domenica 28 settembre 2014

Non solo nuvole, di Antonio Messina

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Non solo nuvole
di Antonio Messina


Abbandonati all’aria
più in là delle foschie dell’esistenza
nel rumore caldo d’un turbamento
in un sorriso che lenisca
le angosce trascese
abbandonati
in caldi letti
tra lenzuola ingravidate di rugiada
sotto il chiarore sensuale della luna
abbandonati
immobile sulla rena
con negli occhi la vita
vento e polvere sotto la pelle brunita
è tempo di sogni
lasciati andare
a tutto l’ardore del mondo
non è tempo di quiete,
abbandonati
al tepore dell’anima tua,
come farfalla
smarrita nel vento,
nella smisurata bellezza
d’una fantasia d’amore,
abbandonati…


E con tanto amore che c’è di meglio di una stupenda canzone interpretata magistralmente da Andrea Bocelli:




La lunga strada bianca, di Renzo Montagnoli

                                                                     Foto da web


       La lunga strada bianca
            di Renzo Montagnoli



Mancava poco a mezzogiorno e, risalite le brume del mattino, la piana era completamente inondata dal sole, che, riflettendosi sulle armature, faceva alzare improvvisi e repentini bagliori. Lo spettacolo era impressionante e affascinante al tempo stesso: uno di fronte all’altro stavano i due eserciti, inquadrati ordinatamente in attesa dello scontro. Le prime file erano occupate dalla fanteria, più dietro venivano gli arcieri e subito dopo la possente cavalleria.

“L’attesa è peggio della battaglia, ma spero veramente che sia l’ultima. Per un povero fante come me, servo in pace e servo in guerra, non ci potranno mai essere onori, anche se all’alba il Principe Venceslao ci ha più volte gridato che avremo onore e gloria, ma sarebbe già tanto se riuscissi a sopravvivere. Poi abbiamo assistito tutti alla messa, con il prete che ha invocato la benevolenza di Dio per assicurarci la vittoria. Anche dall’altra parte ci saranno state le stesse parole, le medesime preghiere, un’uguale invocazione. Quel che è certo è che se Dio è in ascolto si trova in un bel dilemma: se favorisce l’uno, scontenta l’altro. Però se Tu sei sopra di noi, ti chiedo solo di salvarmi dal pericolo, mio Dio,  e ti prometto che andrò a messa tutte le domeniche e che tutti gli anni farò parte dei pellegrini che, valicando le montagne,  percorreranno la lunga strada bianca che porta al Santuario della Madonna dei Caduti.”


Improvvisamente, si alzò uno squillo di tromba e le truppe iniziarono a muoversi, sempre in ranghi serrati, dapprima più lentamente, ma poi aumentando gradualmente la velocità, fino a quando i fanti si misero a correre. In quel preciso istante, da entrambe le parti dell’opposto schieramento si alzarono sibilanti le frecce, con un percorso arcuato che le portò a ricadere dall’alto sulla massa avanzante.
Si sollevarono gli scudi, ma non tutti furono così lesti e i dardi si infilarono nelle le cotte, penetrando nelle carni, fra le urla di dolore dei colpiti. Non più di tre volte s’involarono fitte a oscurare il sole, scoccate dai lunghi archi di duro legno di frassino, ma cominciarono a creare ampi vuoti nelle file che pronte si rinserrarono. Indi, preceduto da urla disumane, avvenne l’impatto, un cozzo violento, in un frastuono di scudi che si urtavano e di spade che s’incrociavano.


“Un fendente da sinistra, mi scanso, alzo la spada: colpo bloccato! Ma ecco un altro che cerca di infilarmi con la lancia; mi giro, la punta mi sfiora il fianco e lui quasi mi viene addosso, ma io affondo la lama, gli passo la cotta, gli squarcio il ventre. Ritraggo la spada, quasi non respiro, boccheggio, ma ne arrivano ancora, a destra uno cala la scure, ma lo scudo mi protegge e lo stendo con un fendente fra il collo e la spalla. Ho la testa che mi scoppia, il sudore che goccia sugli occhi, che mi appanna la vista. Una fitta tremenda al braccio e mi cade la spada. Non l’avevo scorto, perché mi era proprio a fianco. Mi copro con lo scudo, ma lui insiste, sto crollando sotto i colpi, ormai mi è talmente vicino che sento il suo respiro ansimante… ma ecco che ho trovato il pugnale, lo estraggo dal fodero e con tutta la residua forza del braccio offeso lo infilo nella sua gola. Lui mi guarda sorpreso, mentre il sangue sgorga a fiotti, alza ancora la spada, sbarra gli occhi e crolla davanti a me”.

Le fanterie combattevano da almeno un’ora, quando i comandanti ritennero opportuno di far intervenire la cavalleria. Il principe Venceslao lasciò andare il falcone appollaiato sul suo pugno sinistro e questo, involandosi, diede il segnale per l’inizio della carica. I suoi cavalieri si mossero a tenaglia, dapprima al trotto, e poi, tese le lunghe lance, spronarono i loro destrieri al galoppo.
L’avversario non fu da meno e, pur disponendo solo di cavalleria leggera, la dispose in modo da costituire una manovra accerchiante. Il minor peso ebbe questa volta facile gioco della lentezza del nemico, investito ai fianchi nel momento in cui non era ancora in grado di dispiegare la sua grande forza d’urto. Nulla poterono le armature e le analoghe protezioni dei destrieri contro i giavellotti che i cavalieri avversari scagliavano con precisione inaudita.
Quella che per il Principe Venceslao doveva essere la mossa conclusiva si rivelò un doloroso e tragico fallimento.
Ovunque si vedevano armati sbalzati da sella, cavalli che precipitavano rovinosamente al suolo, spesso schiacciando chi li montava, in un polverone che come una nebbia aveva invaso tutta la piana. Lo scenario era di una indescrivibile ecatombe: qua un cavaliere che moriva soffocato dal suo sangue, là un altro con conficcato nel petto un giavellotto, ancora in sella, ma già morto. E su tutto sempre le urla, i clamori, le imprecazioni che coprivano i lamenti. Quando esaurito il loro compito i cavalieri avversari si volsero ad attaccare la fanteria, il Principe si allontanò velocemente dal campo, seguito dalla sua scorta, lasciando i suoi uomini alla mercé del nemico.

”La cavalleria! La cavalleria! Ci viene addosso: la partita è persa e forse anche la vita. Se riesco a uscire da questa bolgia scappo, fuggo con la poca forza che mi è ancora rimasta!
Ho recuperato la spada, ma fatico a tenerla in pugno. Una spallata a questo, una spinta a quest’altro, sto uscendo, forse ce la faccio. Ecco, sono fuori, mi butto a rompicollo a sinistra. Ahimè che dolore! Non respiro più: è stato un giavellotto, dritto nella schiena. Non riesco più a muovermi, cado, mi sento mancare.”

Lo scontro era durato in tutto un paio d’ore, un tempo interminabile per chi era rimasto là fino alla fine, e mentre i vincitori alzavano al cielo i loro urrah, il Principe Venceslao già mercanteggiava con il suo avversario la libertà e il mantenimento del suo rango.
Le trattative, come si conveniva fra potenti, si svolgevano come se si stesse discutendo del normale regolamento di un affare: nessuna parola, nessun pensiero per le migliaia di morti che con il loro sangue inzuppavano il terreno della piana. Esseri inferiori erano da vivi, e ancor meno erano ora da morti, senza più nessuna utilità.
Intanto i cerusici s’aggiravano nel carnaio, insieme ai monatti, questi ultimi intenti a recuperare i morti e ad accatastarli, non senza averli prima spogliati di ogni avere, compresi i calzari.

“Mi sto riprendendo, devo essere svenuto; chi c’è lì a un palmo dal mio naso? E’ il viso di un nemico, ferito come me; anche lui non riesce a muoversi e mi fissa. Cerca di dire qualche cosa, mi pare che voglia dell’acqua, ma non ne ho nemmeno per me e la sete sta diventando insopportabile, più ancora del dolore che mi provoca la ferita. Che hai da guardare? Sono un tuo nemico, ma non sono in grado, e non ho nemmeno più voglia di farti male.
Soffri anche tu, vedo. Non guardarmi con quegli occhi imploranti! Non posso aiutarti, nessuno ci può aiutare. Se le ferite non sono fatali, e se passa il cerusico, forse abbiamo una speranza. Non so l’ora, ma il sole mi sembra che vada calando e se non arrivano a soccorrerci prima che faccia buio saremo in ogni caso morti; con le tenebre usciranno i lupi dei boschi, gli spiriti maligni delle piante e ci finiranno loro.”

Nella luce del tramonto si stagliavano le immagini delle cataste su cui venivano distesi i corpi praticamente nudi, tutti con i segni della loro morte: petti squarciati, braccia e gambe divelte, teste mozzate, e su tutto si levava il lamento dei feriti e dei moribondi.

“La ferita mi fa meno male, anche se mi sembra che il sangue esca ancora, ma mi sta venendo freddo, forse  per la sera che si avvicina. Il mio nemico è sempre lì che mi guarda, con la bocca semiaperta che lascia uscire della saliva insanguinata. Ogni tanto sbatte le palpebre, come se cercasse di dirmi qualche cosa.
Adesso ha aperto la bocca, si sforza di emettere un suono, ma esce solo un gorgoglio e i suoi occhi si sono spalancati, guardano fisso, ma non verso di me; ha un’espressione di stupore, ed ecco che gli esce un rantolo, reclina il capo e chiude le palpebre. E’ morto, ma chissà che vedeva.
Il freddo aumenta, si fa sempre più buio, non vedo quasi più niente, nemmeno il suo volto; mi manca l’aria, è tutto nero, no, scorgo una lunga strada bianca che non sembra aver fine.”

I loro corpi furono fra gli ultimi a essere raccolti, finirono sulla stessa catasta e poi accesero i fuochi.
     




Riforma della scuola: come valutare gli insegnanti, di Ferdinando Camon

Riforma della scuola: come valutare gli insegnanti
di Ferdinando Camon


Articolo uscito su “Il Mattino di Padova”, “La Tribuna di Treviso”, “La Nuova Venezia”, “Corriere delle Alpi” di Belluno, “Messaggero Veneto” di Udine, “Il Piccolo” di Trieste, “Il Tirreno” di Livorno, “Nuova Sardegna” di Sassari

4 settembre 2014

Proposta a Renzi sulla valutazione del merito dei docenti





Renzi ha lanciato ieri la sua riforma della scuola. È una grande cosa, perché finalmente un capo del governo mostra di aver ben capito i punti deboli del nostro insegnamento. Abbiamo un corpo insegnante non rinnovato da tanti anni, dunque vecchio, e vecchio oggi significa che non ha la cultura per collegarsi con i giovani. Bene: Renzi promette 150mila nuovi assunti entro il prossimo settembre. Abbiamo un sistema d’entrata nel lavoro d’insegnante farraginoso, senza una vera selezione: bene, con la riforma si entrerà solo per concorso. Abbiamo una marea di supplenti, il che vuol dire insegnamenti spezzettati e non-coerenti nel corso dell’anno. Bene, le supplenze saranno abolite. Abbiamo sempre avuto, dalla nascita della repubblica, una carrierra degli insegnanti fondata sugli scatti d’anzianità: un insegnante guadagna di più man mano che invecchia. Un’assurdità totale, perché man mano che invecchia, invecchia anche la sua cultura, e quindi insegna peggio. È il cancro del nostro sistema scolastico. La promozione per anzianità è l’esclusione della meritocrazia, e un lavoro dove non si premia il merito diventa sempre più mediocre e ripetitivo, e sempre meno redditizio. È per questo che dalle nostre scuole escono diplomati e laureati che non reggono il confronto con i coetanei di Spagna, Francia, Germania. Renzi introduce un sistema lambiccato, sul quale ritorneremo presto, perché non ci convince. Dice così: “Scatti, si cambia: ogni 3 anni 2 professori su 3 avranno in busta paga 60 euro netti al mese in più, grazie ad una carriera che premierà qualità del lavoro in classe, formazione e contributo al miglioramento della scuola”. In realtà se lo scopo è sfornare diplomati di buon livello, il mezzo deve agire su quel livello, migliorarlo, alzarlo, e dunque premiare chi già lo fa. I nostri insegnanti hanno bisogno di aggiornamento, non ogni tanto, ma sempre: l’aggiornamento dev’essere continuo. I ragazzi sono per natura portati a vivere in connessione, la connessione è un modo per vivere la vita insieme, e dunque tutte le scuole devono avere la banda larga e l’wi-fi. Nella scuola bisogna introdurre o potenziare la musica (chi non sa la musica non capisce la poesia e la letteratura) e l’arte: uno studente non può diplomarsi qui da noi con la spolveratina d’arte che riceve oggi, questa è l’Italia, conoscere l’arte qui vuol dire anche avere più possibilità di trovare o creare lavoro. Bisogna stringere un’alleanza fra scuola e lavoro, la Germania lo fa da tanto tempo, chi esce dalla scuola deve già conoscere qualche lavoro e sapere dove trovarlo, o almeno dove cercarlo. Va tutto bene, in questa riforma, ma torniano un attimo al punto capitale, che è l’introduzione della meritocrazia. Qui il problema è che il nostro Stato è cieco dalla nascita, è nato cieco. Se tu vai in una fabbrica, ogni capo-squadra sa chi sono i migliori lavoratori della sua squadra, ma nel mondo della scuola il preside non lo sa e il provveditore non lo sa. Non è che il mezzo per sapere chi sono gli insegnanti migliori non esista, è che non viene applicato. Se un insegnante ha, percentualmente, una quota più alta di licenziati all’esame di fine-corso, e di diplomati con un buon punteggio, quell’insegnante andrebbe distinto anche nel compenso. Le commissioni esterne che esaminano gli studenti alla fine di un ciclo, esaminano anche i loro insegnanti, il programma che hanno svolto, la cultura che hanno trasmesso. Le commissioni si fanno un’idea precisa della scuola da cui i ragazzi provengono. E lo Stato che non ha nessuna idea. Se vuole introdurre il merito, deve aprire gli occhi. Gli studenti sanno quali insegnanti sono bravi, le famiglie lo sanno, è lo Stato che non lo sa. Questo è un sistema obiettivo. Il sistema proposto dalla riforma di Renzi è ancora arbitrario. Poiché Renzi lancia una consultazione pubblica e invita tutti a fargli delle critiche (
matteo@governo.it), qui gli segnalo la mia. E gliela manderò. (fercamon@alice.it)




Eros, di diversi autori



Eros
di AA.VV.
a cura di Aurelio Caliri
Premessa di Aurelio Caliri
In copertina: Salvatore Fiume, Ricordo di Charleston (1983)
Illustrazioni di Salvatore Fiume
Edizioni Arte e Musica
Racconti e poesie
Pagg. 288
ISBN 978- 88 -902424 - 6 - 5
Prezzo € 20,00

Nota: il libro non si trova in libreria, ma può essere richiesto direttamente all’editore ai numeri telefonici:
0931-465616 / 349-1258842
oppure all’indirizzo mail:


Erotismo soft e assai piacevole

Preliminarmente mi corre l’obbligo di una precisazione, dato il tema trattato nei racconti di questa raccolta. Si parla di erotismo e non di pornografia, che sono due cose completamente diverse. Il primo ha a che fare con tutto ciò che riguarda l’amore, e cioè agli stati emotivi fisici e mentali che lo stesso genera; la seconda invece si limita a descrivere il rapporto sessuale esclusivamente nella sua parte materiale, tralasciando volutamente l’aspetto psicologico. Nel primo la fantasia individuale e le allusioni sono predominanti, nella seconda invece è presente solo una carnalità che non lascia spazio a immaginazioni. Inoltre, in campo letterario l’erotismo è arte e al riguardo basti pensare a opere di grande valore come L’amante di Lady Chatterley di Lawrence o a Lolita di Nabokov; la seconda non è assolutamente arte e nel migliore dei casi è una sua degenerazione.
 Ciò premesso, dico subito che Eros è una raccolta di racconti (ma c’è anche qualche poesia) con tema l’erotismo; si tratta di prose garbate, a volte anche venate di comicità che in nessun caso possono offendere il comune senso del pudore, ma che rappresentano la possibilità di trascorrere piacevolmente alcune ore, insomma quello che potrebbe essere definito un sano svago. 
Come capita sempre nelle antologie, ci sono brani che potranno piacere di più o di meno, fermo restando il fatto però che non ce ne sono di basso livello letterario. Per quanto sia una questione di gusti le mie preferenze sono andate ad alcuni ed è di questi che intendo parlare, non potendo per ragioni di tempo e di spazio trattare di tutti. A puro titolo conoscitivo, preciso inoltre che della raccolta fanno parte anche due miei racconti: Prima del buio e Maschi, quest’ultimo tratto dal mio Storie di paese.

Pelo rosso, di Sebastiano Burgaretta: Federica è una bella ragazza, oggetto del desiderio di tutti i maschi del paese, ma lei, che è un po’ civetta, preferisce fra tanti un bonaccione un po’ tonto. Di toni garbati, le descrizioni e le situazioni hanno il pregio di lasciar intendere, sfumando e in tal modo incuriosendo di più.

Mariou, di Aurelio Caliri: un trio di musicisti e il gallismo proprio di noi italiani, pronti a vedere nella straniera la preda facile, ma proprio per questo il cacciatore può diventare a sua volta preda. Ironico e con una vena satirica che lo permea in modo assai gradevole.

Non si fa in piedi, di Pino Caruso: la scoperta del sesso negli adolescenti trattata con mano leggera, con un filo di pudore che arricchisce artisticamente il brano.

Quella sera un poeta cieco, di Matteo Collura: in un mondo del futuro un uomo e una donna che si appartano e che insieme scoprono un pezzo d’antiquariato, un libro, una rivelazione che li appassiona, in un canto all’amore e alla letteratura.

I fratelli Maltese, di Corrado Di Pietro: tratto dal suo romanzo La terra sopra Scibini ha il sapore delle opere di Verga, con una perfetta fusione fra Eros e Thanatos, in una vicenda appunto d’amore e di morte, in cui i protagonisti si lasciano sopraffare dai sensi.

La prima notte di Lucia, di Aurelio Grimaldi: troviamo un’alta letteratura, perché Grimaldi immagina la prima notte di Lucia Mondella e di Renzo Tramaglino, i due protagonisti dei Promessi sposi. La psicologia di entrambi, anche dal punto di vista sessuale, è descritta mirabilmente e credo che Alessandro Manzoni, se potesse leggerlo, non potrebbe che essere d’accordo.

Brani tratti da Mimi Siciliani, di Francesco Lanza: brevi, quasi dei flash, hanno il sapore della scrittura di una volta con una vena satirico-comica che a volte strappa un sorriso e altre provoca una sonora risata.

Il Duetto e la Mini, di Antonio Sparatore: qui l’erotismo come fantasia supera ogni immaginazione, in quanto legato al sogno ed è un bel leggere.

Vanessa per sempre, di Salvo Zappulla e Virginia Foderaro: un classico trio, di due donne e un uomo, ma con un’originalità nell’impostazione che lo impreziosisce e che, per quanto lungo, finisce con il risultare più che gradevole.

Eros, che è impreziosito da numerose illustrazioni che riproducono dei dipinti di Salvatore Fiume, noto pittore siciliano presente con alcuni racconti brevi e qualche poesia (particolarmente bella mi è parsa Mare mio), è una raccolta che nel complesso si presta a essere letta con piacere ed é quindi senz’altro raccomandabile.                                                                                     






Gli Autori

Giuseppe Asaro, Barbara Becheroni, Pippo Bella, Sebastiano Burgaretta, Aurelio Caliri, Pino Caruso, Nicola Colombo, Matteo Collura, Corrado Di Pietro, Salvatore Fiume, Giorgio Giannone, Aurelio Grimaldi, Francesco Lanza, Alessandra Leone, Luigi M. Lombardi Satriani, Giuseppe Mannino, Renzo Montagnoli, Luca Raimondi, Flora Restivo, Angela Rizzo, Vanni Ronsisvalle, Corrado Sofia, Antonio Sparatore, Salvo Zappulla e Virginia Foderaro.



Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 28 settembre 2014

MondoBlog

Le segnalazioni odierne:



giovedì 18 settembre 2014

Pace mai, di Tinti Baldini

                                                                  Foto da web




Pace mai
di Tinti Baldini


Se non sentì
Altro tuo fratello
Se vivi di rancori
E di passato
Spesso e
Letale
Se non temi
La notte
Quella nera
Di coscienza
Smossa
Allora
La terra
Sempre
Scossa
Da falci
E urla
Sarà


La colonna sonora, di Alessandro Marcello,  è assai famosa:




L’amico scomparso, di Renzo Montagnoli


                                                                  Foto da web

                 L’amico scomparso
                     di Renzo Montagnoli    


            
- Ecco, vede, veniva ogni mattina a guardar sorgere il sole. Si accovacciava sulla sabbia, con le spalle rivolte a est, verso l’Alberese, e s’incantava a osservare il promontorio dell’Argentario che prendeva forma poco a poco mentre la luce si diffondeva.
- Diceva qualche cosa, parlava?
- No, stava muto e solo una volta, mentre aggiustavo le reti, l’ho sentito mormorare qualche parola, ma a voce molto bassa, tanto che non ho capito.
Fausto guardava il lontano promontorio dell’Argentario che sembrava emergere dalle acque del Tirreno, una specie di vascello fantasma diafano nella luce del tramonto.
Il vecchio pescatore gli si accostò e gli rivolse nuovamente la parola.
- Uno spettacolo che vedo da anni, ma che non finisce di stupirmi. Non c’è niente di più magico di un tramonto in questo posto.
- Veniva anche a quest’ora?
- No, mai che io mi ricordi. Gli interessava solo l’alba.
- Grazie, per quanto mi ha detto.
Risalì l’arenile nel silenzio ovattato dell’ora, interrotto solo dallo stridio di qualche gabbiano,
e dal rumore della corrente dell’Alberese che lì in mare se ne andava a morire.
Sì, come il fiume che nasce e che poi muore, anche il suo amico Alfredo, lo stimato professore di latino del liceo classico di Mantova, un giorno se n’era andato da casa, senza dire nulla alla moglie. Si erano avviate le ricerche in tutta Italia e poco a poco, sulla base delle segnalazioni, si era ricostruito il percorso che aveva intrapreso.
Una prima tappa di poche ore a Firenze, ove qualcuno si ricordava di quell’uomo non più giovane, magro e quasi scheletrico che era rimasto per più di un’ora estatico di fronte a Palazzo Pitti.
Il suo peregrinare l’aveva portato poi a Bolgheri,
dove aveva passeggiato a lungo su e giù per la stradina che portava alla chiesa di San Guido, sostando più volte a guardare i filari di cipressi.
. Sì, lo ricordo bene – aveva detto il sagrestano.
E quando gli si chiese il perché, questi rispose in modo evasivo, quasi avesse timore di svelare un mistero, ma poi, supplicato, si era deciso a parlare.
- Mi ha detto che qua c’è stato tante volte con la mente, e non con il corpo, e ogni volta gli sembrava di essere più vicino alla fine della strada. Ha biascicato anche i primi versi della poesia, ma poi si è interrotto, mentre le lacrime gli bagnavano le guance. Gli ho chiesto il perché di questa commozione e lui mi ha risposto che era il ritorno.

Si era spostato poi in un piccolo borgo vicino a Siena dove aveva soggiornato, ospite di un convento, per un paio di giorni.
Come ebbe a dire il priore, l’uomo gli era sembrato malato, ma più nell’anima che nel corpo. Eppure, nonostante la brevità del soggiorno la mattina che se n’era andato aveva notato nei suoi occhi, prima sempre malinconici, un accenno di sorriso, una sfumatura di pace.
E quando, accomiatandosi, gli aveva chiesto dove sarebbe andato quello gli aveva risposto che la domanda esatta da porre avrebbe dovuto essere dove si sarebbe fermato.
Una segnalazione successiva lo dava come in cammino lungo le terre senesi e così un contadino, a cui aveva chiesto un’indicazione, lo descrisse.
- Era pallido, si vedeva un uomo sofferente nel fisico, ma i suoi occhi avevano un qualche cosa di indescrivibile, come se vedessero oltre le immagini.

E infine venne la notizia del suo ritrovamento.
Una mattina, un pescatore che già l’aveva notato da un po’ di giorni, l’aveva trovato sulla spiaggia, vicino alle bocche dell’Alberese, prono su se stesso e quando lo aveva osservato meglio si era accorto che era morto.

Fausto trasse di tasca un foglio sgualcito e lesse ancora una volta.
“ Caro Fausto,
tu che sei il mio amico più caro, quando leggerai questa è perché io non ci sarò più.
E’ difficile spiegare perché me ne sono andato, perché un uomo non più giovane come me, sposato, con una casa, con un lavoro, abbia lasciato tutto di colpo. Qualche cosa saprai già, se avrai cercato di capire il motivo di questo mio allontanamento. Il cancro che mi ha colpito non perdona e allora perché vivere in un asettico letto d’ospedale, con cannule infilate ovunque per procrastinare inutilmente la mia vita? Perché vedere il dolore negli occhi di mia moglie, perché ogni giorno cercare di illudermi?
Se è giunto il mio momento voglio che il tutto avvenga con dignità, con rispetto per la mia persona e desidero anche che ci sia un senso nella morte.
Ecco perché sono andato via e sono venuto qua, in questa terra dove ancora c’è un rapporto fra uomo e natura.
In queste albe sul mare ho visto e imparato più di quello che ho osservato e studiato in tanti anni. Per la prima volta mi sono sentito parte del creato, un minuscolo granello di polvere nel disegno perfetto delle cose e così ho accettato la mia fine dopo un percorso che mi ha portato a conoscere me stesso e che solo in questa terra puoi effettuare, solo fra questi borghi che resistono oltre il tempo, solo in quest’atmosfera ancora indenne dall’illusorio dominio dell’uomo e dove tutto è in eterno armonico equilibrio.
Caro Fausto,
un abbraccio.”

Fausto ripiegò il foglio e lo rimise in tasca.
Si avviò all’auto, ma prima di salirvi buttò un’occhiata al lembo di spiaggia dove il vecchio pescatore metodicamente e con calma riparava le reti.
Era prono sulle stesse e, nella mano che riavvolgeva i fili, gli sembrò di vedere quella ferma di Alfredo che stilava la lettera. 



Uccidere in nome di Dio, di Ferdinando Camon


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Uccidere in nome di Dio
di Ferdinando Camon


Quotidiani locali del Gruppo "Espresso"-"Repubblica" 12 agosto 2014


La violenza con cui l'esercito jihadista dell'Isis (l'autoproclamato Stato Islamico, il cosiddetto Califfato) stermina le minoranze religiose deve fare paura a tutti, anche a coloro che non sono presenti nella zona. L'America fa bene a inviare i suoi mezzi, e fa bene a non inviare i suoi uomini. L'Italia fa bene a porsi il problema di come aiutare i perseguitati, fermo restando che non può impegnarsi in un nuovo fronte di guerra. Il capo del Cattolicesimo fa bene a pronunciare in un discorso pubblico, in Piazza San Pietro, le chiare e nobili parole: "Non si porta l'odio in nome di Dio, non si fa la guerra in nome di Dio". Ma ragioniamo: cosa fa l'esercito dell'Isis? E perché? Come possono, i suoi miliziani, attuare questa violenza disumana? Sono cosí diversi, come uomini, da noi cristiani?
Il Papa esprime il pensiero di noi tutti, quando dice che non si può infliggere la violenza e fare la guerra in nome di Dio. Grande Papa, questo. Pratica e predica una religione che tiene conto degli insegnamenti della storia, dell'antropologia, della psicologia, delle scienze. Ma è sempre stato così, il Cristianesimo? O ci sono state epoche in cui, purtroppo, anche la nostra religione ha torturato e perseguitato e ucciso, in nome delle sue verità? Ragionare su questo, cioè su di noi, cosa siamo stati, cosa abbiamo fatto, e come ci è stato possibile, può aiutarci a capire cosa fanno adesso gli altri, come gli sia possibile.
Cosa fanno? Dove arrivano, i jihadisti annunciano: "Questo è un territorio islamico, chi non è islamico deve andarsene subito o convertirsi all'Islam o pagare una tassa". Pagare la tassa pare che non serva a niente, se non a rivelarsi come non-islamico e quindi esporsi alle rappresaglie e alle persecuzioni. Le case dei non-islamici, scoperti o auto-rivelatisi, vengono contrassegnate con una scritta che equivale di fatto a un sequestro. Giornali e televisioni raccontano, esibendo testimonianze, che a centinaia o mezze migliaia i non islamici vengono radunati in fosse comuni, e qui uccisi o sepolti vivi. I miliziani, vestiti di nero, avanzano in disordine, non sono un esercito ma squadroni, armati di kalahsnikov ma anche di armi di reparto, inseguono gli sbandati, sparano agli uomini e alle donne, catturano le ragazze. E tutta questa violenza nel nome della fede. Scrivo questa parola, "fede", e mi balza alla mente l'espressione "auto da fè. "Auto da fè" significa in spagnolo "atto di fede". Indicava i roghi in cui venivano bruciati pubblicamente gli eretici e i disobbedienti alla Chiesa Cattolica. E questa doppia valenza perché durante i roghi il popolo, che assisteva numeroso, mentre il condannato bruciava e urlava, il popolo, dicevo, recitava ad alta voce l'Atto di Fede. Era l'Atto di Fede, la somma delle verità in cui il popolo dichiarava di credere, che rendeva possibile accendere i roghi e assistere alla morte per fuoco. Ed è il grido Allah-u-Akbar che rende possibile uccidere o seppellire vivi i non-islamici da parte dei miliziani dell'Isis. Da una parte ci sono uomini che muoiono urlando di dolore, dall'altra parte c'è un Dio al quale in questo modo tu rendi onore. Quando l'uomo vale meno della tua idea, quell'uomo non vale niente. Una ragazzina di Al-Qaida che stava per farsi saltare in aria in un attacco suicida ha registrato un video da lasciare alla madre come ricordo: "Mamma, non piangere, non vedo l'ora di bussare alla porta di Allah con i crani degli infedeli". Se le nostre teste d'infedeli servono per picchiare alla porta di Allah e farsela aprire, allora la nostra vita ha un valore infimo, ucciderci non è un crimine contro l'umanità, che l'assassino dovrà scontare, ma un atto con cui l'assassino raggiunge la propria santificazione. Dopo averci uccisi, l'assassino è a posto con la coscienza più di prima. E così questi assassini e violentatori e stragisti dell'Isis. Dov'è la deviazione di loro oggi, e di noi ieri? L'ho già scritto, è qui: nel ritenere che Dio è il Bene (una cosa è buona se piace a Dio) non che il Bene è Dio (una cosa piace a Dio se è buona). I combattenti dell'Isis, cioè del Califfato autoproclamato, ci metteranno un secolo a correggere questo errore. Nessuna meraviglia, ci abbiamo messo secoli anche noi. La formula che "una cosa è buona se piace a Dio" è la fonte dei grandi Mali della Storia. Perché se il tuo Dio è Hitler o Stalin o Franco o Mussolini, allora, per compiacerlo, fai tutte le porcherie che noi europei ben conosciamo. Siamo ancora qui che espiamo, agli occhi del mondo. I miliziani dell'Isissono nella fase della colpa, l'espiazione comincerà domani. L'augurio è che il domani venga presto.




Grande guerra, piccoli generali, di Lorenzo Del Boca



Grande guerra, piccoli generali
di Lorenzo Del Boca
Edizioni Utet
Saggistica storica
Pagg. 223
ISBN 9788802077086
Prezzo € 14,00



Nel primo centenario



Quest’anno si commemora il primo centenario dell’inizio della prima guerra mondiale, più conosciuta anche come Grande Guerra, grande per il numero delle nazioni partecipanti e grande anche per il numero delle perdite (all’incirca ben 24 milioni). Il tutto cominciò il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’impero austro-ungarico al regno di Serbia; a ruota, per il gioco delle alleanze, presero le armi la Francia, il Regno Unito, la Russia, la Germania e l’impero ottomano e negli anni successivi l’Italia, la Bulgaria, la Romania e gli Stati Uniti (solo per citare i più noti). All’epoca eravamo vincolati alla Triplice Alleanza, costituita appunto da noi, dalla Germania e dall’Austria, ma, con il nostro consueto voltagabbana, dopo segrete trattative, passammo di campo e fu così che il 24 maggio 1915 dichiarammo guerra alla sola Austria. Come al solito il nostro esercito non era pronto, né per i mezzi, spesso obsoleti e addirittura mancanti, né, soprattutto, per l’impreparazione dei comandanti, gente che ragionava ancora come se si trovasse non nel XX secolo, ma in epoca romana. La mobilitazione avvenne con estrema lentezza, non c’era e non ci fu mai un piano strategico, i tentennamenti erano all’ordine del giorno e fu così che perdemmo un’occasione d’oro nel primo mese di belligeranza, perché una decisa nostra puntata verso Dobbiaco non avrebbe potuto essere fermata, stante il velo di truppe austriache presenti, mentre il grosso dell’esercito imperiale era impegnato contro la Russia.
Il libro di Lorenzo Del Boca ripercorre il tragitto di un conflitto orribile, impietoso, in cui i nostri soldati, pur distinguendosi per alto senso del dovere e facendosi in pratica massacrare, si presero costantemente le colpe delle sconfitte, colpe che invece erano dei Comandi Superiori e in primis del Comandante in capo Luigi Cadorna, capace di dissanguare un paese nelle tante battaglie dell’Isonzo adottando la medesima tattica dell’attacco frontale. Lui, inoltre, insieme a Badoglio e a qualcun altro, è l’unico responsabile della disfatta di Caporetto, che volle tuttavia imputare alla vigliaccheria dei soldati.
Ci sono pagine e pagine che parlano della vita in trincea, dell’assenza della benché minima visione strategica e tattica,  delle punizioni, spesso immotivate, dei poveri fantaccini, delle fucilazioni gratuite, delle decimazioni, tanto che verrebbe da pensare che il nemico non era quello che ci fronteggiava, bensì chi decideva scelleratamente nelle retrovie. A Cadorna, poi rimosso dall’incarico su pressioni degli alleati e sostituito dal generale Diaz, intitolarono vie e piazze, e ancora ce n’è qualcuna che porta il suo nome; dico solo che a lasciare intestato qualche cosa a questo sciagurato è criminale, perché era meritevole di un solo trattamento: degradazione pubblica e fucilazione alla schiena.
Insomma, la nostra tradizione che dall’Unità d’Italia ci vede sconfitti in una guerra sembrava confermata anche nella Prima Guerra Mondiale senza una battaglia vinta, a meno che non si voglia considerare una vittoria la nostra eroica resistenza sul Piave, mirabile esempio di sacrificio di quegli stessi soldati che Cadorna aveva tacciato di vigliaccheria. Poi venne Vittorio Veneto, ma più che una battaglia fu l’inseguimento delle truppe nemiche, che stremate e consunte, si ritiravano sulle originarie posizioni.
Si dice che la storia insegna e forse è vero, ma si vede che l’Italia è una cattiva scolara, perché altrimenti non vi sarebbe stata la nostra sciagurata partecipazione alla seconda guerra mondiale.
Non siamo un popolo di guerrieri (per fortuna), ma sappiamo fare il nostro dovere; quello che ci manca sono dei capi capaci e onesti, senza i quali continueremo a essere, nel contesto mondiale degli stati, o gli ultimi dei primi, o i primi degli ultimi, insomma di una mediocrità che non riusciamo a toglierci di dosso.
Da leggere. 


Lorenzo Del Boca è giornalista professionista. Ha sviluppato la sua carriera presso leditrice La Stampa, iniziando a scrivere sulle pagine provinciali di Novara per diventarne poi capocronista, inviato speciale ed editorialista. Nel 1996 è stato eletto presidente della Federazione Nazionale della Stampa e, dal 2001, è il presidente dellOrdine Nazionale dei Giornalisti. Polemista, al di fuori delle convenzioni, talvolta controcorrente, è autore di libri e di saggi che presentano laltra storia del Risorgimento e dell’Età Contemporanea.



Recensione di Renzo Montagnoli