lunedì 8 dicembre 2014

Natale 2014 - I racconti



Angeli, angiolesse, asini e Cupido
di Domenica Luise


C'era una volta, più di duemila anni fa, un'asina bianca con gli occhi celesti e lunghe ciglia ricurve anche senza rimmel né kajal né niente. Era snella, ma con una bella pancia ricurva com'è di moda fra gli asini e, se non fosse stato per quel colore o non colore che fosse, avrebbe avuto  grande successo nella sua razza. Al solo vederla da lontano i maschi si strofinavano gli occhi con uno zoccolo e dicevano che li abbagliava, le femmine ridevano e si lisciavano il pelo grigio l'una con l'altra misurando l'altezza delle orecchie (vincevano le più lunghe) e la potenza del raglio (vinceva il più rumoroso e prolungato). Anche l'asina bianca si presentò per partecipare ai concorsi di bellezza, ma tutti la derisero e arrivarono a dirle che, piuttosto, si mettesse in fila all'ovile con quelle sceme delle pecore perché era l'unico posto degno di lei.
L'asina allora andò da mamma e papà a chiedere il permesso di fare la tintura grigia per diventare bella come tutti gli altri, <Statti come sei e pensa piuttosto a studiare perché sei un'asina> risposero quelli severi come al loro solito.
Allora Bianchina fece un fagotto delle sue cose in uno strofinaccio che legò in cima a un bastone com'è tradizione delle favole, se l'appoggiò sulla spalla e scappò di tana, dentro ci aveva messo la bottiglia con l'acqua, una pagnottella, la saponetta e lo spazzolino da denti, la maglietta della salute, un buon numero di mutandine e il suo computer portatile. Cammina, cammina, poco dopo ebbe fame e mangiò il pane, la notte ebbe freddo e indossò
la maglietta della salute, l'indomani mattina fece toletta in un ruscello dove si lavò con la saponetta (che s'intitolava Pelo d'asino e assicurava lucentezza  e idratazione perfette dagli zoccoli alla punta delle orecchie) e strofinò energicamente i denti col dentifricio (il cui nome era Zanne d'asino e prometteva il massimo biancore e protezione dalle carie che anche gli asini hanno).
Stillante (perché aveva dimenticato un asciugamano) e profumata si guardò intorno e vide che passavano due signori, un uomo e una donna, con un asino bellissimo, grigio come gli asini vogliono e perfino sfumato di nero e antracite qua e là, Bianchina rimase di stucco e Cupido, in fretta, le conficcò un dardo rovente nel cuore, ma così rovente che da allora non sarebbe guarita mai più, lo sentiva.
La signora padrona dell'asino disse qualcosa all'orecchio del marito, egli subito l'aiutò per farla salire in groppa all'animale, che la portò come fosse una piuma, tanto era forte, alto, addirittura solenne. Bianchina li seguiva dopo avere abbandonato per terra il suo fagotto, compreso il computer portatile al quale teneva tanto.
E venne una notte serena, attraversata da una stella con la coda che si avvicinava sempre più. Chi cantava? Erano voci umane o sembravano tali. E chi riempiva il cielo di voli e strani movimenti? L'uomo aveva acceso una lucerna e adesso parlava a voce quasi alta, comunque udibile:
<Come ti senti?>.
<Benissimo> rispondeva lei.
<Guarda, dietro di noi c'è un asino senza padrone, ci segue da stamattina, si sarà sperduto, povera bestia>.
<Non preoccuparti, caro>.
<Qui avanti c'è una stalla, è meglio fermarci, sarai stanca>.
<Sì, dormirei volentieri un pochino>.
<Maria, mi dispiace che non ci fosse posto in nessun albergo>.
Lei ridacchiò: <In realtà quelli hanno pensato che non avessimo denaro e poi, una donna incinta grossa può partorire e dare dei fastidi>.
<E tu lo trovi divertente?>.
<Via, Giuseppe, Dio saprà pure come provvedere a noi due> fece lei.
L'asina bianca origliava interessatissima. La cometa sembrò sospendersi proprio sulla stalla.
<Dicono che le comete portino sfortuna>.
<Non mi diventerai pure superstizioso>.
<Perché, cos'altro sono?>.
<Impaziente, talora rabbioso, sempre affamato, brontolone> elencò lei.
<Beata te che non hai il peccato originale> rimbeccò lui.
Qui il loro asino ragliò con voce virile e talmente stentorea che la povera Bianchina sentì rimescolarsi tutta la ferita d'amore e la freccia di Cupido che scendeva e risaliva dal cuore alle viscere e viceversa. Dunque questo è il dolce amore di cui tutti parlano, pensò.
Cupido, mimetizzato tra angeli, angioletti e angiolesse, preparò il secondo dardo che non fallì e il raglio di soddisfazione di lui
divenne un gemito appena la vide. Puntò le zampe, si fermò e l'aspettò.
<Ma> disse Giuseppe contrariato.
<Va tutto bene, caro> fece Maria.
<Signorina> sussurrò l'asino appena Bianchina gli arrivò a tiro, <dal primo momento che l'ho vista il mio cuore ha palpitato d'amore>.
<Pure io, pure io> balbettò lei in un raglio tremulo, <ma non si è accorto che sono candida come la neve invece che grigia?>.
<Sei una rarità bellissima> rispose galante lui, e le si affiancò strusciandole il fianco.Bianchina divenne di brace, ma non si scostò.
Intanto, nell'alto dei cieli, un'angiolessa in tunica di voile blu e lustrini all'ultima moda puntava il dito contro Cupido:
<Tu non sei un angelo cattolico e nemmeno cristiano> disse con tono alto e fermo.
<È anch'egli una mia creatura amata> rispose solennemente la voce del Padre.

Conclusione

<Dormi tranquilla> disse l'asino a Bianchina dopo averle preparato, a colpi di zampe, una specie di conca nella paglia, <è tardi, fa freddo e sei stanca, ne parliamo domani mattina>.
<Sono dispiaciuta per i miei genitori, saranno preoccupati, non dovevo scappare di casa>.
<Vedrai che tutto si risolverà>.
La svegliò un vagito che sembrava lo squillo di una tromba, era nato il Bambino e le voci di angeli e angiolesse, Cupido compreso, gli facevano il coro. La luce della cometa era tanto brillante che Giuseppe spense la sua lampada.
<Così risparmiamo l'olio> disse a Maria.
Intanto arrivarono i pastori coi loro regali: la copertina, il pane, la ricotta, la bottiglia di vino e il brodo di pollo per la puerpera, alcuni portavano mazzetti di verdura selvatica poiché non avevano altro.
Tra tutte le voci Bianchina sentì anche quelle di papà e mamma:
<Cercavamo la nostra bambina, la luce della stella ci ha fatto trovare le sue cose>.
<Il computer, il dentifricio, lo spazzolino da denti>.
<La bottiglina vuota dell'acqua>.
<È scappata perché siamo stati troppo severi>.
<Coi figli, comunque fai, sbagli sempre>.
Bianchina si alzò di furia: <Mamma, papà, perdonatemi> ragliò con un acuto che quasi sembrava Maria Callas nella Tosca.
<Ci siamo fidanzati> tagliò corto l'asino mettendole una zampa sulla spalla come a dire: questa ragazza è mia.


Cena di Natale
di Adriana Pedicini



Il camino ardeva in cucina scoppiettando. I bambini correvano e giocavano a nascondino nelle fredde stanze dell’ampia casa per tenere a freno i gorgoglii dello stomaco, a mala pena riscaldato il mattino con pizzette con le acciughe salate e frittelle di cavolfiore. Il digiuno doveva essere rispettato anche dai più piccoli, in compenso la cena di Natale sarebbe stata più gradita e più apprezzata. Cena di magro, anche quella. Baccalà in bianco, condito con olive, pezzetti di peperoni sottaceto, prezzemolo, aglio e abbondante olio. Una vera e propria prelibatezza il baccalà fritto in abbondante olio bollente, croccante fuori e morbidissimo e gustosissimo dentro. Ancora peperoni imbottiti di mollica di pane, prezzemolo, acciughe o in alternativa con mollica di pane imbevuta di mosto per chi non adorava le alici. Gli spaghetti col sugo di vongole, pezzi di anguilla al forno o arrostita chiudevano la prima parte della cena. Le seconde mense era tutto un brulicare sulla tavola di castagne secche e morbide, noci, mandorle, confettini colorati, torroni e torroncini morbidi, duri fino a spaccare i denti, croccante e mandorle pralinate: una vera cuccagna per i piccoli, anche per riempire lo stomaco spesso riluttante verso le pietanze dei grandi.
Stranamente il cielo era di un intenso azzurro che si confondeva col biancore dei monti lontani. Nei prati qualche rada macchia bianca di neve recente.  Faceva freddo, ma il sole pungeva gli occhi, già segno di primavera.
I piccoli decisero di andare alla chiesa, la piccola chiesa del paese. In fondo il gran presepe. Poggiati alla balaustra due freddolosi pastori nelle ampie giacche di bianchi velli, ansimanti alle cornamuse. Suono dolce che tenne estasiati i bambini per qualche minuto. Poi via a sistemare i pastorelli in bilico su monti di sughero e muschio. Alla luce rossastra delle candeline, nella capanna di cartone sorrideva il biondo Bambino e all’entrata gli zampognari con le labbra attaccate alle cornamuse mute. Nel cielo blu di carta velina il tremolare delle stelline di latta d’argento.
L’ora cominciò a farsi tarda. Una nebbia sottile incominciò ad avvolgere la massa nera degli alberi accanto alla sagoma grigia della chiesa senza lume. Tenebre sempre più nere coprivano le case del paesello e dalle finestre lontane vibravano lumicini come stelle in una notte cupa. Si intuivano voci dolci, tenui, accorate, di uomini e donne protesi nel mistero.
Toni non arrivava. Nessuno sapeva il motivo di tanto ritardo. Aveva fatto sapere tramite cartolina postale dagli Abruzzi che sarebbe arrivato, neve permettendo, nel primo pomeriggio della vigilia di Natale.
Con la voce tremante di pianto represso la nonna radunò i piccoli intorno a sé e avvio la recitazione di antiche giaculatorie per propiziare l’arrivo del caro figlio. Il più piccolo dei nipotini, come un convolvolo su vecchio muro coperto di muschio oscuro, affondò il minuscolo viso tra le pieghe disfatte sul grembo della vecchia come a cercare il molle tepore di un seno. Col viso quasi esangue, i capelli bianchi fuori dal fazzolettone che le copriva il capo la donna si chinò a pronunciare nel soffio lievissimo d’un bacio la parola più dolce: figlio mio! Il piccolo subito si aggrappò con la manina sottile al suo dito, la guardò in volto, vide che non era quello della mamma sua e subito ritrasse la manina, mentre già il caldo umidore delle lacrime aveva bagnato il ricamo di venuzze azzurre sul piccolo pugno. Gli occhi del piccolo divennero allora per il pianto come lembi di cielo gonfi di pioggia scrosciante e come un fiordaliso sferzato dal vento si dilegua lieve nell’azzurro del cielo, così il bimbo riparò di corsa dalla mamma.
Sospiri frammezzati a singhiozzi, tristezza sui volti, parole accorate era tutto quello che preludiava a una serata tristissima. Il capo ricciuto dei bimbi più piccoli già ciondolava dal sonno, inutilmente le mamme tentavano di tenerli desti con il gioco della tombola o con la promessa dell’arrivo a notte fonda del buon vecchietto che in cambio di castagne e fichi secchi avrebbe lasciato qualche dono.
Con quanta ansia tutti a casa avevano atteso la sera e quanto a lungo lo sguardo di Toni aveva errato in cielo per la lunga distanza.
Solo il fremito delle stelle gli aveva tenuto compagnia e il desiderio rimasto nel cuore di giungere in tempo per celebrare il Natale, dischiusosi ormai alla speranza. Mancavano solo pochi chilometri e si sarebbe tuffato tra i suoi con la passione di un amante troppo a lungo tenuto lontano dalla donna amata. Tutto quello che la vita gli aveva dato sotto forma di dolore l’avrebbe tuffato nella nebbia opaca della malinconia e del ricordo. Ormai dal suo cuore zampillava gioia pura come una vena limpida dalla nascosta roccia. E nella sua voce rotta tra i sassi e affogata tra l’erba, vi era il riso della gioia anche se nel fondo muto dell’animo i lineamenti scomposti del volto dei compagni caduti grondavano il pianto di un sogno ormai morto.
L’ombra cupa del fogliame sembrava tremolare di voci conosciute. Il silenzio pauroso ed infinito del lungo viaggio era diventato dolce poesia, ora che la sua casa appariva piccina in lontananza, nel cielo ovattato di nebbia, al tremulo canto di rari uccelli notturni. Man mano, passo dopo passo, sempre più grande la casa allo sguardo e sempre più gonfio il cuore di gioia. Non gli mancò la voglia di scherzare. Girava carponi intorno alla casa, lo seguiva pian piano stupito, da un salto all’altro, dalla finestra il viso di un bimbetto il quale corse ad avvisare che era arrivato il vecchietto dei doni. Tutti accorsero al portone: urla, grida di gioia, lacrime, abbracci. Toni era finalmente arrivato. Il vecchietto sarebbe arrivato più tardi con i doni. Intanto ebbe inizio la cena.

I conigli del re
di Miriam Ballerini



Tanto tempo fa esisteva un paese che si chiamava Pratorosa, perché quando alla sera scendeva il tramonto, i tanti prati ben curati rispecchiavano il colore rosso del cielo.
   Il re di Pratorosa, re Giuliano, era un omone con una grossa pancia, non molto alto e con una folta barba grigia che gli scendeva fino al petto. Era un uomo buono, tutti i suoi sudditi dicevano che era proprio come i suoi animali preferiti, i conigli: mite, goloso e bello paffuto!
   Nella stalla il re teneva un centinaio di conigli, accuditi dal giovane Geremia, un ragazzino alto e snello, coi capelli tagliati a spazzola, tanto corti da sembrare che fosse passato sotto a un tosaerba. Gli animali erano di tutte le razze e le grandezze: da quelli nani, agli ariete che avevano le orecchie lunghe, piegate verso il basso, a quelli di sei chili con lunghe orecchie dritte sul capo.
   Tutto procedeva bene nel regno di Pratorosa: gli uomini lavoravano, le donne accudivano le case e i bambini; tutti erano in sintonia con la natura e gli animali che, a quei tempi – questo non ci deve stupire – parlavano la nostra lingua.
   Così, quando il gallo si era inghiottito per sbaglio una grossa pietra, scambiandola per un boccone di pane, era corso da Geremia e, con un filo di voce, aveva sussurrato: «Aiuto! Mi sto strozzando!»
   Geremia lo aveva afferrato per il collo, con poche pacche sulla schiena la pietra era volata fuori dal becco dell’animale, cadendo a terra in mezzo all’aia.
   Ancora le giovani galline andavano raccontando del gesto eroico dello stalliere.
   Dicevamo… tutto procedeva bene, fino a quando, nel paese accanto, a Pratosecco, dove la pioggia scarseggiava, venne ad abitarci il signor Bartolomeo.
   Un uomo che nessuno sapeva da dove arrivasse, se avesse famiglia o parenti. Vestiva sempre con una tunica marrone che lo confondeva con la terra dei viottoli, dandogli un aspetto anonimo. In testa non aveva nemmeno un capello, in compenso le sopracciglia erano folte e nere e, chiunque lo incontrasse, di lui ricordava solo quel particolare: due sopracciglia che parevano le setole di due spazzolini da denti! Solo che non erano bianche, ma nere.
   Bartolomeo, non si sa come, visto che non parlava con nessuno, venne a conoscenza della conigliera del re.
   Tutti gli abitanti di Pratorosa non mangiavano carne. Come avrebbero potuto mangiare qualcuno col quale avevano scambiato poco prima due parole?!
   Invece, il signor Bartolomeo adorava nutrirsi di conigli.
   Una zanzara che lo stava pungendo lo ascoltò dire, mentre parlava da solo, che avrebbe rubato qualche coniglio al re.
   La zanzara lo disse a una mosca e… si sa come vanno queste cose, le chiacchiere viaggiarono di bocca in bocca, fino ad arrivare alle orecchie pelose di Cleromildo, un cavallo bianco, accudito dal giovane Geremia.
   Lo scompiglio che si generò nella conigliera! Tutti pensavano alla fuga, c’era già chi si stava preparando a scavare dei cunicoli per nascondersi.
   Geremia zittì tutti quanti: «Silenzio! Non facciamoci prendere dal panico!»
   Cleromildo disse di avere una soluzione: «Nella foresta dalle foglie tremanti esiste il fiore amaro. Chi lo assaggia non può essere mangiato, perché la sua carne diventa talmente amara da non piacere più a nessuno!»
   Detto, fatto! Geremia montò in sella al cavallo e partirono al galoppo alla ricerca del fiore amaro.
   Anche il signor Bartolomeo aveva le sue fonti, una cornacchia pettegola spifferò il piano di Geremia.
   Bartolomeo, che conosceva la magia, fece precipitare sulla foresta un acquazzone tremendo. Geremia e il suo cavallo, per fortuna, trovarono riparo in una grotta, ospitati da una colonia di pipistrelli.
   Poi, fu la volta di un tornado, che fece ondeggiare gli alberi come in una ola allo stadio.
   Geremia legò sé stesso e il cavallo a una grossa sequoia, così che il vento non riuscì a spazzarli via.
   A questo punto, il signor Bartolomeo pensò di avere spaventato abbastanza il ragazzo, in fondo era solo un povero stalliere. Di sicuro sarebbe tornato sui suoi passi.
   Ma Geremia era un ragazzo coraggioso, affezionato ai conigli. Trovò il fiore amaro: un fiore che assomigliava a una grossa margherita, ma col centro rosso acceso, anziché giallo.
   Lo portò ai conigli che ne mangiarono un petalo ciascuno.
   Quando il signor Bartolomeo venne di notte per catturarne qualcuno, vide che gli animali avevano il pelo fosforescente, segno che si erano nutriti del fiore amaro, perciò erano immangiabili.
   Arrabbiato se ne andò, scalciando e alzando i pugni al cielo. Nel fare questo, non guardò dove metteva i piedi e cadde lungo e disteso in una pozza di fango, sporcandosi tutto!
   Geremia venne chiamato a corte. Anche il re Giuliano aveva chi gli raccontava le ultime novità.
   Donò per ricompensa cinquanta monete d’oro allo stalliere, per avere salvato i suoi adorati conigli.
   Geremia s’inchinò, ringraziandolo.
   La sua prima spesa furono un mazzo di carote per il suo fidato Cleromildo.

Il diamante di Meri
di Eleonora Bernardi



Molti pensano che il giorno più triste dell’anno sia il 31 dicembre perché l’anno “muore”e porta con sé un altro pezzo della nostra vita.
Nessuno dovrebbe restare solo alla fine dell’anno, così tra famigliari e amici ci si organizza alla meno peggio, mentre le associazioni dei volontari predispongono una serata piacevole anche per chi “solo” è davvero, cioè tutti i giorni della sua vita.
Meri è una “barbona”, oggi quelli come lei si chiamano però senzatetto… Spesso si sente dire che la loro è stata una scelta di vita. Meri però non aveva scelto.
Il 31 dicembre l’aveva trascorso al caldo nell’ampio capanno della Comunità, una delle tante, e aveva mangiato di tutto senza esagerare, per paura di sentirsi male.
Aveva imparato in fretta le regole, non perché fosse più furba degli altri, solo grazie alla sua vita “di prima”, quella che tutti avevano avuto, della sua però non amava parlare, perché a prescindere da quello che chiunque era stato, al momento era lì, nello stanzone addobbato e a guardarsi intorno le sembrava che fossero, lei e gli altri, proprio tutti uguali.
Meri aveva imparato che la Grazia di Dio non si deve sprecare, così tutto quello che non mangiava finiva nelle tasche del suo informe giaccone. L’indomani le sarebbe stato utile, visto che per il nuovo anno aveva in mente un progetto.
Il primo dell’anno era per lei il giorno più triste di tutti, sapeva che nulla nella sua vita sarebbe cambiato e questo le rendeva amaro ogni segno di gioia, ogni parvenza di letizia.
Attese la mezzanotte… poi nella confusione del tripudio si allontanò con discrezione per attraversare la città fino a raggiungere, a notte fonda, il suo angolo tranquillo, trascinando con sé tutte le sue cose su una carrozzina sgangherata.
A poco a poco le luci e i rumori della città si spensero e Meri chiuse gli occhi. Alle prime luci dell’alba si diresse con passo spedito verso la stazione, quella dei treni che andavano al mare.
Le strade erano deserte e silenziose. I negozi chiusi e le serrande delle case abbassate…la gente dormiva per recuperare il sonno perduto, per smaltire la festa, per assaporare il dolce tepore dei letti.
Aspettò il primo treno poi salì su un vagone vuoto, tutto per lei e si sentì una gran signora. Lì nessuno  la guardava con aria schifata…nessuno arricciava il naso per allontanarsi con discrezione…Che bello!!!
Eppure avrebbe voluto che qualcuno le avesse chiesto dove fosse diretta perché avrebbe potuto rispondere: -Vado al mare!
E poi avrebbe aggiunto che lei al mare ci aveva abitato “prima”, quando era una persona rispettabile e felice, ma era successo tanto tempo fa…
Al mare aveva lasciato tutto quello per cui valeva vivere: giovinezza, dignità, amore, gioia, speranza… e dolore, insomma un’altra Meri che continuava a vivere solo dentro di lei.
Arrivò nel suo antico quartiere e si sentì emozionata -: così dovette sentirsi il primo uomo che sbarcò sulla luna! Pensò guardandosi intorno…
Ovunque silenzio e i resti di una notte di baldoria, ma per Lei andava bene, percorreva le strade scoprendo ad ogni passo qualcosa di nuovo, palazzi, giardini, tanti negozi che prima non c’erano, ma anche cose che avrebbero dovuto esserci…Che fine avevano fatto?
- Possibile che sia passato tanto tempo? - Lei era lì e tutto era diverso…era tornata per ritrovarsi e si sentiva fuori posto, come una straniera capitata per caso.
Rallentò il passo e abbassò lo sguardo a cercare, in modo ossessivo, qualcosa da aggiungere al suo carico…il carrozzino era già pieno di tutto quello che le serviva, come una piccola casa nella quale non entra più nulla, ma l’abitudine, si sa, è una brutta cosa!
Il vento aveva ammucchiato le foglie sotto i palazzi, insieme alle buste di plastica e alle cose leggere, fili dorati e carte augurali, tutti sfuggiti ai cassonetti stracarichi di rifiuti.
Si strinse addosso il giaccone pensando che ancora un po’ e avrebbe dovuto riprendere la strada del ritorno…non era arrivata al mare, sarebbe tornata un altro giorno, non se la sentiva proprio di scoprire altre brutte cose!!
Ad un tratto vide un bagliore che si faceva strada in un mucchio di foglie, subito allungò la mano e strinse nel pugno quello che sembrava un grosso diamante…sapeva che era solo un frammento di vetro, ma al sole, sul palmo della sua mano emetteva luci di mille colori, era bellissimo, per niente tagliente, come se qualcuno l’avesse levigato solo per lei.
Decise che l’avrebbe tenuto sempre con sé, come un ricordo, o come un portafortuna.
Tornò in città, al suo solito posto, prima dell’arrivo dei volontari che distribuivano il latte caldo, gli altri erano già tutti pronti, in attesa.
Lei moriva dalla voglia di raccontare a qualcuno quello che aveva fatto, del diamante però non avrebbe detto niente…
Si rese conto che nessuno si era accorto di lei, come se fosse stata sempre lì e la sera prima non se ne fosse andata alla chetichella.
Nadia però la teneva d’occhio.
Era giovane Nadia, e bella, una nuova volontaria che parlava anche quando nessuno le rispondeva.
- Ciao Meri! Che hai combinato ieri sera?
- Ieri niente, ma oggi…oggi sono stata al mare e ho trovato un diamante! Non dirlo a nessuno, però!
Nadia spalancò gli occhi per la sorpresa, non chiese di vedere il “diamante”, disse soltanto:-Sono contenta per te! Buon anno, Meri!

La sedia
di Aurelio Caliri


    Quando avevo poco più di quattro anni sognavo di possedere una sedia tutta mia, da sistemare nella “stanza” ai piedi del mio lettino e su cui riporre i miei vestiti e le mie cose. Una sera, la vigilia di Natale, andai insieme alla mia famiglia ad assistere in chiesa alla funzione religiosa, che si concludeva a mezzanotte con la nascita del Bambino Gesù.
    Pagammo due lire ciascuno per avere una sedia e io, per tutto il tempo della messa, non pensai ad altro che alla sedia, che era mia, che l’avevo comprata con i miei soldi e che avrei potuto portarmela a casa non appena si fosse conclusa la funzione. Finalmente, pensavo, ne possedevo una, quella su cui sedevo era proprio la “mia”, e quando capii che era l’ora di andare via, riuscii a fatica a sollevarla e mi avviai verso l’uscita.
    Fui bloccato dal sagrestano che bruscamente  me la tolse dalle mani. Prima lo guardai sorpreso, poi reclamai piangendo la mia sedia perché – dicevo – l’avevo comprata coi miei soldi. Sopraggiunsero intanto i miei familiari i quali, ridendo, cercavano di farmi capire che l’avevamo presa a noleggio, che poi si doveva restituire. Io continuavo a piangere, gridando che non era vero, che l’avevo comprata.
    Tutta la gente intorno rideva: fu una sera di Natale allietata da questa piccola nota comica.
    Per me invece fu triste e deludente

L'albero di Natale
di Hans Christian Andersen



Lontano, lontano, dentro una foresta, cresceva un abete. Il sole gli sorrideva, il venticello scherzava fra i suoi rami, ma l'abete non era felice.
Come son piccino in confronto agli abeti che mi stanno d'attorno! Oh, se potessi anch'io elevarmi su su, come loro, fino a toccare il cielo e avere dei grandi rami tra i quali gli uccelli farebbero il nido!
In autunno, venne il taglialegna e abbattè alcuni fra gli alberi più belli e più forti, che vennero collocati su carri e trasportati lontano. Dove? Il nostro abete era curioso di saperlo.
Oh, se potessi girare il mondo! esclamò l'abete.
Contèntati della libertà della foresta e del bene che ti vogliamo noi dissero l'aria e i raggi del sole.
Ma l'abete non si contentava.
Quando s'arrivò a Natale, fu uno dei primi abeti che caddero sotto la scure. E quando cadde al suolo con un gemito di dolore, un'angoscia lo prese al pensiero di abbandonare, per sempre, quel bell'angolo di foresta e gli alberi che gli erano stati compagni.
Quando si riebbe, si trovò in un vasto ed elegante salotto, fra mobili e ninnoli graziosi. L 'avevano piantato in un grande mastello ripieno di sabbia, ricoperto di un drappo verde e collocato sopra un tappeto intessuto di vari colori.
Infine, una signora si mise ad adornarlo. Ed ecco, in breve, rami ricoprirsi di reti celle piene di confetti, di mele e noci dorate, di bambole e fantocci. Candeline di cera bianche, rosse, turchine furono collocate dappertutto, e in cima all'albero fu posta una grande stella dorata.
Stasera, disse la signora, quand'ebbe finito di adornarlo, stasera l'accenderemo!
Finalmente le candele furono accese.
Le porte del salotto si spalancarono e una folla di bimbi accorse verso l'abete. I piccini restarono a guardare l'albero in silenzio per un momento; poi scoppiarono in grida di gioia e si trastullarono coi balocchi che furono distribuiti. Nessuno si curò più dell'albero.
Il mattino seguente i domestici lo trascinarono fuori e lo chiusero in un angolo buio del solaio.
Che vuoI dir ciò? fece l'albero tra sè. E seguitò a pensare e pensare. E n'ebbe del tempo per pensare, perchè i giorni passarono senza che alcuno apparisse. Una mattina, vennero a frugare nel solaio.L'albero fu portato in un cortile e gettato tra le ortiche e le erbacce. L'abete ricordò la vita felice del bosco e sospirò: È finita! Fossi stato felice almeno, quando potevo!
Venne un domestico e lo ridusse in tanti pezzi, che poi ammucchiò e accese. Così  l'abete bruciò e finì di vivere.

L’assemblea di Natale
di Rita Charbonnier



C’era una volta un elettrodomestico che tutti, ma proprio tutti, avevano in casa, malgrado non fosse indispensabile. Non serviva a conservare i cibi o cuocerli, né a lavare la biancheria o pulire il pavimento. Eppure era in funzione ovunque giorno e notte e diffondeva un perenne, confortevole borbottio. Alcuni utenti si curavano solo di accenderlo per poi dedicarsi ad altre attività, ascoltandolo distrattamente; i più vi si spaparanzavano di fronte, soprattutto la sera, e lo osservavano mangiucchiando, fumando o grattandosi. Poiché l’elettrodomestico riproduceva, oltre che suoni, immagini. Era questa la sua forza.
Purtroppo però le immagini non erano belle. I colori erano falsi, troppo accesi, e i volti deformi: labbra innaturalmente gonfie, capelli trapiantati, tinti e stirati, fronti distese a forza che conferivano un’espressione tonta, in contrasto con lo sguardo crudele degli occhi truccatissimi. Anche quelli degli uomini.
Nemmeno le voci erano belle: il più delle volte si trattava di grida che rivelavano, e comunicavano, un desiderio ansioso di sopraffazione. E nemmeno i contenuti erano belli. Era raro cogliere qualcosa che desse piacere, o commozione, che sorprendesse il cuore o facesse nascere il desiderio di comprendere meglio una cosa importante. Giusto a tarda notte qualche insonne incappava in un sorriso vero, un pensiero onesto, un concerto pacificante; ma poi, al mattino, tornava tutto come prima.
Ora, il fatto è che gli elettrodomestici erano profondamente stufi di questa situazione. Se ne stavano immobili nei salotti, nelle cucine, nelle camere da letto e a volte anche nei bagni, condannati a trasmettere spettacoli che trovavano bruttissimi. In più erano costretti a sorbirsi la visione deprimente dei loro proprietari accasciati sulle poltrone a ruttare, le dita affondate nei popcorn e i telecomandi in bilico sui grassi stomaci.
Attraverso cavi, antenne e parabole, cominciarono quindi a discuterne tra loro e decisero in breve di convocare un’assemblea generale. Scelsero di incontrarsi la notte della vigilia di Natale, quando tutti gli esseri umani sarebbero stati intenti a scambiarsi auguri e regali, e per una volta non avrebbero fatto troppo caso a loro.
La sera del 24 dicembre splendeva nel cielo una luna piena e sorridente, che divenne addirittura ilare nel vedere le strade della città affollarsi di schermi LCD, ultrapiatti e ultramoderni, dispositivi fuori moda con i tasti a molla, mini-schermi che si potevano tenere sulle ginocchia, e anche qualche telefono cellulare assai evoluto. In gran segreto e senza dire una parola, tutti marciavano verso un pratone di periferia dove s’erano dati appuntamento.
I più silenziosi erano i maxischermi, che si guardavano intorno con sussiego: avevano lasciato il posto d’onore negli elegantissimi salotti per ritrovarsi nel mezzo di una marmaglia un po’ plebea. Alcuni corpulenti apparecchi anziani, che per funzionare avevano bisogno dei decoder, li avevano lasciati a casa e quelli li rincorrevano strillando: “Dove credi di andare, senza di me? Tu da solo non vali più nulla!” Gli ultimi ritrovati della tecnologia, che servivano anche per andare su Internet, avevano aderito alla manifestazione per puro spirito di solidarietà; ma del resto i loro padroni non li utilizzavano quasi mai per la rete, convinti com’erano che questa fosse un luogo adatto solo agli sporcaccioni e alle persone sole.
Giunsero nel grande prato. La luna era così contenta che batteva le mani, e dai suoi occhi cadevano lacrime di gioia che toccando il suolo si trasformavano in fiori stupendi. La decisione fu presa in un attimo. Gli apparecchi si guardarono l’un l’altro superando i pregiudizi, dimenticarono le differenze individuali, si accostarono, si scomposero, si sovrapposero, si mescolarono e si fusero. Erano decine, centinaia, migliaia, milioni.
All’alba del 25 dicembre le strade della periferia erano percorse da un solo veicolo, un camion con due uomini a bordo. D’un tratto il conducente fece una frenata così brusca che il suo amico rischiò di sbattere la testa contro il vetro: al centro del grande prato troneggiava un palazzo altissimo e bellissimo, che il giorno prima non c’era! Non s’era mai visto! Mentre il sole si levava, i due scesero dal camion, si avvicinarono al portone d’ingresso, lo aprirono e si addentrarono circospetti: l’edificio si componeva di appartamenti fatti e finiti, perfetti in ogni particolare, completi di muri, porte e finestre con le maniglie, scale, ascensori, mobilio, persino quadri e tappeti. C’era tutto quel che serve in una casa per poterci abitare.
Mancava solo la televisione.
Da quel giorno, tutti coloro che lavoravano in tivù si ritrovarono senza occupazione. Riuscirono però a reinventarsi in fretta: qualcuno si trasferì in Sicilia per riorganizzare l’assistenza ai profughi del mare, qualcun altro installò un cavalletto a Piazza Navona per ritrarre i turisti di passaggio, i più si impiegarono come guide negli studi televisivi, che furono trasformati in musei. E pian piano tutti i volti deformi recuperarono la loro naturale bellezza.
Gli utenti trovarono modi più gustosi di trascorrere le serate: andare a trovare gli amici, passeggiare all’aria fresca, godersi uno spettacolo a teatro o magari restare a casa per fare l’amore. Ogni tanto una coppietta, tenendosi a braccetto, passava sotto il grande palazzo di periferia e sussurrava: “Certo che quel fabbricato è uno spettacolo. Non c’è che dire: Renzo Piano non si smentisce mai.”


Natale fra due trincee
di Renzo Montagnoli


Guardo le fiamme che danzano nel focolare e che ritagliano spicchi di luce nell’oscurità della camera. Quel fuoco dovrebbe darmi calore e io invece in questi pochi giorni che precedono il Natale ho un freddo che mi avvolge tutto e che perfino è entrato in me. Sono vecchio, solo, senza più futuro e deluso del passato. Ho sperato tanto in un mondo migliore, in un mondo diverso, più equo, più giusto, ma il tempo è trascorso e nulla é cambiato, tranne io, che ormai trascino un’esistenza quasi vegetale, senza desiderio di vivere, spesso invocando il sonno per non sapere.  Mi è difficile rifugiarmi nei ricordi, rivedere fra queste fiamme i volti di persone che ho stimato e amato, e che ora non ci sono più. Eppure, se spremo la memoria, esce un succo chiaro come il sole, un fatto accaduto tanti, tanti anni fa, in cui riparare per non morire dentro, un evento che è forse giusto che trascriva affinché qualcuno, dopo la mia scomparsa, possa comprendere che tutto è possibile, che gli ideali di pace non rimangano tali, ma possano effettivamente realizzarsi.
Era la vigilia di Natale del 1916 e io allora ero un sergente dell’esercito italiano, in servizio in una trincea della Conca di Plezzo, un posto relativamente tranquillo, nel senso che non vi si svolgevano le grandi e sanguinose offensive dell’Isonzo; certo, anche lì c’era il pericolo, magari qualche bomba di mortaio, isolata, che veniva dalle vicine trincee austriache, oppure lo sparo fulminante di un cecchino, per non parlare delle malattie che ci aggredivano per la scarsa alimentazione, per i rigori del tempo, per quel fango che si attaccava come un vischio alle suole dei nostri scarponi. Più in là, dove stava il nemico, la vita non era molto diversa e di frequente udivamo i mugugni per il rancio inadeguato, il che ci accomunava e pur non vedendo in faccia il nostro avversario, tendevamo a immaginarlo come noi, con indosso una divisa diversa.
Già verso il mezzogiorno di quel 24 dicembre era corsa la voce che ci sarebbe stata una tregua, non ufficiale, proprio nel giorno di Natale. Una tregua, per chi combatte, è una breve, ma tonificante parentesi di vita, è l’occasione per cercare di dimenticare la paura sempre presente, la tensione pronta in agguato. Alla sera si dava per certo questo breve periodo di non ostilità, tanto che notai che sia da parte nostra, che da parte loro, non venivano lanciati i razzi illuminanti.
A cena ci fu un rancio che avrebbe dovuto essere speciale, ma la pasta fredda e scotta e il pollo rachitico ci riempirono lo stomaco, ma senza piacere. Per fortuna fu consegnato  a ognuno di noi un fiasco di vino rosso, non annacquato, ma corposo, così che, sorsata dopo sorsata, non solo ci scaldammo fuori, ma anche dentro.
Poi, visto che avevamo la fortuna di avere fra di noi un discreto cantante lirico, lo invitammo a far sentire la sua voce. Cominciò con Torna a Surriento, affrontata con autentica passione, così che, anche per il contenuto dell’ultima quartina (Ma nun melassà / Nun darme sto turmiento! / Torbna a Surriento, Famme campà!), alla fine eravamo tutti commossi e applaudimmo calorosamente. Non appena terminò l’ultimo battito di mani e il cantante che, se non ricordo male si chiamava Giraldi, recuperava il fiato, si udì forte una voce provenire dalle linee nemiche: - Bravo, tagliano, canta ancora!.
E Giraldi cantò, passando tutto il suo repertorio, assai ampio, e finendo con il Va’ Pensiero, a cui ci associammo tutti, anche gli austriaci.
Io ero commosso, tutti eravamo commossi, perché quelle musiche ci riavvicinano alle case lontane, alle mogli, alle madri, alle fidanzate, ai figli in trepida attesa.
Fu allora che il tenente Girotti, un buon diavolo di Veneto, mi chiamò e mi disse: - Andiamo fuori.
-      Fuori dove?
-      Nella terra di nessuno.
Avevo un po’ di timore, ma pensavo alla tregua e allora seguii il tenente che già camminava sul terreno sconnesso dalle bombe, gridando. – Amici austriaci, fratelli, venite qui, festeggiamo il Natale insieme! 
Si fecero avanti un tenente e un sergente austriaco, si avvicinarono e tesero la mano. Ricambiammo e fu allora che da entrambe le trincee tutti i soldati  uscirono per incontrarsi.
Ci presentammo e così seppi che l’ufficiale austriaco era un certo Francesco Nicoletti diLevico Terme, mentre il mio pari grado si chiamava Joseph Rier, di Graz.
Nicoletti parlava anche l’italiano, non così Rier, e notai che voleva dirmi qualcosa, spiaccicava frasi in una lingua a me sconosciuta.
Dalla mia espressione si evinceva facilmente che non comprendevo.
Il tenente Nicoletti, per fortuna, intervenne, traducendo:
-      Dice che somigliate moltissimo a suo figlio Hans, disperso lo scorso anno in Galizia.
Joseph annuiva e con la mano mi accarezzò il volto, poi mi porse una fotografia, che doveva essere probabilmente quella del figlio, con cui effettivamente c’era un po’ di somiglianza, poi mi fece capire di voltarla, di leggere qualcosa sul retro e infatti c’era un indirizzo, probabilmente il suo. Lo guardai meravigliato e lui con grande fatica e sforzo mi disse solo: – Per dopo.
E probabilmente era un invito ad andarlo a trovare a guerra finita.
Quando fu mezzanotte, il nostro cappellano militare Don Barba, un uomo che tanto si prodigava per alleviare qualsiasi sofferenza, disse a Nicoletti:- Anche se forse non siamo tutti i cattolici, credo che la Messa di Natale possa essere gradita.
Ho vaghi ricordi di quella funzione, stordito per trovarmi a fianco di un nemico che mi era amico, ma rammento chiare le ultime parole dell’omelia “Se qualcuno bussa aprite il vostro cuore e la guerra non diventerà che un lontano ricordo”.
Poi venne l’alba e piano piano ognuno ritornò nella sua trincea, io mesto e in preda a un atroce dubbio: finita la tregua, se mi fossi trovato davanti Joseph, che cosa avrei dovuto fare? Sparargli o tendergli la mano? E lui che cosa avrebbe fatto?
Il giorno dopo si ritornò alla consueta vita non vita e per mia fortuna non ebbi più occasione di incontrare in battaglia Joseph, né il tenente Nicoletti.
L’anno seguente, un colpo di mortaio provocò un violento spostamento d’aria, che mi lanciò contro un terrapieno, spezzandomi la gamba destra in più punti. Per quanto possa sembrar strano e nonostante la menomazione permanente che ne portai, fu la mia fortuna, con una lunga degenza in un ospedale ben lontano dalla prima linea e poi il congedo per l’invalidità.
Fu infatti nella notte del 24 ottobre che le truppe austriache e tedesche sfondarono il nostro fronte alla Conca di Plezzo, causando la tremenda ritirata di Caporetto. Attaccarono silenziosi, preceduti dai gas, e il mio reparto fo totalmente annientato; nessuno si salvò, nemmeno il tenente Girotti. Una massa di cadaveri, con i volti contorti dalla sofferenza, si presentò così all’invasore.
Terminato il conflitto, non potendo lavorare a causa della gamba e fruendo di una modesta, ma sicura pensione d’invalidità, pensai a lungo a quella notte e mi chiesi ancora una volta che cosa avrei fatto se mi fossi trovato davanti in battaglia il tenente Nicoletti e il sergente Rier e che cosa avrebbero fatto loro. Non riuscivo a darmi una risposta e quindi forse avrei potuto averla da loro. Andai a Levico Terme, seppi dove abitavaNicoletti, che era tornato dalla guerra privo del braccio destro, e bussai alla sua porta, ma non mi aprì. Tornai il giorno dopo e ribussai, e ancora non fu aperto. In paese mi dissero che faceva così con tutti e che viveva isolato dal mondo, e allora andai a Graz.
Dato il mio tempo libero avevo studiato il tedesco ed ero in grado di capirlo e di parlarlo discretamente. Trovai dove abitava Rier, bussai alla porta e mi aprì una signora dal volto sofferente. Le chiesi di Joseph e lei mi rispose che, come il figlio Hans, risultava disperso. Mi guardava, ma l’età, i patimenti avevano tolto ormai dal mio viso quella vaga rassomiglianza con il figlio. Aveva gli occhi umidi, quando mi disse: - Tutte le notti faccio lo stesso sogno. Bussano alla porta, vado aprire e da una nebbia lattiginosa emergono Joseph e Hans. Cerco di abbracciarli, di stringerli a me, ma non trovo che il vuoto. Ormai so che potrò rivederli solo quando non sarò più di questo mondo.
Me ne andai turbato e ritornai in Italia, lasciai passare gli anni, quelli duri della seconda guerra mondiale, ma quando fu finita ritornai a Levico: dovevo assolutamente sapere. Pensai che interessando il parroco locale forse Nicoletti mi avrebbe aperto, ma ebbi una brutta notizia.
Il sacerdote mi disse infatti che l’isolamento del tenente era durato fino al 1944; di quella guerra così violenta non si curava, non gli interessava proprio più niente del mondo, ma una notte di settembre di quell’anno qualcuno bussò alla sua porta e lui aprì il suo cuore. Era una famiglia ebrea in fuga, che lui accolse, ospitò per alcuni giorni e poi portò in un luogo più sicuro. Un delatore lo denunciò alla polizia, la Gestapo lo arrestò, sottoponendolo a torture, ma non parlò. Una fredda mattina di novembre, gli occhi rivolti alle cime appena imbiancate che lui tanto amava, affrontò il plotone di esecuzione.
Degli altri presenti quel giorno di Natale, italiani, austriaci, croati, se non divorati dal fuoco della guerra, se ne tornarono alle loro case, più di uno con il corpo offeso, ma tutti con l’animo segnato da una tragedia a cui furono costretti.  Ma ve n’era anche un altro, che non è mai assente, ma basta cercarlo: quel Gesù che aprì il suo cuore agli uomini fino al punto di immolarsi per essi e che sempre bussa , anche se pochi gli aprono.
E infine c’ero io, ora un povero vecchio deluso dalla vita, ma sono sempre qui, pronto ad aprire il mio cuore a chi chiede solo amore.

Stellina
di Franca Canapini

Era una bimba come un’altra nella scuola cittadina. Seduta in fondo, un po’ in disparte. Bimbetta che lavorava assorta e ubbidiva alle maestre senza fiatare. Due codine, una frangetta, uno zainetto logoro e pochi pennarelli.
Le compagne, intente a comunicare tra loro con il linguaggio dei gesti e bigliettini vari, non la consideravano. Magari qualcuna a volte le faceva degli scherzetti, per vedere come reagiva. Ma lei non reagiva e non rideva mai, puntava i grandi occhi in quelli della compagna di turno in un rimprovero silenzioso e tornava ai suoi compiti. Soprattutto quella mattina non aveva voglia: aveva sentito suo padre e sua madre parlare sottovoce. La mamma piangeva perché il papà operaio aveva perso il lavoro; e perché sarebbero stati sfrattati dall’appartamento; e perché non sapeva dove avrebbero potuto dormire la notte seguente.
Più tardi il babbo l’aveva lasciata davanti al cancello della scuola con una mesta carezza. E lei ora aveva i ditini che tremavano nel disegnare, come aveva chiesto la maestra Lucia, la casetta dei sogni e i regali che desiderava avere da Babbo Natale.
Quando suonò la campanella dell’uscita, si sentì perduta: cosa sarebbe successo quel pomeriggio?
Fuori pioveva a dirotto. Aprì l’ombrellino e si affrettò in direzione di casa.
Un’automobile in transito le schizzò addosso l’acqua di una grossa pozzanghera; lei sbandò e cadde.
Nel rialzarsi, un po’ stordita, le parve di vedere una luce, prima piccola poi sempre più grande e bianca, infine sfumò e apparve un esserino in volo, sembrava di cristallo.
<Non temere, mi chiamo Gelo e sono incaricato di proteggerti. Tutto andrà bene, prendi questa mia piumetta, mettila in tasca e, ogni volta che ti sentirai perduta, stringila, esprimendo un desiderio. >
Non capì bene cosa fosse successo. Riprese a camminare più veloce che poteva. Quando fu vicino a casa scorse sua madre in un capannello di donne; guardavano tutte verso l’alto. E lo vide, su, nel braccio dell’altissima gru che sovrastava un palazzo in costruzione, suo padre insieme ad altri uomini.
< Cosa fa, mamma? >
< Oh, Stellina. E’ salito per protestare contro i licenziamenti…>
< Ma si sta bagnando tutto! >
< Lo so, speriamo che qualcuno li aiuti.>
Intanto si stava radunando gente. < Poveracci – dicevano - con questa crisi, i poveri sono i primi a rimetterci. Possibile che non si possa far niente? >
Stellina strinse forte la piuma:< Aiutali, ti prego. >
E fu allora che sopraggiunse l’automobile scura del sindaco.
< Non si può, non si può sotto Natale ignorare questa manifestazione. Avremo tutti i giornali addosso, ci faranno neri. Quanti sono questi disoccupati? Che lavoro possiamo dargli? > brontolava concitato, scendendo dall’auto, il piccolo uomo intabarrato in un elegante cappotto scuro.
Il segretario, pronto a ripararlo con l’ombrello:
< Veramente di lavori da fare nel nostro comune ce ne sarebbero tanti: la palestra nella scuola di via Allegra, varie strade da allargare, costruire la nuova casa di riposo… ma con questi tagli alla spesa pubblica, chi osa più iniziarli? >
< Palazzo Romagnosi da trasformare in appartamenti > Si sentì dire la bimba, mentre il sindaco passando, quasi la sfiorava. L’ometto restò di sasso.
< Cos’ha detto la bambina? Palazzo Romagnosi, quella grande proprietà del Comune che sta cadendo a pezzi. Trasformarlo in appartamenti. Si potrebbe fare; con gli affitti ci ripagheremmo le spese…mi sembra un’idea. >
< Un’ottima idea > concluse in fretta il segretario, che guardava con terrore sopraggiungere Lulu la rossa, temibile giornalista  della tivù locale.
Stellina quasi stritolò la piuma quando vide dirigersi verso il ristorante lì vicino, indifferente alla scena, il direttore della banca che aveva dato lo sfratto ai suoi genitori. 
< E’ lui, è lui che ha sfrattato i miei genitori perché da due mesi non possono pagare l’affitto >  quasi gridò, rivolgendosi alla giornalista.
Lulu la rossa guardò interrogativamente il direttore, che, imbarazzato, ebbe la presenza di spirito di esclamare:
< Eh, sfratto! Che parola grossa. Meglio avviso, richiesta di pagamento, sollecito. Però, però ci si può pensare ancora, soprattutto se tuo padre riavrà unlavoro…>
Intanto il sindaco aveva preso un megafono < Scendete cittadini. Ho bisogno di una squadra di operai per i restauri di un palazzo. Vi assumiamo a tempo determinato. >
Nel giro di qualche giorno la banca aveva prorogato lo sfratto e suo padre aveva riottenuto un lavoro; non era granché a dire la verità, visto che sarebbe durato solo alcuni mesi, ma nel frattempo avrebbero potuto organizzarsi in qualche modo.
Così, per la vigilia di Natale, Stellina e la mamma andarono a fare un po’ di spesa.
La mamma era ancora giovane, ma la povertà e il lavoro duro l’avevano sciupata; il viso si stava riempiendo di rughette, i capelli avevano bisogno del parrucchiere. Stellina, guardandola da sotto in su, provò tanta pena che le venne da stringere ancora la piumetta: < Fai che la mia mamma ridiventi bella > disse tra sé, mentre passavano davanti al negozio di un parrucchiere. E una ragazza si fece loro incontro con dei foglietti in mano:
< Signora, se è interessata, c’è una promozione della ditta di cosmetici Ambra, le offrono in prova gratuita una pulizia del viso e un taglio di capelli. Non è obbligata ad acquistare niente. >
Il giorno di Natale la mamma splendeva nella casetta splendente, un profumino invitante proveniva dai fornelli e il babbo fischiettava guardando, fuori dalla finestra, la prima nevicata d’inverno. Stellina fingeva di giocherellare con la bambolina che aveva trovato sotto l’albero, in realtà respirava la ritrovata serenità familiare.
Manina in tasca, strinse la sua piuma, sussurrando: < Grazie Gelo. >
Una scintilla sfrecciò velocissima per la stanza: l’angioletto le fece l’occhiolino.

Vacanze di Natale
di Domenica Luise


Ho scritto a casa, non sapevo che raccontargli, ma io so scrivere e posso inventare o per meglio dire prendere delle situazioni che mi colpiscono senza interessarmi e metterle al centro delle mie lettere. Per esempio che Vitti Paolo oggi, nell’ora di latino, leggeva sotto il banco una barzelletta sporca con il suo compagno e che quando li ho rimproverati gelidamente sono arrossiti tutti e due e hanno abbassato gli occhi. Che dal preside non li ho mandati, il preside non vuole essere seccato e poi ho capito che lui certi alunni come Vitti Paolo non li tocca perché sono figli del medico del paese, nipoti dell’onorevole di questo o di quell’altro partito, non importa quale, cugini in secondo di qualche altro signorotto dei dintorni. Se dal preside mando dei tipi come Vitti Paolo, finisce col dirmi che non so tenere la disciplina: sicuro.
Queste considerazioni amare, però, ai miei le dico blandamente, quasi con ironia. Sono diventata maestra dell’ironia, inizio su me stessa, i miei capelli che porto cortissimi perché cadono e sono grassi, il mio naso lungo, la mia minuscola statura, le cicatrici che l’acne giovanile mi ha lasciato scritte in faccia.
Ho anche i denti storti sul davanti, a questo si potrebbe ovviare.
Stasera sono triste e godo nell’autolesionismo. Ho continuamente davanti agli occhi il modo sicuro di comportarsi delle ragazze belle, quando salgono su un treno affollato chiedono: <C’è un posto?> e subito trovano un giovanotto che mette la valigia sulla reticella e un altro che si alza perché è giusto fare una gentilezza a quella bella ragazza.
20 dicembre
È quasi Natale e sto tornando a casa per le vacanze, ho comprato un golfino di lana morbida alla mamma, una gran bottiglia di colonia a papà, un foulard di seta a mia sorella e una bambola bionda e bella alla nipotina. Adesso mi sembrano regali sciocchi, non ho avuto neanche un filo di fantasia, ho perfino dimenticato di comprare la carta colorata per impacchettarli in modo un po’ grazioso e così mi sto servendo del rotolo che uso per foderare i libri, a fiorellini gialli e striscette blu.
I regali di Natale mi irritano, devo farli per forza, tutti se li aspettano. Non mi piace niente di quello che si fa per forza.
Il medico mi ha ordinato i tranquillanti, devo prenderne uno ogni sera prima di andare a letto. Dice che sono nervosa, ha ragione. A scuola spesso urlo con gli alunni. Dio, come sono giovane, perché devo essere così brutta, bassa, poco femminile? Quando leggo una rivista qualunque, i miei occhi sono calamitati dalla pubblicità che promette un bel seno, una bella pelle, la rinoplastica per il naso. <Ragazzi, basta adesso, la ricreazione è finita>.
Perché certune hanno tutto e certe altre non hanno niente?
<La consecutio temporum in latino…> come ho dormito bene col primo tranquillante, finalmente ho dormito.
<Il significato della pena nel Purgatorio di Dante…>, chissà, forse dormirei dolcemente se i tranquillanti li prendessi tutti in una volta.
22 dicembre
Il treno è affollato e sto nel corridoio, c’è gente anche nei gabinetti. È quasi sera, guardo la campagna umida che scorre nella nebbia, grigio e verde spento, grigio e verde spento. Ho comprato, in tre farmacie diverse, tre flaconi di tranquillanti, quarantacinque pillole, me li hanno dati senza pensarci su due volte. Sollevo alternativamente un piede, poi l’altro nell’illusione di riposarmi, mi guardo attorno, un militare mi fissa in modo torpido, è chiaro che non mi vede, nessun uomo mi ha mai vista, nemmeno le donne mi prestano attenzione, anche il preside quando ha i nervi rimprovera me perché sono quella che tace subito, non disputa, non è abile a trovare giustificazioni.
È tremendo essere soli in mezzo a tutti gli altri. Sotto la pelle sottile della mia borsa firmata sento la forma delle scatole di tranquillanti. Lo farò il 26, prima lascio passare Natale perché la nipotina potrebbe piangere e anche i miei genitori, poveracci.
All’improvviso mi muovo, <Permesso, permesso…>.
<Ma dove va quella?>.
<Permesso, permesso…>.
Incomincio dal primo scompartimento: <C’è un posto?>.
<Tutto occupato>.
Passo avanti, <Permesso, permesso, c’è un posto?>.
Se fossi stata una bella ragazza quel giovanotto che fa finta di dormire si sarebbe alzato. <C’è un posto?>.
<No, è tutto occupato>.
<Permesso, permesso, c’è un posto?>.
E all’improvviso una suorina mi guarda. Per la prima volta, finalmente, una che mi guarda. E mi sorride. C’è tutta la pace in quel sorriso. Guarda me, sorride a me. È seduta accanto a un’altra suora vecchia, un donnone che occupa un posto e mezzo e dorme ronfando. Tutte le luci sono accese sul mio viso e sul suo: è bella. Stringo fortemente la borsa con le scatole dei tranquillanti, li prenderò con una bottiglia di spumante alla malvasia: <C’è un posto?> ripeto con voce fioca. La suorina si alza: <Le cedo il mio posto, signorina> dice serenamente, <grazie> rispondo. Il suicidio va bene, ma al momento sono esausta e mi lascio cadere contro lo schienale imbottito accanto al donnone, chiudo gli occhi.
Non ho mai potuto soffrire le suore e quando mi sveglio il donnone mi sta strizzando tanto che mi manca il fiato. Lei è in corridoio, appesa al finestrino, con la fronte sulle dita intrecciate, il velo si è un pochino spostato e anche se i capelli sono quasi rapati mi accorgo che è pure bionda, di un colore radioso, che non si dovrebbe nascondere, almeno dal mio punto di vista. Mi alzo e la raggiungo:<Sorella…>, <Che c’è,signorina?> gli occhi sono di un azzurro da nordica, <sorella, la ringrazio>, ha un modo, questa, di guardarmi come se avesse capito qualcosa di me, quello che voglio fare>, <Si vada a riposare> aggiungo, <si sieda un poco anche lei, è stanca>.
Mi interrompo: è la prima volta che mi accorgo della stanchezza degli altri. <Facciamo un poco per uno> insisto. La suorina mi continua a fissare con gli occhi assonnati di ragazza giovane, poi con semplicità mi dice <Grazie> e va a sedersi, il donnone si sveglia e apre la sua borsa nera, piglia una mantella a uncinetto e la mette in grembo alla suorina, <sei ghiacciata>, dice.
Già: il riscaldamento non funziona e le suore non sono tutte cattive. Sbalordita, guardo la scena inconsueta.
Mi giro e abbasso il vetro, entra una zaffata d’aria gelida, è notte. Il treno sta per fermarsi a una stazione secondaria.
<Ma che fa, vuole farci venire una polmonite?> è una vecchia striminzita che protesta, ma io le sorrido e, con una mossa veloce, lancio fuori le tre scatole di tranquillanti.
<Lo sa che non si buttano oggetti dal finestrino?>, continua lei, <Ma se il treno è fermo> dice sgarbatamente un tipo alto e con la barba. Sorrido anche a lui e dopo un poco ci mettiamo a chiacchierare tutti insieme e mangio anche il pane e cotoletta che mi offre la vecchierella. Meno male perché, pensando al suicidio, non m’ero portata niente e schiattavo di fame.
Mi accorgo che è semplice volere bene alla gente e ascoltarla.
Stasera ho incontrato gli altri  e per la prima volta in vita mia non mi sento sola.
Alla prossima stazione scenderò dal treno e aspetterò la coincidenza per il paesino, mi comprerò un’arancina calda, anzi due, di riso croccante pieno di ragù di carne, come sanno fare a Messina, una rivista o anche due, una bibita frizzante dolce. Sono bassa e brutta come prima, ma mi sento una piccola candela accesa dentro. Non mi era mai capitato di provare questa sensazione di gioia. Grazie, Dio.
Ma cosa mi è successo, mi metto pure a pregare, adesso. Da quanto tempo non pregavo.
<Scusami>, mi accorgo di mormorare, così, come si chiede scusa a un amico. E mi sento in pace.



3 commenti:

  1. Letti, in un sol colpo! Tutti piacevoli e significativi: un piccolo variegato mondo fantastico.
    Franca

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  2. Ampia scelta, tutti di ottima qualità e piacevoli; su tutti spicca, ma é inevitabile, quel mostro sacro che é Andersen.

    Agnese Addari


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  3. Leggere questi racconti è stato un vero piacere. Ogni autore ha lasciato qualcosa di sé, il proprio stile, la propria creatività, ma soprattutto il suo sguardo attento sugli avvenimenti e sull'umanità. Storie belle e coinvolgenti, spesso "sofferte", indubbiamente molto "umane". In comune quell'atmosfera preziosa e unica che almeno durante le festività sembra avvicinarci maggiormente gli uni agli altri.
    Un bel dono leggere questi racconti.
    Buon Natale a tutti.
    Piera

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