giovedì 27 novembre 2014

Elegia per i bambini, di Ferdinando Camon

Ecco un’altra poesia di Ferdinando Camon che fa parte dell’e-book, edito da Garzanti Libri, intitolato Dal silenzio delle campagne.
È un silenzio assordante quello di queste campagne, di vita senza speranza, di lavoro e fatica, che tanto ricorda l’esistenza dei contadini in Una terra chiamata Alentejo, di José Saramago. Quella terra che calpestano, che dissodano, che seminano e che li accoglierà quando lasceranno questo mondo è insieme madre, maledizione e desolazione. Si può cosi capire perché i bimbi muoiano senza memoria, in una vita in cui tutto è tanto fermo da non aver nulla ricordare.



Elegia per i bambini

di Ferdinando Camon



In questi paesi, eterni
come un dogma, fermi
come un fossile, i bambini
nascono con musi
vecchi, maligni, ottusi,
imparano presto il male,
amano di amore carnale,
muoiono senza memoria,
perché qui non c’è Storia.



                                              Foto da web

I rimborsi e la dignità, di Ferdinando Camon

I rimborsi e la dignità
di Ferdinando Camon


"L'Arena" 13 nov. 2014




Se un amico imprenditore mi telefona e mi dice: “Senti, ho un convegno importante a Trieste, non ci posso andare, vacci tu a nome mio, ti do tot euro di compenso per la giornata che perdi, più il rimborso delle spese”, e io decido di andarci, e ci vado, al momento di presentargli l’elenco delle spese per il rimborso non ci metto lo scontrino da 70 centesimi di euro per l’uso di una toilette pubblica. Prima, durante o dopo il convegno è difficile che mi capiti di andare a zonzo per la città e passare davanti a un negozio di sex-shop. Son negozi semi-nascosti, defilati, chi va lì a comprare qualcosa non ci tiene a essere visto, e lo stesso negozio non ci tiene a mostrare i suoi clienti. Li protegge, semi-nascondendoli. E dunque chi va in uno di quei negozi ci arriva perché sa dov’è e lo cerca. S’è informato. E magari s’è informato di più su quel negozietto sexy (prodotti e prezzi) che non sul tema del convegno. E io non vorrei, presentando la richiesta di rimborso spese al mio imprenditore, dargli questa impressione. È una questione di amor proprio, ognuno ha il suo. Se poi sullo scontrino del negozio c’è scritto il nome del prodotto che ho acquistato, magari un nome generico tipo sex-toy, mi guardo bene dal conservare questo scontrino ed esibirlo, perché da quel documento chi lo legge può dedurre qualche segreto della mia sessualità, e se andando a un convegno per un padrone vendo per mezza giornata la mia intelligenza e la mia cultura, non per questo vendo la mia sessualità. Se vendo intelligenza, faccio un lavoro intellettuale. Se vendo la sessualità, faccio prostituzione.
Cito questi esempi di rimborsi spese perché nella regione Emilia ci sono in questo momento 41 consiglieri su 50 indagati per aver chiesto e ottenuto rimborsi-spese esagerati, e tra essi anche quelli per uso della toilette pubblica e acquisto di sex toys. Le spese totali chieste in rimborso superano i due milioni di euro. Non pochi. Forse i 70 centesimi della toilette si potevano ritenere inclusi nei due milioni. E il sex toy poteva esser comprato a parte, in altra occasione. E un pranzo doveva costare quel che costa a un impiegato medio, non cinque volte di più. Sono sprechi che coinvolgono tutti i partiti, Pd, Idv, Pdl, Lega, M5S, Sel, Udc. Ma dunque non finiscono mai, queste furbate? Mai. E perché? Perché i furbi sono tanti, e i controllori mancano. Il mio imprenditore mi direbbe: “Ti occorreva la pipì d’urgenza? Fatti controllare la prostata. Hai bisogno di un sex toy? Cos’hai che non va?”. Sì, potrei rubargli qualche euro. Ma perderei la dignità. Che vale infinitamente di più.




Storia di Sirio, di Ferdinando Camon



Storia di Sirio
Parabola per la nuova generazione
di Ferdinando Camon
Garzanti Libri
Narrativa romanzo
Pagg. 152
ISBN 9788811660675
Prezzo € 12,00

La speranza non deve morire

Non si può certo dire che Ferdinando Camon sia monocorde, che i suoi scritti trattino sempre lo stesso tema e così, dopo aver dato alle stampe i romanzi del Ciclo degli ultimi, per intenderci quelli che parlano della scomparsa della civiltà contadina, ha osservato il mondo che lo circonda, la società che lo occupa, cogliendo, insieme con gli aspetti esteriori più significativi, le carenze di fondo, in un invito a  meditare e, soprattutto, a cercare di cambiare le tante troppe storture. E’ il caso questo anche di Storia di Sirio, che sembra un’opera rivolta più all’attuale generazione giovanile, ma che interessa tutti, anche quelli più avanti negli anni, figli di quel dopoguerra che hanno accettato supinamente la civiltà industriale, quella dei consumi, salvo poi lamentarsi sterilmente. Un giovane deve necessariamente maturare attraverso le esperienze e Sirio è un emblema di questo processo, un prodotto tipico in cui la generazione attuale troverà non pochi punti di contatto.  Ma finisce con l’essere un atto di accusa anche nei confronti dei genitori, ingabbiati, come i figli, in una struttura piatta che nell’illusione di uno sprazzo di benessere finisce con lo schiavizzare, con il rendere succubi a un sistema capitalistico impietoso che poco dà per togliere invece tanto. In questo quadro Sirio, figlio di un industriale, quindi di un capitalista, con quella voglia di aria nuova che è proprio dei giovani, prima si ribella al padre, avviando una serie di esperienze totali come una vita da sbandato con l’assunto che lavoro equivalga a schiavitù, poi prova l’ebbrezza del primo amore e la delusione che ne deriva quando questo diventa noia, e infine arriva all’autoanalisi interiore, quasi a voler dimostrare che qualsiasi aspirazione di cambiamento è inevitabilmente destinata alla sconfitta se non cambiamo prima noi stessi. Però, se è pur vero come dice Camon che si tratta di una parabola per la nuova generazione, ho colto altri motivi di interesse, forse nemmeno tanto impliciti, che l’uomo, scrittore, insegnante e padre, non può aver messo lì per caso o unicamente a supporto del suo discorso.
Camon, legato per nascita alla campagna e a quella civiltà contadina ormai scomparsa, vede nell’imperante capitalismo lo stesso nemico di Marx, ma ciò non vuol dire che lo scrittore padovano sia un comunista, perché la sua aspirazione volge più a una visione cristiana dell’esistenza, un’immagine a lungo costruita che vede ogni uomo padrone di se stesso nell’equilibrio di un mondo non più votato all’autodistruzione e dove ragione e sentimento si fondano in un unico anelito di umanità. In questo senso la sua ostilità per la città, per quella massa di condomini, alveari dove è raro che gli abitanti non solo s’incontrino, ma possano avere almeno un barlume di reciproca conoscenza, è una sua costante, perché rappresenta lo spossessamento dell’indole naturale degli esseri umani a comunicare e la supina accettazione di un ordine costituito in cui pochi dominano tutti gli altri. Questo aspetto è ripreso anche in Storia di Sirio e appare assai efficace, soprattutto quando il moto di rivolta avviene solo nella città, coinvolgendo studenti e operai e lasciando fuori gli abitanti delle campagne che pur in presenza di una civiltà industriale agricola riescono a mantenere ancora una, se pur ridotta, autonomia.
La mia impressione è che Storia di Sirio sia sì una parabola per i giovani, ma anche una confessione dell’autore per aver accettato pure lui, come tanti e come me, che si arrivasse a un mondo non a misura d’uomo e credo che in fondo quell’idea dell’autocoscienza sia una speranza che si è sempre portata in cuore, affinché ci possa essere ancora qualcuno che, con energia vitale, propria della generazione giovanile, possa concretizzare ciò che chi, ormai avanti con gli anni, non può più fare.
Da leggere e rileggere.   


Ferdinando Camon è nato in provincia di Padova. In una dozzina di romanzi (tutti pubblicati con Garzanti) ha raccontato la morte della civiltà contadina (Il quinto statoLa vita eternaUn altare per la madre – Premio Strega 1978), il terrorismo (Occidente,Storia di Sirio), la psicoanalisi (La malattia chiamata uomoLa donna dei fili), e lo scontro di civiltà, con l'arrivo degli extracomunitari (La Terra è di tutti). È tradotto in 22 paesi. Il suo ultimo romanzo è La mia stirpe (2011).
Il suo sito è www.ferdinandocamon.it

Recensione di Renzo Montagnoli


MondoBlog del 27 novembre 2014

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lunedì 17 novembre 2014

Tornare a vivere nella casa (di carta) comune europea


Tornare a vivere nella casa (di carta) comune europea


Sulla spinta dell’esigenza di creare un luogo virtuale – che ancora non ci sembrava esistere –dedicato esclusivamente alle attività letterarie dell’Italia e della Slovenia (i Paesi del sottoscritto e di mia moglie Veronika Simoniti, scrittrice lubianese), i primi di novembre del 2014 lei ed io abbiamo inaugurato il blog bilingue La casa di carta / Papirnata hiša. Questo è il link: http://lacasadicartapapirnatahisa.wordpress.com/
Credo sia facile spiegare sinteticamente di cosa si tratta: una casa comune dove si possa parlare solo ed esclusivamente di cose pertinenti la letteratura delle nostre lingue, ovvero notizie, informazioni, testi critici, narrativi e poetici, redatti in italiano o in sloveno (se possibile tradotti con testo a fronte, ma questo non è obbligatorio).
In un’epoca in cui la letteratura è stata relegata al ruolo di cenerentola delle arti – come le arti sono finite in fondo alle graduatorie delle cose indispensabili per la vita – noi dunque affermiamo recisamente la centralità della parola scritta nella vita quotidiana dei cittadini europei del XXI secolo. Le civiltà delle Nazioni europee nacquero dalla parola e alla parola devono tornare: unica alternativa, il mutismo di una nuova, tremenda, antistorica barbarie, che niente ha a che fare con le nostre radici e mal si collega ai millenni dietro alle nostre spalle. Dunque basta con le chiacchiere: torniamo alla parola.
Per contattarci, si scriva al seguente indirizzo di posta elettronica: casahisa@gmail.com .
E buona lettura a tutti!

Sergio Sozi


Il futuro nel passato, di Renzo Montagnoli



Il futuro nel passato
di Renzo Montagnoli


Squarci di luce nel buio della notte,
zoccoli di cavalli al galoppo,
mantelli di ragnatele tessute dal tempo,
rivivono leggende sepolte nella nera terra
dell’oblio voluto da uomini senza passato.
S’alza il sipario su brughiere coperte d’erica,
mentre lontano s’ode il canto d’un uomo straziato,
di dolore pervaso per un ricordo smarrito nel tempo.
Mitica terra di cui si rammenta solo l’arcano,
mentre di genti,
ormai polvere,
s’ignora ogni cosa.
Fra il fragore dei tuoni si leva il lamento
di chi chiede un ricordo
per posteri che non hanno nemmeno il futuro.
Chi ignora il passato, chi non s’accorge del presente,
passa senza lasciar traccia.
Ma quelle genti
che già calpestarono il verde di questi prati,
se pur nel sogno, rivivono.
La memoria di chi fu
 traccia la strada del futuro.


Da Canti celtici – Il Foglio, 2007

La colonna sonora (una composizione celtica):




Il birraio di Preston, di Andrea Camilleri



Il birraio di Preston
di Andrea Camilleri
Sellerio Editore Palermo
Narrativa romanzo
Collana La memoria
Pagg. 256
ISBN 9788838910982
Prezzo € 10,00


Il capolavoro di Camilleri


Credo che se avesse potuto leggerlo Leonardo Sciascia ne sarebbe rimasto incantato, così come lo sono stato io. Intendiamoci, ed è una premessa indispensabile, Il birraio di Preston non è il solito romanzo di Camilleri, gradevole, appassionante, con la presenza magari di qualche spunto e di qualche fine civile; è invece molto di più e anche  il linguaggio usato, quel siciliano italianizzato, che è una caratteristica dell’autore, è assai più comprensibile che in altre sue opere; la struttura del racconto è inoltre costituita da un alternarsi temporale, un prima, un durante e un dopo, trovata che in genere può disorientare, ma che se ben congegnata finisce con il costituire un ulteriore motivo di piacevolezza.
La vicenda è tortuosa, i personaggi sono tanti, ma qui Camilleri è senz’altro riuscito a esprimere il meglio del suo talento, raccontando di un fatto accaduto ben più di un secolo fa, quando l’isola era da poco parte del Regno d’Italia e se qualche spunto è reale, attinto dall’Inchiesta parlamentare sulla Sicilia del 1876, il resto è frutto di pura fantasia creativa. Tutto ruota intorno alla decisione del prefetto toscano di Montelusa di inaugurare il teatro di Vigata con la rappresentazione di un’opera lirica, appunto Il birraio di Preston. E questo è un fatto vero, come i disordini che ne conseguirono, poiché gli abitanti si opposero fermamente a questa decisione, imposta dall’alto e perciò non di loro gradimento, qualunque fosse il valore dell’opera. Come dicevo i personaggi sono tanti e quasi sembrano lottare, sgomitando, per ritagliarsi un angolo di notorietà, dal più umile al più altolocato. Alcuni sono delle vere e proprie macchiette, che Camilleri si diverte a dipingere a suo modo, facendo loro interpretare alcuni passaggi che strappano più di una risata; altri invece sono seri, troppo seri, al punto anch’essi da muovere al riso, come le figure del prefetto e del questore.
Camilleri ci narra di questa rappresentazione operistica, dell’incendio del teatro e delle indagini successive e nel parlarci di questi fatti e di questa varia umanità finisce con il descrivere non solo la Sicilia postunitaria, ma anche l’Italia d’oggi, percorsa da interessi segreti che stanno sotto l’apparenza degli eventi, di una realtà ufficiale così dissimile dalla realtà effettiva, in un paese in cui, vigendo un sistema di potere capace di manipolare la verità, può accadere che l’onestà diventi una colpa e che invece la criminalità finisca con l’essere un merito.
Quando il travisamento della realtà è imperante ed è pratica comune, non è più possibile discernere il vero dal falso, il galantuomo dal disonesto, in un sistema che spegne sul nascere le speranze, che è auto conservativo, che tutto soffoca, obliando il passato e infinocchiando il presente.
Non tutti i personaggi sono così, solo quelli che detengono le leve del potere, i funzionari di stato, i politici e i malavitosi; gli altri possono anche essere onesti e pure eroici, ma per i burattinai che muovono i fili di un’eterna rappresentazione non sono altro che comparse, buone solo a piegare la schiena, ad apparire sul palcoscenico e a rimanervi per il tempo che sarà ritenuto necessario, per poi scomparire, come oggetti usati e inutili che non meritano nemmeno l’attenzione del robivecchi.
Tutto era così al tempo dell’incendio del teatro di Vigata, lo fu anche in seguito, lo è oggi e, ahimé, lo sarà anche domani.
Il birraio di Preston è un autentico capolavoro.  


Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e il volume, I teatri stabili in Italia (1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca(1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005), Le pecore e il pastore (2007), Maruzza Musumeci(2007), Il casellante (2008), Il sonaglio (2009), La rizzagliata (2009), Il nipote del Negus (2010, anche in versione audiolibro), Gran Circo Taddei e altre storie di Vigàta (2011), La setta degli angeli(2011), La Regina di Pomerania e altre storie di Vigàta (2012), La rivoluzione della luna (2013), La banda Sacco (2013), Inseguendo un'ombra (2014); e inoltre i romanzi con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d'agosto (2006),Le ali della sfinge (2006), La pista di sabbia (2007), Il campo del vasaio (2008), L'età del dubbio(2008), La danza del gabbiano (2009), La caccia al tesoro (2010), Il sorriso di Angelica (2010), Il gioco degli specchi (2011), Una lama di luce (2012), Una voce di notte (2012), Un covo di vipere (2013), 
La piramide di fango (2014).

Premio Campiello 2011 alla Carriera, Premio Chandler 2011 alla Carriera, Premio Fregene Letteratura - Opera Complessiva 2013, Premio Pepe Carvalho 2014.

Recensione di Renzo Montagnoli


MondoBlog del 17 novembre 2014

MondoBlog
Le segnalazioni odierne:

venerdì 7 novembre 2014

Sonetto di maggio, di Maria Teresa Santalucia Scibona

Armonia, immagini, perfino sensazioni olfattive in questa riuscita poesia.

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Sonetto di maggio
di Maria Teresa Santalucia Scibona


A Renzo Montagnoli, amico insostituibile


Quando il sonno cala sull’umano
giaciglio,  e con lieti sogni riscatta
i crucci del quotidiano,
la luna assonnata  sbadiglia.

La rosa  vermiglia,
per il giorno sepolto,
invoca sdegnosa, il chiarore
rosato del mattino.

Gravita nella notte fonda,
un silenzio inafferrabile,
adamantino.

Tacciono le dalie accasciate,
un silente interludio aleggia
sovrano, nel giardino.


Da Le rotte del vento (Raffaelli, 2014)

Quasi superfluo ricordare che l’autore di questa splendida musica é Antonio Vivaldi:

La non-banalità del male, di Ferdinando Camon

La non-banalità del male
di Ferdinando Camon


"Avvenire" 21 settembre 2014


Alcuni di noi (mi ci metto in mezzo) hanno sempre avuto qualche riserva sulla formula “banalità del male”, con cui Hannah Arendt definiva il sistema etico-culturale che guidava il lavoro di Adolf Eichmann. Ci sembrava una formula riduttiva. La “banalità del male” banalizza il male. Lo riduce. Toglie a quel male le dimensioni epocali che ne fanno un unicum nella storia. Si è discusso sul concetto diunicum, qualcuno ha osservato che ci sono stati altri grandi massacri. Sì, ma non come questo: questo voleva eliminare una “razza”, cioè modificare la composizione dell’umanità. Hannah Arendt ha coniato quella formula studiando Eichmann al processo, e osservandolo da vicino. Imperturbabile e pignolo. Un automa. Un ottuso. Che ha l’aria di non capire quello che ha fatto. Eppure, ha visto le gasazioni in atto, e (dice nel processo) non gli son piaciute, ma (nella vita) ha continuato come prima. Per inerzia. Atonia morale. La Arendt mandava gli appunti del processo al giornale che l’aveva inviata (“The New Yorker”), e “la banalità del male” fu la formula riassuntiva sull’imputato, il suo cervello, il suo sistema. Da noi quello è il titolo (da Feltrinelli) del libro della Arendt.
Adesso quella tesi viene contestata da un altro libro, appena uscito negli Stati Uniti. Poiché il titolo originale del libro della Arendt è “Eichmann in Jerusalem”, Eichmann al processo, l’autrice tedesca Bettina Stangneth intitola il suo libro di risposta “Eichmannbefore Jerusalem”, com’era Eichmann prima del processo. In Italia ne dà notizia il “Foglio”. Sono titoli che dicono tutto. Eichmann catturato e portato in processo era un uomo dimesso, dalle risposte flebili, dallo sguardo braccato, dagli occhietti sfuggenti, spaventato dalla prospettiva dell’impiccagione, ineluttabile fin dall’inizio. Ha tutto l’interesse a presentarsi come “stupido”. Ma questo non è l’Eichmann che “ha fatto la storia”. È l’Eichmann che “esce dalla storia”. Esce banalmente, cercando una scappatoia che non c’è. Ma quando ha fatto la storia non era così. Per vedere bene Eichmann e tutti gli altri che han lavorato con lui o sopra di lui (lui era solo un tenente colonnello) non bisogna collocarli sullo sfondo di un tribunale dove sono imputati. Loro non c’entrano con quello sfondo. Sono lì per errore, fallimento, sconfitta. Contro la loro volontà. La loro storia, la loro vita, la loro volontà li colloca su un altro sfondo, ed è da questo che ricevono la giusta luce per essere osservati e capiti. Tutti noi che abbiamo visto questo sfondo, vi abbiamo immaginato loro. Basta aver visto, nella sala del comando di un lager, le pareti piene di simboli, stella gialla, rettangolo rosso, rettangolo nero…, che i prigionieri portavano sul petto. Rivelano la vastità dell’impero, e delle “razze” che lo componevano. Guardandoli capisci che chi comandava l’impero, che fosse lì o a Berlino, doveva essere un artefice intelligente e attivo del meccanismo, non un esecutore ottuso. Se un meccanismo così gigantesco fosse stato gestito da funzionari ottusi, come vuol apparire Eichmann, atoni inintelligenti carrieristi, non avrebbe funzionato. C’è intelligenza, in quel funzionamento. Maligna, diabolica, ma c’è. Guardiamo su una carta il reticolare intrico dei binari che portavano là… Il numero dei campi sparsi per l’Europa… I numeri delle vittime, milioni dal Sud Europa, milioni dall’Est… I reparti che facevano quelle cose, i volontari che s’arruolavano in massa, la fedeltà che mantenevano fino all’ultimo… “Quel che ci vien chiesto è di essere sovrumanamente inumani” spiegavaHimmler. Quelli che gli hanno obbedito cercano poi, nei processi (Eichmann non è il solo) di nascondere la “sovrumana inumanità” sotto un’apparente stupidità. È la loro ultima astuzia.  



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Con riferimento a La non-banalità del male di FerdinandoCamon
di Renzo Montagnoli

Lo sterminio è il frutto di un piano lungamente studiato nei minimi particolari che non può essere opera di soggetti incapaci, ma di individui dotati di un’acuta intelligenza, benché al servizio del “Male”.
Eichmann era consapevole, come tutti gli altri preposti alla progettazione e all’attuazione di questo piano scellerato, ed era pure consapevole, al pari degli altri, del tremendo crimine che commetteva, tant’è che Himmler e le sue SS hanno cercato di cancellare ogni traccia delle loro sciagurate azioni.
La loro forza derivava unicamente dall’essere volontariamente parti di una macchinazione che con ogni probabilità, al tempo stesso, li inorgogliva e li spaventava. Orgogliosi per realizzare ciò che mai mente umana aveva ideato, paurosi delle conseguenze nel caso che il terzo Reich fosse stato sconfitto. Singolarmente, prigionieri di chi li ha catturati per far loro espiare le colpe, sembrano esseri fragili, si appellano a una litania di cui cercano di convincersi:obbedivo agli ordini.  Improvvisamente l’orgoglio spariva, frantumata la coesione fra i vari ingranaggi, questi si spezzavano, rivelavano la paura per una dura e giusta condanna. I superuomini, caduti nella polvere, si fingono tonti, incapaci, vittime di un’ingiustizia perché loro eseguivano gli ordini.
Tutto sommato, questi diavoli del male appaiono di uno sconcertante squallore; privi della forza dell’insieme, senza più potere, implorano un’umanità a loro sconosciuta. Il male non è mai una banalità, ma il frutto di una scelta e se poi il fatto che esso diventasse il pane di ogni giorno ancora non può essere definito come una banalità, bensì come un insano desiderio di potere decidere fra la vita e la morte di altri, un piacere sottile che si autoalimenta, una perversione di cui si avverte l’esigenza e anche la paura, ma non il rimorso, e infatti nessuno di questi criminali processati ha mai avuto rimorso, ma solo paura per la propria sorte.
Non superuomini, ma untermenschen, piccoli esseri che hanno creduto di essere Dio.   





Il primo figlio, di Isabella Bossi Fedrigotti



Il primo figlio
di Isabella Bossi Fedrigotti
Rizzoli Editore
Narrativa romanzo
Pagg. 188
ISBN 9788817017626
Prezzo € 17,00


Tre donne


È innegabile che Isabella Bossi Fedrigotti con la sua scrittura piana, calma, mai enfatica riesca a coinvolgermi grazie alle sue storie, in apparenza semplici, ma che rappresentano un’analisi approfondita di esistenze, in particolare di quel mondo che ancora si vuole considerare a sé stante, sebbene non lo sia, e che molto genericamente definiamo con il termine di universo femminile. Il  primo figlio ci accompagna per mano con tre storie di donne, di estrazione sociale, di istruzione e di nazionalità diversa e quindi così dissimili fra loro. Eppure in esse si rispecchia una matrice comune, con quella maternità che è alla base di ogni esistenza e che nei casi specifici le vede, di volta in volta, madri a seguito di una violenza (Teresa), materne come indole naturale, dedizione suprema volta all’allevamento dei bambini (Maria), madre ancora immatura, ma dal sentimento forte e sicuro (Sofia).    
Sono tre personaggi delineati stupendamente, tre ombre che poco a poco schiariscono per rilucere vivamente nello splendore dei loro affetti, in una narrazione volta non certo a indulgere alla facile commozione, ma che poco a poco porta il lettore a un pathos indescrivibile, proprio quando le loro strade si incontrano, diventando una sola, in un periodo delle loro vite che sarà senz’altro il più bello, quello in cui si sentiranno più realizzate. Poi, con il tempo che passa, con gli anni che pesano, con i bimbi che diventano adulti e lasciano la casa, quel cammino insieme inevitabilmente finirà e ognuna delle tre riprenderà quel percorso che le è sempre stato proprio e che ora si avvia a quell’ultima meta.
Ci si emoziona per la condizione di autentica miseria della giovane Teresa, per il dolore di Maria la cui madre, non sana di mente, verrà immolata alla perfezione della razza nazista, per quel senso di vuoto che sempre resterà nell’animo di Sofia per la perdita del primo figlio.
Tre donne, tre esseri umani che si sentono vicini, che quasi appaiono, pagina dopo pagina, davanti agli occhi, e a cui si vorrebbe affidare un po’ del proprio destino, braccia materne che ci stringano nella loro protezione dai venti turbinosi della vita.
Non credo sia facile, specie nella nostra epoca, leggere libri come questo, in cui, senza rinnegare la naturale funzione materna, si ponga bene in evidenza la necessità che alla donna sia riconosciuta pari dignità, uguaglianza non solo di diritti, ma anche di affetti e di sentimenti.
Il primo figlio è uno di quei libri che una volta letti non possono non lasciare un segno indelebile dentro di noi. 


Isabella Bossi Fedrigotti, nata a Rovereto da madre austriaca, è giornalista al Corriere della Sera. Con il romanzo Casa di guerra (1983) è stata finalista al Premio Strega e al Campiello. Il successo al Premio Campiello è arrivato nel 1991 con il terzo romanzo, il bestseller Di buona famiglia. Altri titoli sono Il catalogo delle amiche (Rizzoli, 1998), Cari saluti (Rizzoli, 2001), La valigia del signor Budischowsky (Rizzoli, 2003) e Il primo figlio (Rizzoli, 2008).


Recensione di Renzo Montagnoli