martedì 22 luglio 2014

Liberare l'animale, di Ferdinando Camon

La poesia che segue fa parte dell’e-book intitolato Dal silenzio delle campagne, edito da Garzanti agli inizi del corrente mese di giugno e che ricomprende, oltre al volume Dal silenzio delle campagne, difficilmente reperibile, anche un altro volume, Liberare l’animale, ormai introvabile in forma cartacea.
Liberare l’animale dà il titolo all’omonima raccolta ed è un testo particolarmente drammatico, è il resoconto di un fatto, durante la seconda guerra mondiale, a cui Ferdinando Camon, allora bambino, dovette assistere.
I tedeschi catturarono un partigiano, suo parente, gli chiesero il nome dei suoi compagni e poiché non rispondeva, benché ferito gravemente, lo mostrarono nel cortile di casaCamon sperando che qualcuno, vedendolo, soprattutto un familiare, si tradisse. Ma ciò non avvenne, salvando così la vita ai parenti; da lì a poco, condotto al castello, fu torturato a morte.
In pratica, come dice la poesia, lasciò loro la vita, ma quest’atto non è meritevole di ringraziamento, perché la vita che allora si conduceva in campagna era miserabile, animalesca e la morte di quell’uomo non commuove il poeta, perché del pari lo commuoverebbe la sua vita, tanto questa era dura e bestiale.  





Liberare l’animale
di Ferdinando Camon


L’ultima volta che ti vidi
due soldati tedeschi ti portavano
appeso ad un bastone
con una corda passata
sotto le ascelle,
con le mani penzoloni
reggevi forate le budelle
pendule sui coglioni.

Ti sospesero davanti a noi
allineati al muro sui ginocchi
perché ci compromettessi,
per non cedere alla paura
ci guardasti fugacemente
ma non tanto che non ti vedessi
il bulbo degli occhi
tremare
impercettibilmente.
Poi ti portarono dentro il castello
sopra il tavolo della tortura.
Dopo due ore, fratello,
eri pronto per la sepoltura.

Non sono mai venuto sopra i sassi
della tua tomba indurita
da un tempo senza storia,
non parlo col tuo spirito
o con la tua memoria.
La tua morte non mi commuove
più di quanto potrebbe la tua vita:
questa e quella non hanno uno scopo
per te più che per un topo.
Moristi a vent’anni
famelico e casto.
Il sindaco che ti commemorava
retorico e loico
odorava di pasto
e di coito.

Della vita che ci hai lasciato
non ti ringrazio né ti perdono.
Noi dobbiamo contentarci di esistere.

La nostra miseria è folklore,
è proprio della bestia il nostro dolore.

Non possiamo ancora reagire al male:
occorrono interi millenni
per liberare da noi l’animale.




4 commenti:

  1. Poesia che è come una pugnalata al cuore. Non si può che essere d'accordo, ci vorranno millenni.......
    Giovanna



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  2. E' uno dei miei narratori preferiti, ma ignoravo che fosse anche un grande poeta. Questa poesia mi ha letteralmente folgorato.

    Adriano Manara

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  3. Stupenda poesia, amaramente vera.

    Agnese Addari

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  4. Un testo che fa veramente male, ci fa sentire colpevoli perché tutti appartenenti allo stesso genere, quello umano/bestiale. E quello che avviene ancora oggi, abbiamo solo l'imbarazzo della scelta, dimostra, come dicono sia l'autore che Giovanna, che dovrà trascorrere un tempo infinito prima che l'uomo prenda coscienza di quale sia il vero senso della sua vita, certamente non quello di massacrarsi a vicenda.
    Piera

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