnoli



MondoBlog del 25 giugno 2014

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mercoledì 18 giugno 2014

Il resto è solo silenzio, di Renzo Montagnoli

                                                                  Foto da web



Il resto è solo silenzio
 di   Renzo Montagnoli


Mute distese di verde sferzate dal vento
percorse da lunghe linee bianche
lontano è il rumore del mare
un rombo aspro, quasi rauco
che si spezza contro l’alta costa.
Sembrano soldati impettiti
fermi in eterno sull’attenti
cippi marmorei, un nome e due date
tutto quel che resta di un uomo.
Scende una pioggia fine
da questo cielo spesso imbronciato
lacrime di madri e spose lontane
mesti ricordi che il tempo smorza
fra echi di nuove battaglie
pianti rinnovati
altre distese crocefisse a sogni
che mai prenderanno il volo.
Soffia forte il vento
brontola il mare
tutto il resto è solo silenzio.        

Ai caduti di tutte le guerre


La colonna sonora credo che ben si adatti a questi versi:




Il canto delle manére, di Mauro Corona



Il canto delle manére
di Mauro Corona
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Narrativa romanzo
Pagg. 411
ISBN 9788804590712
Prezzo € 11,00



Quando tornano i ricordi dell’infanzia il cerchio si chiude



*Le foglie dei faggi na volta cadute si arriccia fino a toccarsi i bordi, ma prima vien giù leggere, con un tic tic, come gocce sulle frasche.
Invece le foglie dei caprini, suturne e schive come il padre, cadendo non fa quasi suono, solo na specie di sussurro come a dire: “Finalmente!”.*

*Ma adesso che tornava al paese dopo tanto tempo, Paula francesxca gli veniva incontro come na figura lontana che avanza pian piano, si vicina e prende forma. Lui la vedeva come trentatré anni prima, bella e senza padroni, libera come l’acqua del Vajont che corre e nissuno la ferma. Per quello gli piaceva, per quello l’aveva persa.*



Non credo sia umanamente possibile descrivere quello che ho avvertito quando sono arrivato all’ultima riga di questo romanzo. Ci provo, comunque: una specie di emozione, una sorta di urlo interiore che saliva dallo stomaco e che poi si spegneva sulle labbra. Non è proprio così, ma si avvicina a questa sensazione per nulla sgradevole e anzi assai appagante.
Per quanto non legga in modo sistematico le opere di Mauro Corona e anzi la mia conoscenza letteraria di questo autore sia per ora limitata a I fantasmi di pietra, a Il volo della martora e a Storia di neve, oltre a questo Il canto delle manére, mi accorgo di trovarmi di fronte a un narratore di eccelse qualità, che forse non potrà essere considerato come uno di quei geni che lasciano un segno indelebile in campo letterario, ma che comunque è capace di portare il lettore a una vera e propria catarsi, e ciò non è poco, è anzi molto, perché non sono molti quelli dotati di tale qualità. Fino a oggi ero convinto che il suo capolavoro, basandomi ovviamente su quelli che ho letto, fosse I fantasmi di pietra, ma devo ricredermi, perché Il canto delle manére, che descrive la vita di Santo Corona della Val Martin, riassume in sé tanti e notevoli pregi. L’esistenza tribolata di questo boscaiolo e di tutti i boscaioli assume i toni di un’epopea, in quattrocento pagine che si divorano e che si vorrebbe che non finissero mai. La vicenda è ricca di colpi di scena, ma ciò che più conta è la caratterizzazione esemplare del protagonista e dei comprimari, ognuno ben definito nella sua personalità fatta di pregi e di debolezze. Sono uomini scolpiti nel legno, in quello stesso legno che faticando e rischiando tagliano nei boschi, sono uomini che amano, gioiscono, piangono, sono preda dell’odio e vittime dell’amore, sono uomini veri che è sempre più difficile incontrare. E su tutto la natura, a volte dolce, altre feroce, come sempre, una natura che Corona, più che descrivere, dipinge; in essa figura la coralità dei personaggi, perché se è vero che si parla quasi sempre di Santo Corona, cosa sarebbe lui se accanto non avesse uomini come Augusto Peron, Franz Keil, o donne come Giovanna e Paula, tanto per citarne solo alcuni?  Infatti i caratteri dei comprimari servono bene a evidenziare quello del protagonista, un uomo teso a raggiungere una posizione di privilegio, a far soldi, tanti soldi, sacrificando a questo effimero scopo perfino la sua esistenza e accorgendosi da vecchio di non aver vissuto.
Le scene del bosco d’inverno o in autunno, il lavoro delle squadre di boscaioli, le bevute all’osteria, perfino le unioni carnali senza un vero amore che contraddistinguono Santo Corona sono una serie di quadri dipinti con le parole. In alcuni casi, lasciando libero sfogo alla mia fantasia, mi sono sentito perfino di fare un paragone fra certe immagini così stupendamente descritte e le pellicole cinesi del grande regista Zhang Ymou, in primis La foresta dei pugnali volanti, ma anche Lanterne rosse, Hero e La città proibita. Infatti, ho riscontrato la stessa capacità di ricreare un’atmosfera che si potrebbe senz’altro definire magica.
Mi sembra superfluo aggiungere che la lettura di Il canto delle manére è più che raccomandata.        


Mauro Corona è nato a Erto (Pordenone) nel 1950.
È autore di Il volo della martora, Le voci del bosco, Finché il cuculo canta, Gocce di resina, La montagna, Nel legno e nella pietra, Aspro e dolce, L'ombra del bastone, Vajont: quelli del dopo, I fantasmi di pietra, Cani, camosci, cuculi (e un corvo),Storia di Neve, Il canto delle manére, La fine del mondo storto(premio Bancarella 2011), La ballata della donna ertana, Come sasso nella corrente, Venti racconti allegri e uno triste, Guida poco che devi bere: manuale a uso dei giovani per imparare a bere, delle raccolte di fiabe Storie del bosco antico e Torneranno le quattro stagioni, tutti editi da Mondadori, e di La casa dei sette ponti (Feltrinelli 2012) e Confessioni ultime (Chiarelettere 2013).


Recensione di Renzo Montagnoli



MondoBlog del 18 giugno 2014

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domenica 8 giugno 2014

Utopia, di Carla De Angelis

                                                                    Foto da web


Utopia
di Carla De Angelis


Scusa Signore se non ho ricordo dei giorni vissuti
un pensiero lungo in cerca di incanto
è rimasto impigliato nei perc
tuttavia riprendo la strada
senza sprecare una mollica di pane
un sorso di acqua un passo una parola
senza consumare il mistero mi fermo
dalla finestra vedo passare il gregge
il cane bianco lo protegge lo avvia alla collina
L’incanto si trova nei fili d’erba
nel silenzio del pastore nel sole
nessuna pecora si deve smarrire
nessun uomo deve più morire

(pensando a tutte le guerre)


Da I giorni e le strade (Fara Editore, 2014)


La musica mi pare in tema:





I giorni e le strade, di Carla De Angelis



I giorni e le strade
di Carla De Angelis
Prefazione di Stefano Martello
Fara Editore
Poesia
Collana Sia cosa che
Pagg. 70
ISBN 978 88 97441 41 0
Prezzo € 11,50

 Il valore della parola 

L’uomo cominciò a essere cosciente con l’uso della parola, prendeva in mano un sasso e così sapeva a che corrispondeva quella “cosa” magari trovata per terra. E come la realtà all’intorno assumeva i nomi delle sue componenti, i nostri progenitori iniziarono a parlarne. La parola rappresentava quindi la realtà tangibile e solo più avanti nel tempo, con l’avvento della poesia, la parola cominciò ad andare oltre la concretezza che era sotto gli occhi di tutti. Essa, opportunamente congegnata, cominciò a identificare anche ciò che non si vede, ma si percepisce, si avverte, come nel caso delle emozioni. E la scelta della stessa per identificare uno stato d’animo divenne oggetto di ricerca, finendo con l’impreziosire i versi delle poesie.
Un touch e scompare un volto, ove quel touch è certo un tocco, ma non lo è solo per somiglianza di vocaboli, poiché è fortemente d’impatto sotto l’aspetto fonetico; Il poeta sa farsi pastore del destino, ove quel pastore richiama greggi condotte da un uomo, colui che accudisce alle pecore, e nel caso specifico il poeta diventa l’essere che non accetta supinamente il corso delle cose, ma vuole essere libero di scegliere la vita che desidera, divenendo così un pastore, magari illudendosi, del destino che gli è riservato.
Questa ricerca della parola più appropriata è una delle caratteristiche di I giorni e le strade, l’ultima raccolta poetica di Carla De Angelis. 
In effetti il ricorso a termini mirati impreziosisce l’opera, costituendone comunque solo un aspetto sartoriale, per quanto di pregio, mentre invece la presenza pressoché costante della metafora rafforza queste poesie non legate da un tema comune, bensì frutto di occasionali emozioni prontamente salvate, con uno stile senz’altro scarno e non aulico e che solo in questo sembra ripercorrere le vie dell’ermetismo.
No, Carla De Angelis cerca di ritagliarsi un angolo poetico tutto suo, in cui, pur sotto l’influsso di correnti e dello spirito di poeti, per lo più moderni e ormai defunti, scava, come lo scultore nel marmo, un suo personale modo di esporre con cui portare avanti quel messaggio che, consciamente o inconsciamente, di volta in volta frulla all’improvviso nella sua mente, imponendole la necessità di immediatamente fissarlo su un foglio.  
Ed è così che si trovano in questa raccolta liriche messe lì, senza un ordine logico, un flusso di emozioni che è il più disparato (Non ho radici / sosto dove sto bene / rubo all’istante il suo significato /…; Potavo lacrime agli alberi / imparavo a usare  il verbo / delle radici / il pensiero germogliava /…; Il sorriso si arresta sull’orlo della gioia /….).
Per quanto non unite da un unico tema, tuttavia c’è un comune fil rouge, che le caratterizza e che sta evidentemente a cuore all’autore, e questo filo conduttore è la vita, in tutti i suoi aspetti, nelle gioie e nei dolori, una serie di riflessi che, incisi nell’animo, si affacciano allo scoperto quasi con pudore.
Se non c’è un retrogusto di gioia, non ce n’è però uno di malinconia, anzi si evince un certo pragmatismo, che non vuol dire materialità, né accettazione supina, bensì presa di coscienza dei nostri estremi limiti, entro i quali possiamo, nonostante il poco tempo, effettuare una continua ricerca in noi stessi, onde approdare a una conoscenza, e non alla conoscenza, perche di questa ce ne sono tante quanti sono gli uomini. Eppure, benché ci sia chi cerca in questo modo in Italia come all’estero, queste individualità avvicinano anziché allontanare, e concorrono a formare tasselli del grande mosaico del sapere, un’opera che è sempre in progresso e che mai sarà terminata.
Leggete questa raccolta di poesie e cercherete di scoprire gli angoli più reconditi del vostro animo, soffermandovi, di tanto in tanto, sulla valenza delle parole, perché queste non sono solo alcune lettere artatamente combinate, sono invece l’essenza di un concetto.
    
     

Carla De Angelis è nata a Roma nell’ottobre del 1944. Nel 1962 ha pubblicato i primi versi nella rivista internazionale «Pensiero ed Arte» e collaborato all’antologia dedicata a Dante Alighieri nel VII centenario nella nascita. Ha partecipato ad attività artistiche nel sociale, allestito mostre di ceramica in varie librerie di Roma, al Museo del Folklore e alla mostra dei Cento presepi che si svolge a Roma, in Piazza del Popolo, Sala del Bramante. Nel 1995 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro le ha conferito l’onorificenza di “Cavaliere al merito della Repubblica Italiana”. Poesie e racconti sono presenti in diverse antologie edite da Perrone, Estroverso, David & Matthaus, Limina Mentis, Delta 3, Pagine, Aletti che l’ha inserita nel 2009 nell’Antologia dei poeti italiani contemporanei. 
Con Fara ha pubblicato: Salutami il mare (poesie), il libro dialogato con Stefano Martello Diversità apparenti (i due libri sono risultati vincitori e finalisti in vari premi), sillogi nelle antologie Il silenzio della poesia (2007), Poeti profeti (2008) e Chi scrive ha fede? (2013). Sempre con Fara ha curato con Stefano Martello Il resto (parziale) della storia e nel 2010 pubblica la raccolta
poetica A dieci minuti da Urano (anche questi due libri sono risultati vincitori in vari premi). Nel 2011 esce Mi vestirei di mare per i tipi di Progetto Cultura. Nel giugno 2012 ha curato con Brigitte Cordes Corviale cerca Poeti (edizioni youcanprint). Collabora con la Biblioteca “Renato Nicolini” ex Corviale (Roma).


Intervista di Renzo Montagnoli a Carla De Angelis, autrice della raccolta poetica I giorni e le strade, edito da Fara



La poesia ha pochi appassionati, tant’è che molti scrivono in versi, ma pochi sono quelli che li leggono. È un ben triste destino per una forma artistica che è stata la prima, soprattutto quando ancora non esisteva la stampa e l’opera veniva trasmessa oralmente e proprio per questa particolarità doveva avere caratteristiche sue peculiari che ne rendessero possibile la diffusione. Con l’avvento del libro stampato poco a poco ha preso piede la narrativa e oggi è senz’altro preponderante. Ci si chiede allora quale possa essere l’avvenire della poesia e quanto e cosa si debba fare per salvarla.
Lei, che è una poetessa, probabilmente si è già posta una simile domanda e forse ha trovato anche delle risposte. Se è così, mi piacerebbe conoscere la sua opinione in merito.

La natura umana non può prescindere dalla poesia che a mio parere, avrà sempre un posto vitale; per i pochi che leggono? forse non è proprio così, nella Biblioteca, per esempio,  “Renato Nicolini” ex Corviale dove ogni secondo mercoledì del mese si svolge l’evento “Poesia a Corviale” molte persone di qualsiasi età  partecipano con entusiasmo. E’ vero, aspettano di leggere la loro poesia, comunque sono presenze importanti e interessate ad ascoltare. Oggi si scrive molto, c’è un grande bisogno di apparire e anche se si tratta di una vetrina in continuo movimento,  va bene lo stesso perché è importante scrivere il tempo farà la sua distinzione e salverà ciò che vale.
 La poesia ha bisogno di tempo per essere compresa e la velocità della  rete non permette di soffermarsi il tempo necessario per abbracciarla. Il verso libero, va bene, ma non deve mancare la musicalità.
Non so dove va la poesia, questi tempi sono troppo volgari, tempi di sconti e offerte anche per imparare a scrivere, spero si torni al bello, alla poesia che pur trattando temi attuali non sia oscura, perché la bellezza e la limpidezza non sono solo formali hanno sostanza intrinseca che migliora chi scrive e chi legge.

Concordo. Una poesia, anche se a verso libero, è necessario che abbia una sua struttura armonica, perché altrimenti diventa prosa, magari una prosa poetica, ma pur sempre prosa. Personalmente dico sempre che si può nascere poeti, intendendo in tal modo una dote naturale, ma che scrittori di poesie si diventa, in quanto un talento, se non è coltivato, con esercizi e studi approfonditi, rimane sempre tale, ovvero una potenzialità inespressa.
Avevo già notato il suo modo di scrivere poesie in A dieci minuti da Urano, che infatti è stato oggetto di mia recensione più che positiva. Ed è proprio per questo che mi ha incuriosito I giorni e le strade, una raccolta non tematica, frutto probabilmente di poesie scritte in epoche diverse, e tuttavia caratterizzate da una ritmicità, da un’armonia che è possibile cogliere soprattutto leggendole a voce. Sarebbe peraltro ingiusto limitare la valenza solo alla struttura, perché a parte i pensieri di volta in volta esposti presentano sovente delle invenzioni poetiche di quella che si potrebbe definire la capacità di esprimersi in modo inusuale, ma assai piacevole e indubbiamente razionale (Una  vita senza l’oltraggio di una storia / è strada senza impronte /…).
E’ senz’altro vero che la poesia è piacere, ma anche fatica e tenacia. Mi dica, per cortesia, come nascono le sue poesie, si soffermi un attimo e magari si chieda la ragione del suo procedere che non di rado è invece inconscia. Insomma, può sembrare una curiosità, ma non c’è di meglio di sapere da chi le crea come si formino questi gioiellini, come si sviluppa l’idea, come si arrivi a produrre, in veste definitiva, questi versi.

So che può far sorridere , la verità è pur  stando bene insieme agli altri, dialogo molto con me stessa, così accade che un avvenimento, una parola o anche una gita in autobus mi colpisca , e alcuni versi mi girino in testa fino a quando non li ho (a parere mio) perfezionati per scriverli. Poi  per completare la “poesia” il tempo è più lungo; la chiusa invece arriva quasi senza cercarla. Di questo  mi stupisco sempre. Leggo ciò che scrivo a voce alta, non è raro che un testo di molti versi si riduca alla metà. E’ un lavoro di ricerca della parola che mi fa star bene, al quale mi piacerebbe dedicare molto più tempo,  per questo chiamo i miei lavori timidamente “poesia”.
Dopo aver scritto una poesia, la mattina seguente al risveglio ho la stessa sensazione che avevo da bambina quando ricevevo un regalo.

Non so se sia un caso, ma capita così anche a me. Non ricerco mai una poesia, direi anzi che meno si pensa a scrivere qualche cosa, più facilmente viene l’idea, magari anche solo osservando il particolare di un’opera d’arte, o dopo lo svago di una gita. Nella mente frullano pochi versi, anzi in genere solo uno ed è da questo che, messo nero su bianco, seguono gli altri, come se fossero già stampati nella mente. E’ ovvio che quella che appare sul foglio non è la versione definitiva, ma una sorta di brutta copia, su cui di tanto in tanto ritornare per delle modifiche, per dei tagli o delle piccole aggiunte.
Mi scuso per la curiosità, ma mi è sembrato logico conoscere il metodo, se così si può chiamare, con il quale un’altra persona crea e confeziona le sue opere.
E così, se poeti si nasce, scrittori di poesie si diventa, e a ciò contribuisce in modo determinante la lettura e lo studio di poesie di altri autori. Al riguardo ognuno di noi ha i suoi preferiti, spesso per i motivi più vari. Io per esempio stimo molto Giovanni Pascoli, un uomo che alla sua epoca è riuscito a dare un’impronta nuova alla poesia, prima influenzata in modo considerevole da Leopardi; inoltre mi ci ritrovo in non poche tematiche, senza dimenticare la capacità di esprimersi in modo coinvolgente (tanto per fare un esempio, L’aquilone, pur richiamando il tema ricorrente della morte, finisce con l’essere il canto disperato del peso insopportabile della vita, esposto così bene che viene quasi spontaneo dire, a proposito del compagno di collegio morto, era meglio morire da piccoli). Sono sicuro che lei abbia letto tanto e in proposito mi viene un’altra curiosità: qual è l’autore preferito e che più ha contribuito alla sua formazione artistica e per quali motivi?

La poesia è anarchia: E’ libertà individuale./ Le sue leggi non sono quelle (False  e gesuitiche) degli uomini volgari. Un poeta/che va d’accordo con il can-can degli uomini/comuni non è un poeta, è un impostore. (Luigi Bartolini). Ho conosciuto il poeta, pittore e scultore Luigi Bartolini quando avevo già la passione per la lettura e la scrittura, grazie a lui continuai a scrivere e iniziai a pubblicare. Ho sempre presente questi suoi versi come una guida.
Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli erano i miei preferiti. Della poesia che lei ha citato, mi ripetevo ininterrottamente i primi tre versi e l’ultimo; poi la lettura del Fanciullino mi  tranquillizzò e l’amore per la poesia  continuò e continua  a farmi compagnia. Quasi per caso in una libreria sulla via Appia a Roma conobbi i testi di Lalla Romano e i classici latini (ho un diploma di ragioneria). Continuando a leggere, mi chiedevo il perché della poesia così approfondii questa mia curiosità e mi stupirono le ricerche degli psicologi e le considerazioni di  Friedrich Nietzsche sui poeti.
Giacomo Leopardi ha contribuito alla mia formazione e mi sono trovata spesso a essere  bastian contrario, perché affermavo e ne sono tutt’ora convinta che il suo non sia  pessimismo, ma  realtà pura. Non ho un autore preferito, oltre a quelli citati amo Salvatore Quasimodo, Walt Whitman, David Maria Turoldo e altri, molti contemporanei.
Ha ragione lei, c’è un autore preferito, torno sempre a rileggere Giacomo Leopardi. Molte cose che ha scritto si adattano anche a questi tempi!.

Non conosco Bartolini, mentre gli altri sono oggetto di miei studi ricorrenti (di Whitman ho tradotto anche qualche poesia). Mi sembra di comprendere che ami anche i classici latini e al riguardo devo dire che mi sono dimenticato di mettere fra i miei preferiti anche un mio concittadino: Virgilio. Se è più noto per l’Eneide, il Virgilio che amo di più è quello giovanile, con un’opera non commissionata come le Bucoliche, che per me è il suo capolavoro. E poi ha anche poesie singole, splendidamente tradotte da Salvatore Quasimodo. Sì, Leopardi non è un pessimista, ma un realista, visto come sono sempre andate e sempre andranno le cose a questo mondo.
Ma veniamo alla sua raccolta, non tematica e per questo forse più interessante, in quanto svincolata da quei lacci e laccioli che un autore inconsciamente si pone quando vuole appunto svolgere un tema. Di Leopardi c’è qualcosa, non il suo cosiddetto pessimismo, ma una presa di coscienza che la induce a guardare la vita per quel che è, bella nella misura in cui gli altri non ce la rovinano. Direi così che il suo più che un pessimismo è un pragmatismo, cioè il vedere le cose come effettivamente sono e comunque cercare di vivere, perché l’esistenza è un’occasione purtroppo irripetibile. C’è vita e vita, o meglio ci sono tante vite quanti sono gli esseri animati e concorrono a formare la quotidianità, e poi c’è la nostra vita, la mia, la sua. Può sembrare filosofia spiccia, ma credo che anche lei cerchi di considerare l’esistenza come un cerchio chiuso in cui si raccolgono la sua presenza e quella dei suoi familiari più stretti, anche se indubbiamente ciò che accade al di fuori di questa immaginaria circonferenza condiziona il nostro modo procedere e ciò accade in maggior misura per il poeta, la cui accentuata sensibilità gli impedisce di fatto un distacco dai fatti e dagli eventi che, pur non toccandolo direttamente, generano in lui una naturale e comprensibile reazione. Non siamo di legno e per quanto cerchiamo di procedere sordi nel mondo ristretto che ci siamo dati, stragi e disastri che accadono anche in zone così lontane dalla nostra non ci possono lasciare indifferenti. E questo è un dramma da cui spesso finisce per scaturire una poesia, che diventa, oltre che messaggio, sfogo liberatorio, pur restando latente un vago senso di colpa, una malinconia interiore che ravviso in più di una sua poesia, come per esempio in Le stagioni passano, oppure come in Il poeta sa.
E’ d’accordo?

Amo la vita e la gente per quello che mi offre e per quello che riesco a dare. Sono d’accordo con lei i mali del mondo non possono restare fuori la porta e quando mi sento oppressa da notizie come mancanza di cibo, omicidi stragi sento il bisogno di scrivere; riconosco che questo aiuta solo me e solo nel momento in cui scrivo, perché poi l’impossibilità di fare qualcosa di concreto  mi immalinconisce.
La mia raccolta non è tematica raccoglie le emozioni del giorno. Ho cercato la musicalità nel verso; mi  piacerebbe riuscire a scrivere  poesie in rima, credo che  sia come il tocco finale che il ceramista ricerca per dare armonia al suo lavoro.
 Continuo a leggere e a studiare i poeti latini: Virgilio, Catullo e Tito Lucrezio Caro, ma anche  contemporanei.

Scrivere poesie in rima non è certo facile, ma credo che per ottenere musicalità non sia strettamente necessario ricorrere alla metrica classica. In fin dei conti la poesia armoniosa è frutto di un equilibrio strutturale per pervenire al quale non è indispensabile che sia, per esempio, sotto forma di sonetto. A tal riguardo, per quanto generalmente non legga subito le prefazioni nel timore di esserne influenzato, questa volta ho fatto uno strappo alla regola, anche perché l’autore, Stefano Martello, è critico costruttivo e senza eccessi. Dico subito che concordo con quanto ha scritto in ordine al ricorso alla parola. Infatti, parafrasando una pubblicità, si potrebbe dire che basta la parola, quando la stessa riassume con la massima incisività e forza un concetto; non solo questo, però, poiché il termine appropriato può contribuire a creare quell’armonia che deve essere propria della poesia. Tanto per fare un esempio, la poesia di pagina 75 ( Questa borsa è troppo pesante da portare /  occorre una scelta / la capovolgo sul tavolo / conserverò ciò che è importante /…) è sì indubbiamente una metafora di quel momento della vita in cui siamo chiamati a scelte irrevocabili, ma senza il ricorso a una terminologia idonea e ricercata non solo rischierebbe di essere incomprensibile, ma potrebbe scivolare in un discorso prosastico. E una felice scelta è quel portare – verbo all’infinito – che, oltre a evidenziare come l’esistenza sia un fardello, offre dinamicità e continuità al verso.
A questo punto una domanda mi è d’obbligo:  la ricerca della parola avviene in automatico, cioè la stessa già nasce con la poesia, o è frutto di ponderazione successiva, e quindi degli inevitabili ritocchi?

Il mio desiderio di scrivere in rima è una sfida alla ricerca della parola che deve comunque restare legata al significato che intendo dare. Forse è una ricerca legata a una sfida con me stessa, chissà!
Affido volentieri i miei lavori all’occhio critico di Stefano Martello perché non si perde in frasi di circostanza, note critiche, ma va dritto al centro della parola.
Credo di essere fortunata perché le parole quelle, per me, essenziali nascono con la poesia; successivamente rileggo il testo e faccio dei ritocchi fin quando le sento  scorrere una accanto all’altra come in abbraccio di note.
Accade che cambio di posto ai versi e aggiungo o tolgo (questo spesso) tutto quello che è ridondante  o non serve.
E’ strano come i versi nascano  nei momenti più impensati. Tempo fa, molto tempo fa, avevo la certezza che  una parola o una frase   venuta in mente,  avrei potuto richiamarla in qualsiasi momento, e invece no, così ho imparato a scrivere in tutte le circostanze: mentre preparo il pranzo o la cena, al bar ecc. Mi piace scrivere con la penna su carta; solo in macchina sono costretta a fissare sul cell.
Amo la lettura e la scrittura, credo sia quanto di più bello e gratificante la vita mi abbia regalato. La famiglia è comunque sempre al primo posto.
A leggere che quando le viene in mente qualcosa la scrive subito, dove capita, onde non dimenticare l’idea creativa, mi sono ricordato che Ungaretti faceva così e iniziò questo metodo proprio durante la prima guerra mondiale, nel fondo di una trincea, fra un combattimento e l’altro. Sembrerebbe così che questi versi, a volte anche non riletti e non corretti, nella loro spontaneità ed essenzialità abbiano dato vita a quella grande corrente letteraria che risponde al nome di ermetismo. E in effetti, per quanto risulti comprensibile di primo acchito, la sua poesia ha caratteristiche proprie dell’ermetismo, da cui tuttavia si discosta per una innata, o forse voluta, necessità di essere chiara prima per se stessa e poi per gli altri.
Ho rilevato una comunanza di approccio alla scrittura con Stefano Martello, che mi sembra un suo grande estimatore. In effetti, in un’epoca come la nostra, in cui si tende a precorrere il tempo, l’essenzialità e l’incisività sono basilari, né potrebbe aver senso scrivere come D’Annunzio, con tanti svolazzi e voli pindarici. Direi che il poeta contemporaneo è più che un sognatore un pragmatico e tale risulta pure lei, per quanto ogni tanto ci sia il verso frutto di un’invenzione poetica, sfondo tonificante di un discorso più approfondito,  quasi una necessità per indurre il lettore a sostare un po’. Vede, versi come questi, riferiti all’acqua, “ …/che scenda a curare le / ferite come il canto/ del fiume per il mare /…,”costituiscono quello sfondo, di cui ho prima ho scritto, che senza nulla togliere all’idea tematica la rendono assai più gradevole da assimilare. Insomma, non abbiamo degli spot pubblicitari, né dei proclami, ma poesia che va dritta allo scopo senza dimenticarsi che per essere tale deve avere una struttura armonica a cui non poco contribuisce una sensibilità espressiva non fine a se stessa, ed è proprio questo che la rende interessante e gratificante.
Lei cosa ne pensa?

Come ho già detto nel tempo ho capito di non poter richiamare quella frase quando volevo, perché l’emozione dura lo spazio di un istante; sentivo come  inganno lo sforzo di ricordare e scrivere.
Cerco di rendere comprensibile le mie poesie a me e agli altri perché lo ritengo un fatto etico. Cambio di posto alle parole o addirittura a tutto il verso,  in modo che risulti più fluido e acquisti limpidezza e armonia. Quasi mai sostituisco le parole,  non posso fare a meno della fantasia, mi affeziono alle parole che mi rappresentano e su quelle costruisco il resto.
La verità è che ho sempre la testa piena di sogni, poi la realtà personale e del mondo prende il sopravvento e se da un lato ho imparato a vivere con quello che ho, il mondo della  fantasia non mi abbandona mai, scrivo  su due binari che ogni tanto faccio incrociare.

Considerato che pure io mi diletto a scrivere poesie, con il massimo impegno e con risultati che tuttavia non sono in linea con le mie aspettative, spesso mi chiedo se questo stilare versi non sia una facile via per analizzarmi, per scoprire quanto c’è ancora in me che non conosco. In buona sostanza, finisco con il chiedermi perché scrivo poesie e la risposta, o meglio le risposte, che variano di volta in volta, hanno più il sapore di un alibi che di un’effettiva realtà. Capita anche a lei questo e se sì, quale è la risposta più plausibile e logica alla domanda?

Per me scrivere è un impulso al quale non so resistere. Ogni volta la motivazione è diversa, non è sempre tutto amore è anche rabbia, risentimento, pentimento e divertimento. Scrivo perché mi fa stare bene, mi piace la pagina bianca che si riempie delle mie parole, è la stessa sensazione che provavo quando modellavo la creta, non sapevo quello che avrei fatto. Con la scrittura è la stessa cosa non sempre mi fermo quando i sentimenti si fanno più intimi, più forti, vengono fuori senza volerlo, poi mi chiedo: perché condivido sentimenti che sono miei? allora mi assale il timore che chi legge possa capire di me più di quanto io desideri. E’ un rischio che infine  corro volentieri, forse perché la lettura degli altri mi offre  un’altra possibilità per capirmi.
Però insisto la motivazione più vera è che sto bene quando scrivo.

Forse è vero che gli umani si pongono tanti, troppi problemi  e che certe domande possono e forse devono essere superflue; la vita forse sarebbe migliore se ci lasciassimo un po’ andare a quell’atavico istinto che nell’evoluzione della specie è stato invece soffocato.
“Dum loquimur fugerit invidia aetas: carpe diem, quam minimum credula postero” scriveva già Orazio e quel concetto di vivere il presente è rimasto valido e sempre sarà così, ma è anche vero che il poeta è artefice e vittima della sua arte, tanto che finisce con il condizionargli l’esistenza. Al riguardo la sua naturale e accentuata sensibilità lo espone più degli altri alle circostanze del tempo, lo fa di volta in volta sentire parte integrante dell’umanità, oppure in un limbo da cui guardare il mondo e anche se stesso con occhio critico, gli impone di cercare di dare un senso alle cose e così è forse inconsciamente un po’ filosofo.
Quel “carpe diem” lo attrae e lo respinge al tempo stesso, perché chi scrive poesie è un essere senza tempo, in cui presente, passato e futuro si confondono, per lui la parola non è parte di un discorso, ma è il flusso della vita stessa, in un rapporto spesso d’amore, a volte anche d’odio.
Nel suo fondo c’è sempre un velo di malinconia che mitiga l’emozione che lo coglie quando rilegge quel foglio prima bianco e ora ricamato con le parole che in versi sono quasi esplose dal suo intimo all’improvviso ed è solo questo il suo “carpe diem”, quel saper cogliere sensazioni che di volta in volta scopre in sé, quasi un latente istinto a cui è indispensabile dare sfogo.
Di tutte le motivazioni del perché scrivo poesie questa è la più ricorrente, ma non credo che sia personale; in fondo forse è comune, magari aggiunta ad altre. Del resto non mi piacerebbe che il senso della vita fosse limitato a un semplice “carpe diem” e questo senza voler considerare gli altri dall’alto in basso. Se l’esistenza ha un senso, e lo ha, è probabilmente diverso per ognuno di noi. Personalmente sono dell’idea che questo nostro breve cammino dall’alba al tramonto debba essere compiuto assieme in armonia, cercando di conoscere gli altri attraverso una sempre più approfondita conoscenza di noi stessi e in questo la poesia è di grande aiuto.
Per lei, quale è il senso della vita?

Il senso della vita è la vita;  il suo significato si rivela strada facendo; da bambina forse era vitale l’attenzione della mamma, le coccole, il mondo era  circoscritto, via via che il tempo è passato ho preso  coscienza della limitazione dell’ esistenza attraverso la morte, questo è stato il momento della comprensione e valutazione del senso della vita. E’ diventato  importante scrivere, riempire quel tratto tra la vita e la  non vita; riempirlo di parole e di gente, occuparmi di sapere di conoscere non solo quello che accade intorno. Leggere, fare domande, la curiosità è essenziale alla vita.  Mi sento parte di quello che accade, a volte come attore a volte come spettatore, per questo mi piace prendere parte e organizzare eventi, ascoltare  gli altri. Dalla   lettura dei poeti latini  ho imparato che la poesia dà un senso di continuità al tempo che passa; a volte mi sembra che la mia vita sia troppo breve a volte troppo lunga, ho un’attenzione estrema alle parole e a tutto ciò che mi circonda. Mi piace dire la verità, ma non ferire, c’è sempre un modo per dire senza offendere, la lettura di “La persona e il sacro” di Simone Weil ha accentuato la mia riflessione.
Il senso della vita è conoscersi e realizzare quanto più possibile la ragione per cui siamo al mondo, essere in armonia con tutti gli altri essere viventi, nonostante i condizionamenti esterni.

Rilevo con piacere che in ordine al senso della vita siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Il mio timore, tuttavia, è che siamo non in molti a porci questa domanda e a darci una risposta che tenga conto non solo della nostra esistenza, ma anche di quella degli altri. Credo che se tutti procedessero analogamente il mondo risulterebbe senz’altro migliore e invece ogni giorno che passa mi spiace rilevare come imperi il trionfo dell’edonismo, la ricerca a ogni costo del successo e del potere, e questo ovviamente a discapito degli altri. Mi è rimasta in mente una poesia della silloge, Il sonno ( Mi assale spesso senza annuncio / avanza a ritroso / veste abiti antichi collane e pietre preziose / danza intorno a suoni e magiche armonie / nutre abilmente il sogno / mi sottrae al risveglio / Vuole la vita?). Vede mi sembra che il sonno, pura esigenza fisiologica, sia addirittura desiderato come una condizione alternativa e forse migliore del periodo in cui invece si è svegli. Nel sonno più che mai siamo noi stessi, sottratti alle mille influenze della quotidianità, e i sogni, che sempre l’accompagnano, sono un’inconscia riflessione sul nostro “io”. Ma il sonno vuole la vita o il sonno è la vita stessa? E qui mi viene un’opera di Pedro Calderon de la Barca, La vita è sogno, in cui la vita è intesa come un percorso verso l’autentica conoscenza, in pratica una riscoperta in tragedia della teoria della conoscenza, esposta da Platone in Repubblica. Come si vede, porsi effettivamente il problema del senso dell’esistenza è cosa antica e forse e del tutto naturale nell’uomo qualora esso voglia rifuggere dalla sua originaria animalità. Mi scuso per la divagazione e ancora riallacciandomi alla poesia sopra riportata le chiedo un’interpretazione autentica, in pratica il significato del verso di chiusura, quel Vuole la vita?, poiché credo che possa riassumere un suo pensiero fondamentale e generale.

Vuole la vita? Ho terminato con questo verso e ho tenuto per me la risposta, il lettore fornirà la sua personale. Da parte mia ritengo che nel sonno il sogno ci appartenga come vita reale e ci restituisca qualcosa di noi, quel qualcosa che i condizionamenti esterni ci tolgono. E’ difficile sottrarsi alla smania di avere, alle malattie ai dolori nostri e degli altri, all’altalenare di notizia buone e  notizie e cattive che subito prendono il sopravvento.
Amo comunque la vita,  l’amore, il piacere e le soddisfazioni che ognuno di noi trae da quello che fa.
 Vivere  è pagare un biglietto, non so per cosa e perché, sono in una ricerca continua. Vivo il sogno nel sonno come una guida appagante, così  quando la sveglia suona mi girerei volentieri dall’altra parte per continuare a sognare.  

Vivere  è pagare un biglietto”. In un certo senso sì e mi pare sia stato Leonardo Sciascia a scrivere che la morte si sconta vivendo, una frase indubbiamente di effetto, ma anche notevolmente pessimista, al pari di Giovanni Pascoli che, in L’aquilone, lascia chiaramente capire che la morte in giovane età del suo compagno di collegio non è stata in fondo una sfortuna, poiché così non ha dovuto affrontare i dolori di tutta una vita. Benché in più di un individuo sia riscontrabile la fatica di vivere, sta di fatto che tutti, in prossimità della morte, cercando di restare attaccati a quella condizione di cui tanto ci si lamenta, intessuta spesso di delusioni, di insoddisfazioni e anche di dolori, ma capace, a volte, di essere gratificante di gioie, sia pure momentanee e fugaci. Poi è ovvio che ognuno è libero di interpretare come crede quel Vuole la vita?, perché non è così infrequente che lo stesso poeta si meravigli di ciò che ha scritto, frutto di un vero e proprio momento di estasi in cui quell’Io latente è riuscito a emergere.
Ci stiamo avviando alla fine di questa intervista e devo dire che mi spiace, ma d’altra parte le esigenze di Internet, la necessità di avere approcci rapidi e di leggere senza affaticarsi impone di pervenire a una chiusura. Non voglio però che sia brusca, anzi mi piacerebbe che fosse solo una pausa, sia pur non breve, e del resto, come la poesia è in continua evoluzione, così è anche parlarne di essa. Se mi consente, l’ultima domanda, che in fondo si riallaccia alla precedente, concerne una poesia della raccolta: Valico il muro ogni notte / il respiro armonizza con il corpo / che non trattiene nulla / cementa mattoni per / il futuro (o per domani?). Sembrerebbero i versi di un muratore e in effetti ognuno di noi è un muratore che costruisce la propria esistenza, ma non mi è del tutto chiaro cosa sia quel muro, che potrei interpretare come la linea di demarcazione fra realtà e sogno, oppure quella naturale difesa che ci precostituiamo quando siamo e operiamo nel mondo, difesa che con il sonno della notte viene a cadere.
Spererei che fosse in grado di darmi una risposta chiara, che quel muro che io e lei abbiamo cercato d’infrangere in questa discussione non rimanesse invece un ostacolo insuperabile.
E allora mi dica, me ne parli senza remore e laccioli.

La notte, il buio come protezione, così la divisione tra il giorno e la notte è netta; la notte il respiro obbedisce ai bisogni del corpo, segue il ritmo più giusto e si adagia, giusta ricompensa per il giorno trascorso. Il muro che valico è la divisione fra due realtà; al risveglio i mattoni servono a rendere meno profondi gli  avvallamenti sulla strada e a riparare quello che si può.
“Vivere è pagare un biglietto”, lo pago volentieri, perché la conoscenza del mondo, la libertà che sento quando vado in bicicletta o mi lascio nuotare dall’acqua, (è in una poesia) l’amore, sono sensazioni irrinunciabili, per questo scrivevo che i primi tre versi de “L’aquilone” li ripetevo fra me molto spesso, anche l’ultimo, ma questo lo trovavo ingiusto nei confronti del bambino e mi metteva molto ansia.
 C’è il dolore che si insinua sempre anche quando mi sento felice, è come un battito stonato che mi rabbuia e deglutisco per scacciarlo.  So che fa parte del gioco, posso sempre richiamare anche una gioia provata , anche  se solo nel ricordo.
Spero di aver chiarito il mio pensiero, mi mancheranno la sua bella scrittura e i suoi pensieri, mi hanno aiutato e continueranno ad essermi d’aiuto nella comprensione di me, di quello che scrivo che spesso non so nemmeno dove porta.
La ringrazio.

Ringrazio pure io, per l’interessante e piacevole scambio di opinioni.
La saluto con un arrivederci e con l’augurio di successo di questa sua ultima fatica.



Recensione e intervista a cura di Renzo Montagnoli