martedì 27 gennaio 2015

Il giorno della Memoria 2015


I morti non dimenticano
di Renzo Montagnoli



Soffocati
fucilati
inceneriti
dopo stenti inenarrabili
i morti non dimenticano.
C’è una memoria
che non finisce in nulla
aleggia lo spirito
di chi se n’è andato.
Gli altri
i vivi
vanno avanti
e ogni istante passato
il ricordo s’appanna
fino a che resta
una vaga notizia
-Chissà se è vera? -
si chiede più dì uno

Ma i morti non dimenticano.

Quei poveri corpi disfatti
ancora urlano
il loro silenzio
affinché
non diventi anche il nostro.

Da La pietà






Buchenwald (il bosco dei faggi)
di Tiziana Monari


Ci  fa male la vita qui a Buchenwald, umili figure cenciose accarezzate dal buio
vergognosi della fame, delle miserie dell’anima
il dolore del cuore  che si fonde con quello del corpo straziato
la mente  che si frantuma come pietra sbriciolata
erranti nel groviglio di un io che non è più

dormiamo ammucchiati nella neve qui a Buchenwald oltre il recinto di filo spinato
i calci dei fucili  che penetrano la pelle come vomeri d’aratro
e accanto al faggio,il camino, che vomita vampe rosse verso il cielo
il denso fumo della nera signora

le scarpe hanno i lacci di filo di ferro qui a Buchenwald , le suole di legno
la mitraglia sporge oltre il parapetto
ed i carnefici sono inclini alla pinguedine, le guance flosce
gli occhi sgranati di odio dentro le montature nere degli occhiali

e così stanchi, affamati, senza tregua,  l’orecchio teso da animali atterriti
le strisce rosse delle torture che si allargano, si gonfiamo
si spaccano nel sangue che scorre
aspettiamo l’appello della sera,poi la notte, tristi carovane senza stelle
in queste macerie di mondo sconvolto .

Non cantano gli usignoli qui a Buchenwald
ed i sogni  non hanno il colore dell’elicriso
la morte è un rullo di tamburo e la vita ha un lungo profilo nel suo lento passare
qui tra l’orrore e le ombre di Buchenwald.









I tedeschi nascondono ancora le colpe
di Ferdinando Camon


"L'Arena" 1 maggio 2014 
 



Berlusconi ha detto: “I tedeschi negano l’esistenza dei campi di sterminio”- Sbaglia. Ma dire: “I tedeschi hanno negato a lungo le loro colpe” non è sbagliato. Hanno avuto un problema, con lo Sterminio. Un problema storico (“Come possiamo ammetterlo?”), un problema didattico (“Come possiamo raccontarlo ai nostri figli?”), un problema giuridico (“Come possiamo fare giustizia?”). Quest’ultimo problema riguarda anche i veneti e i veronesi, l’area veronese che sta oltre Legnago, nel peasino di Bevilacqua, che ha uno stupendo castello medievale, quadrato, di color rosso. Lì c’era un comando tedesco. Un altro comando stava a Este, sui Colli Euganei. Cos’hanno fatto i tedeschi di Este e Bevilacqua non si è mai saputo con chiarezza, perché da parte nostra non s’indagava e da parte tedesca si nascondeva. Sul finire della guerra avevo 10 anni, vedevo e non dimenticavo. Più tardi ho messo quelle storie (incendi, impiccagioni, torture) nei miei primi romanzi, e quando questi han cominciato a girare nei paesi stranieri in traduzione, sono stato attento a come li accoglieva la Germania, quali reazioni suscitavano sui giornali, sui lettori, nelle scuole. È per questo che ne parlo qui.
A Bevilacqua, nel castello, hanno torturato con le scosse elettriche e con gli aghi sotto le unghie; sul ponte hanno impiccato un ragazzo di 20 anni, mio parente; c’è un cippo sul ponte, in suo onore, e poiché il guard rail nasconde la scritta e il nome della vittima, ho scritto al sindaco: “Tagli il guard rail per un metro o due, o alzi il cippo”, lui ha alzato il cippo: non so chi sia quel sindaco ma qui lo ringrazio; nei paesi dei Colli Euganei i tedeschi facevano una strage ogni settimana, noi credevamo che il totale dei morti fosse una trentina, poi lo storico Francesco Selmin ha indagato e ha scoperto che sono circa 150. Avevo messo le fucilazioni e le impiccagioni nei miei primi libri, e quando questi libri giravano tradotti in Germania, un gruppo di magistrati tedeschi (onore a loro) si chiese: “Ma cosa racconta questo scrittore italiano? Sono storie vere?”. Scendono a Bevilacqua ed Este per raccogliere testimonianze. A Legnago c’è la fabbrica Riello, m’invita a un incontro con i lavoratori, ci vado, rievoco questi ricordi, si alza una signora e dice: “Sono un’insegnante di tedesco, facevo da interprete a quei magistrati, ma gli abitanti dei paesi veneti non volevano rispondere”. Chi non capisce questo, non capisce i veneti, la Lega, la secessione. Non hanno nessuna fiducia nello Stato, in nessuno Stato. Pensano che non avranno mai giustizia. E infatti… In Germania preparano il processo contro il comandante tedesco di Este, che si chiamava Lembcke. Con mio orgoglio, i miei libri sono prove a carico. L’accusa da parte italiana era sostenuta da un avvocato veronese che era, se non ricordo male, Guariente Guarienti. Questo avvocato mi ha chiesto di specificargli che cosa nei miei libri fosse storico e che cosa fosse fantastico. La notte prima della prima udienza il comandante Lembcke è nel suo salottino, con sul tavolo i documenti a carico tra cui i miei libri, e ha un infarto. Lo portano in ospedale e dopo una settimana muore. Per megalomania, per sete non-cristiana di vendetta, ho spesso immaginato quel mio primo libro come un colpo di fucile sparato dall’Italia alla Germania, per colpire al cuore (l’infarto) un nemico della mia gente. Passano gli anni e quei libri vengono adottati per un corso di Letteratura Italiana da una docente dell’università di Potsdam, Isabella von Treskow. I suoi studenti restano sbalorditi nel leggere le stragi tedesche nel Veneto padovano-veronese, vogliono saperne di più, cercano negli archivi dell’esercito e della magistratura, ma non trovano niente, perché? Perché, mi spiega Isabella, la Germania ha varato una legge, in base alla quale se un cittadino tedesco viene accusato di crimini che possono infangare la sua memoria, ma muore prima che il processo sia giunto a sentenza, ha questo diritto: non che le prove siano archiviate, ma che siano distrutte. È la cancellazione della storia. Ecco come i tedeschi si liberano del proprio passato: annullandolo, come mai esistito. Sì, Berlusconi ha sbagliato, la sua frase non regge. Ma non ditemi che i tedeschi hanno una gran voglia di riconoscere le colpe, far giustizia, espiarle. Noi sappiamo che non è vero.







Lui passerà per il camino
di Renzo Montagnoli

                           
Fu un inverno freddo quello del 1944 e con tanta, troppa neve. Quando la guerra sembrava concludersi da un momento all’altro, il proclama di Alexander rivolto ai partigiani affinché sospendessero le ostilità raggelò tutti: gli italiani, inermi, privi di tutto, sfibrati dai bombardamenti alleati e che sopravvivevano solo nell’attesa della liberazione, nonché gli stessi coraggiosi che da un anno combattevano, con enormi sacrifici, sia in montagna che in pianura, contro i nazifascisti.
Questi ultimi, ormai consapevoli dell’esito della guerra, intensificarono invece le ostilità, con una brutalità senza precedenti di cui furono vittime sia gli uomini della resistenza che la popolazione civile. Fu intensificata, fra l’altro, la caccia agli ebrei, con esiti raccapriccianti e di uno di questi il paese serba ancor oggi, commosso, il ricordo.
Agli inizi di dicembre la città e tutta la provincia furono oggetto di una retata capillare, a cui parteciparono sia le famigerate SS che le non meno odiate Camicie Nere.
Ben pochi israeliti riuscirono a sfuggire, o perché avvisati in tempo da qualche doppiogiochista che già allora cercava di assicurarsi il futuro, oppure per pura casualità, come avvenne per Isaia Forni, un bimbo di appena sei anni.
Quando la marmaglia sfondò la porta di casa e catturò i suoi genitori, lui si trovava da una vicina, una signora anziana che voleva fargli vedere il suo gattino. La donna, nonostante il pericolo, lo tenne con sé qualche giorno fino a quando, a una parente che le fece visita, propose di portarlo con lei in campagna, in un posto ritenuto più sicuro.
Fu così, che una settimana prima del Natale, Isaia Forni arrivò in paese e, poiché le sfortune spesso si sommano, subito nel pomeriggio perse la sua accompagnatrice, mitragliata da un aereo alleato mentre in bicicletta percorreva l’argine diretta a una fattoria per vedere di poter avere un po’ di latte.
Della presenza del piccolo era già stato informato il parroco, Don Zeffirino. Appresa la tragica notizia della scomparsa della signora, se lo portò in canonica e decise di tenerlo lì, nonostante fosse un giudeo, ma come ebbe a dire una volta, finita la guerra, davanti a Dio non ci sono cristiani o mussulmani, o ebrei, ma solo uomini, e nel caso specifico un bambino innocente, già duramente provato per la perdita dei suoi genitori.
Se lo coccolava con gli occhi, si divertiva a guardare il suo stupore quando lo portava in chiesa, provava una gioia immensa nel sentirsi il suo protettore e già sognava di renderlo partecipe della messa di mezzanotte, non per farne un cristiano, ma perché vedeva in lui, con tutte le sue sofferenze, l’immagine di Cristo.
Per quanto questa ospitalità fosse mantenuta il più possibile segreta, arrivò alle orecchie di qualcuno e così, l’antivigilia, una squadraccia fascista bussò con i soliti modi alla porta della canonica.
Don Zeffirino, sempre sul chi vive, li aveva visti arrivare e aveva nascosto prudentemente il bimbo nel confessionale.
- Sappiamo che c’è un piccolo ebreo e in base alle leggi sovrane della Repubblica Sociale Italiana dovete consegnarcelo.
Don Zeffirino guardò il capo manipolo con occhi stupiti e rispose: - Non c’è nessun ebreo, in questa canonica.
- C’è, ne siamo sicuri e se non è in canonica, è nascosto in chiesa. O ce loconsegnate, o andiamo a prenderlo.
- Vi assicuro che vi sbagliate e se vi azzardate a fare un altro passo, o a mettere i piedi in chiesa con queste armi spianate, dovrete passare sul mio corpo.
- Va bene, prendiamo atto delle vostre dichiarazioni e non vogliamo inimicarci anche il Padreterno. Adesso usciamo, ma chi ritornerà non avrà così tanti riguardi.
Girarono i tacchi e se andarono.
Don Zeffirino si accorse solo allora di quanto sudasse, nonostante il freddo. Era riuscito a parare il primo colpo, ma sapeva bene che il secondo, qualora al posto delle camicie nere fossero arrivati gli uomini delle SS, sarebbe stato fatale.

Fu così che andò a prendere il bimbo e lo portò, quasi nascondendolo sotto la tonaca, dalla Tilde, la moglie di Annibale Chiocchetti che solo più tardi sarebbe stato conosciuto con il soprannome di Guercio e che all’epoca era da qualche parte, sugli Appennini, con i partigiani.
- Tilde cara, ti chiedo un gran piacere: puoi tenere questo bambino per un po’, non tanto, finché si calmano le acque.
- Come è bello, Don Zeffirino: ha gli occhi neri, vivi, ma velati di tristezza. E’ rimasto orfano?
- Forse sì.
- In che senso?
E allora il prete raccontò tutta la storia.
- Può restare quanto vuole, come se fosse un altro mio figlio, e anzi può giocare con Giacomo, tanto dovrebbero avere più o meno la stessa età. - E dicendo così, nell’accarezzare i capelli di Isaia, rivolse uno sguardo dolce a quel figlio, avuto immediatamente prima della guerra e che così poco aveva conosciuto il suo papà.
- Mi raccomando solo una cosa: nessuno deve sapere che c’è.
- Naturalmente.
Come preavvisato dai fascisti, il giorno dopo arrivarono, su una macchina nera due loschi figuri, lugubri e laidi nell’aspetto, che si qualificarono come membri della Gestapo e che senza chiedere tanti permessi cercarono in ogni dove, nella canonica e in chiesa, e che se andarono sbattendo la porta.
I due bimbi fecero subito amicizia e poiché Giacomo aveva acquisito dalla madre una fervente religiosità, il giorno della Vigilia si mise a fare il presepe.
Isaia lo guardava e presto cominciò a incuriosirsi e chiese di partecipare a quello che credeva un gioco.
Giacomo, con la naturalezza tipica dei bimbi, gli spiegò che era quasi un rito religioso e Isaia si mostrò ulteriormente interessato.
- Chi è quel bambino che metti nella mangiatoia?
- Gesù.
- E chi è Gesù.
- Era un bambino come noi, ma poi diventò grande, tanto grande, al punto che quando parlava tutta la gente l’ascoltava e lo seguiva nel suo girovagare.
- Che diceva?
- Diceva di essere il figlio di Dio e che era venuto sulla terra per redimere gli uomini, per farli diventare tutti buoni e bravi, e inoltre diceva che siamo tutti fratelli.
- Era grande sì, quasi come il mio papà.
- Anche quasi come il mio, ma di più, perché lui è il papà di tutti.
- E’ vissuto tanto tempo fa?
- Quasi duemila anni fa.
- Tanto, e lo si ricorda sempre così, come un bambino?
- No, anche come un uomo adulto inchiodato a una croce.
- Ah, sì, quando l’uomo con il vestito lungo nero mi ha nascosto in una specie di casetta c’era un uomo grande, mezzo nudo, appeso a due assi incrociate e con una corona di spine in testa.
- Quello è Gesù.
- Ma perché ricordarlo così?
- Perché lui si è fatto giustiziare per salvarci tutti.
- Che buono che doveva essere! E chi è stato così cattivo con lui?
Giacomo rimase assorto, non sapendo che rispondere, nel timore di offendere il suo piccolo amico e poi sbottò:
- Quelli che non erano cristiani come lui.
- Dovevano essere proprio cattivi per fare una cosa simile.
- Sì, ma l’hanno fatto per ignoranza.
- Povero Gesù, trattato male come noi ebrei.
Il Natale trascorse abbastanza tranquillo e perfino Pippo, l’aereo da bombardamento che assillava le notti della gente, se ne stette un po’ alla larga.
Poi venne Santo Stefano e la Tilde e Don Zeffirino cominciarono a pensare che Isaia era finalmente al sicuro, ma l’ultimo giorno dell’anno la Gestapo ritornò e andò a colpo sicuro.
Quando bussarono pesantemente alla porta, la Tilde sentì una fitta al cuore e capì che era finita.
Aprì tremando e i due corvacci in nero entrarono senza presentarsi.
- C’è un bambino ebreo e noi lo vogliamo.
- Non ci sono bambini ebrei.
- Noi vediamo due bambini e siamo sicuri che uno è ebreo e che si chiama Isaia Forni.
- No, c’è solo mio figlio Giacomo e suo cugino Ettore, che ha perso i genitori e la casa in un bombardamento.
- Siamo stati anche troppo pazienti, ma tutto ha un limite. Ripeto: vogliamo, e subito, l’ebreo!
- Quale ebreo?
Per tutta risposta, la Tilde si prese un ceffone che la fece cadere a terra mentre i due piccoli cominciavano a piangere.
- Non lo ripeto più: quale è l’ebreo?
Non ci furono risposte.
- Va bene! Facciamo così: li porto via tutti e due.
- No, vi prego no, se avete un cuore, se anche voi avete dei figli, non fate una cosa del genere.
- L’ebreo, o li porto via entrambi.
Fu allora che, con il capo chino, Isaia si fece avanti e disse, con voce tremante: - Sono io, Isaia Forni.
Lo presero e alla domanda della Tilde su dove l’avrebbero portato, risposero sogghignando:
- Lui passerà per il camino.
Ancora non si sapeva che volesse dire, ma la Tilde pensò al peggio e guardò per l’ultima volta, con animo angosciato, quell’esserino che veniva portato via come fosse un delinquente.
Non fu difficile scoprire chi fosse stato l’ignobile delatore, anche perchè AldoMarchetti, soprannominato Gerarchetto, lo stesso che aveva indotto con il suo comportamento Annibale Chiocchetti a darsi alla macchia, se ne vantò la sera stessa all’osteria.

La guerra terminò e di Isaia Forni non si ebbero più notizie, se non dopo un paio d’anni, quando la comunità israelitica lo rintracciò fra i deceduti del lager di Buchenwald. Don Zeffirino non lo dimenticò mai e fu sempre presente nelle sue messe dei morti.
Quanto a Gerarchetto, scomparso dalla scena negli ultimi giorni del conflitto, ricomparve dopo la costituente fra le file democristiane e fu uno dei primi deputati del neoparlamento, e tutto questo come se nulla fosse accaduto, come tanti altri, del resto.


Da Storie di Paese 





I sommersi e i salvati
di Primo Levi
Prefazione di Tzvetan Todorov
Posftazione di Walter Barberis
In copertina: elaborazione grafica  particolare del ciclo di affreschi di LucaSignorelli, Cattedrale di Orvieto, Cappella della Madonna di San Brizio© SandroVannini / Corbis
Edizioni Einaudi
Saggistica storica e antropologica
Collana Super ET
Pagg. XII – 202
ISBN  9788806186524
Prezzo € 11,00



Affinché non si ripeta


«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».
Primo Levi

Quarant’anni dopo di Se questo è un uomo, Primo Levi torna a scrivere dei Lager, non con un romanzo, oppure con una puntualizzazione di quella che fu la sua tragica esperienza di recluso, bensì per effettuare un’attenta e approfondita analisi del sistema dei campi di concentramento come mezzo per affermare il potere assoluto, nonché, altro aspetto di rilevante interesse, per evidenziare i comportamenti degli esseri umani, sia a livello individuale che collettivo, così come determinato dalla vita non vita del Lager. Il suo approccio non è per niente enfatico, anzi Levi dimostra una straordinaria lucidità, come se il tempo trascorso dall’evento di cui è stato vittima avesse smussato quella carica interiore di rabbia e di dolore; anzi, ritiene opportuno premettere come la memoria sia sempre fallace e come l’aspetto temporale, cioè gli anni trascorsi, possano nuocere alla trattazione per involontarie omissioni, oppure trasgressioni dei fatti accaduti. L’autore è un uomo di scienza e come tale persegue quotidianamente la ricerca della verità, nel suo caso tanto più importante non per comprendere, ma per poter determinare come un orrore simile sia potuto accadere. Non si tratta solo di un’analisi storica, ma anche di un’indagine antropologica le cui risultanze non sono fini a se stesse, ma travalicano il fatto, di per sé un unicum fino ad ora, al fine di conoscere, affinché non si debba ripetere. In questo modo Levi trova delle risposte che sono basilari per una corretta interpretazione della storia del secolo scorso e per una definizione stratigrafica delle caratteristiche individuali e sociali dell’uomo contemporaneo. Fra l’altro, ho rilevato la straordinaria visione d’insieme che porta l’autore a proiettare la tragedia dell’olocausto ad analoghi avvenimenti successivi che hanno interessato popoli che noi europei ben poco conosciamo, come per esempio la follia omicida del regime di Pol Pot in Cambogia.
E’ questo il risultato delle risposte alle domande che consistono essenzialmente in una metodologica ricerca della verità. Levi si chiede, infatti, quali siano le strutture gerarchiche su cui basa un regime autoritario, quali sono i metodi per annichilire un individuo, per distruggere insomma la sua personalità, quali rapporti intercorrono fra i carnefici e le vittime, come può sussistere una forma di collaborazione, la cosiddetta zona grigia. Tutto questo costituisce questo splendido saggio, diviso schematicamente in capitoli che trattano di volta in volta un argomento, con le inevitabili domande accompagnate da risposte del tutto logiche, che costituiscono per l’autore non la verità assoluta, ma un’interpretazione, e in questo credo di poter dire che tuttavia si avvicina di molto alla realtà oggettiva. Devo pure riconoscere a Levi che già il titolo del libro ci offre uno spaccato esatto della divisione degli internati fra quelli inevitabilmente destinati alla morte (lo erano tutti, ma la maggior parte, annichilita, si lasciava andare, non reagiva), cioè cosiddetti sommersi, e i salvati, quelli che si arrangiavano, magari con un lavoro particolarmente richiesto (sarto, ciabattino, muratore, ecc.) e che nonostante tutto cercavano di porre ostacoli al loro crudele destino di morituri, vale a dire insomma chi lottava ancora per sopravvivere. A differenza del suo romanzo più famoso (Se questo è un uomo), anche qui da testimone l’autore va oltre la ristretta visione del suo essere per giungere a una visione, che potrei dire universale, dei comportamenti, sia degli internati, che degli aguzzini, in cui cerca di trovare le attenuanti (l’educazione ricevuta, l’indottrinamento). Ma c’è anche una terza categoria, fuori dai reticolati,  cioè il popolo tedesco, che è poi la più importante, perché l’aver creduto prima ciecamente a un populista come Hitler, subendone il fascino, e l’averlo poi assecondato sono pregiudiziali senza le quali non ci sarebbero state né la guerra, né la Shoah; e quel che è peggio è il silenzio indifferente dei tanti che  pur non essendo aguzzini, sapevano e tacevano, a loro modo in preda a una sottomissione della propria personalità a quella artefatta costruita dal nazismo. Per loro in effetti di scuse non ce ne sono ed è proprio per questo comportamento, per questa ardente o indifferente assuefazione a un regime, che  la tragedia potrebbe ripetersi, in altre zone, in altre forme, con vittime diverse.
Levi sembra volerci ammonire affinché mai e poi mai una collettività, un popolo, affidinoil loro destino a un potere assoluto, con un mandato irrevocabile con cui viene segnata la sorte non solo dei mandatari, ma soprattutto dei soggetti più deboli, di coloro che un regime, anche per nascondere le sue incapacità e scelleratezze, va ad indicare di volta come i responsabili di fallimenti, capri espiatori dati in pasto alle belve dell’odio e dell’indifferenza.
La lettura non è solo consigliata, ma è caldamente raccomandata. 

Primo Levi (Torino 1919-1987) ha pubblicato presso Einaudi Se questo è un uomoLa treguaStorie naturaliVizio di formaIl sistema periodicoLa chiave a stella; La ricerca delle radici. Antologia personaleLilìt e altri raccontiSe non ora, quando?; L'altrui mestiereI sommersi e i salvati. Sempre da Einaudi sono usciti postumi i due volumi delle OpereConversazioni e interviste (1963-1987);L'ultimo Natale di guerra;L'asimmetria e la vitaArticoli e saggi 1955-1987;Tutti i racconti, sempre a cura di MarcoBelpoliti.

Recensione di Renzo Montagnoli


domenica 18 gennaio 2015

L’ultima foglia, di Renzo Montagnoli



L’ultima foglia

di Renzo Montagnoli




Son l’ultima rimasta

su un ramo inumidito

le mie sorelle già son partite

al soffio del vento di novembre

lo stesso che mi sferza

e mi porterà con sé.

Ma prima di finire

giù nel fango

vorrei che fosse un volo lungo

a rivedere l’acqua della roggia

la lepre che nel campo pastura

a scorgere ancor per una volta

quel cielo che è ora

così imbronciato.

Poi sarà solo il mio destino

di tornare alla terra

certa che a primavera

altri germogli coroneranno

l’albero mio amato

perché così è la vita

in cui per tutti

c’è un inizio

e poi una fine.


Da La pietà


Per quanto ovvio, la canzone che s’accompagna alla poesia è Le fofglie morte:



N.B.: la fotografia proviene da  http://www.panoramio.com/photo/30067155


L'arcivescovo deve morire Oscar Romero e il suo popolo, di Ettore Masina



L'arcivescovo deve morire
Oscar Romero e il suo popolo
di Ettore Masina
Prefazione di Leonardo Boff
Edizioni Il Margine
Storia biografia
Collana Impronte
Pagg. 376
ISBN 978-88-6089-076-4
Prezzo € 18,00


Fede e giustizia


Oscar Arnulfo Romero y Galdàmez  (Ciudad Barrios, 15 agosto 1917 – San Salvador, 24 marzo 1980). In queste due date, come per tutti gli esseri umani, è ricompreso il percorso terreno di questo sacerdote, di famiglia povera, ma non misera, avviato al seminario dall’alcade del suo paese natale, in quanto sin da bambino dimostrava una concreta vocazione religiosa. E in effetti fu allievo attento, studioso e coscienzioso, tanto da meritare l’accesso alla Pontificia Università Gregoriana, conseguendo il baccellierato in Teologia. Ritornato al suo paese, svolse il suo ministero sacerdotale con autentica passione, facendosi benvolere dalla popolazione, costituita quasi esclusivamente da contadini analfabeti e miseri, che lo apprezzavano per la sua innata umiltà. Benché conservatore, legato quindi a una visione della Chiesa come istituzione chiusa, avulsa dalla realtà dei fedeli, sarà proprio questa vicinanza con una classe disperatamente povera, vessata da pochi grandi latifondisti, sempre pronti a far reprimere nel sangue qualsiasi moto di protesta, che cambierà profondamente l’uomo, capace di comprendere che un religioso non deve vivere nella stretta osservanza delle norme della Chiesa, ma deve essere il Cristo di tutti gli uomini e in particolare di quelli più sfortunati. È  così che si accostò alla teoria della liberazione con cui si affermano come prioritari i valori di emancipazione sociale e politica che figurano nel messaggio cristiano. Fu una vera e propria trasformazione e Oscar Romero, anche per effetto delle continue violenze  degli squadroni della morte, che tolsero la vita a persone e a collaboratori a lui particolarmente cari, diventato arcivescovo di San Salvador, cominciò a denunciare pubblicamente i misfatti che insanguinavano il paese, venendo meno alla tradizionale accondiscendenza della sua carica con le famiglie che detenevano il potere. Le sue omelie, trasmesse dalla radio diocesana, furono ascoltate anche all’estero, pur se non apprezzate dal Vaticano. Non sostenuto da Paolo VI e nemmeno dal suo successore Giovanni Paolo II divenne così sicuro bersaglio dei latifondisti; tuttavia, lui continuò a predicare, a invocare la pace e la giustizia, consapevole, come il Cristo, che la sua fine era prossima. Infatti, il 24 marzo 1980, mentre stava celebrando la Messa nella cappella dell’Ospedale della Divina Provvidenza, in cui viveva in un piccolo locale dalla sua nomina ad arcivescovo, un sicario lo uccise con un solo colpo di pistola. Se ne andò da questo mondo povero come aveva sempre vissuto, per non essere diverso dai suoi amati poveri. Come non infrequente nella storia della Chiesa, un personaggio scomodo da vivo diventa estremamente utile da morto e fu così che nel 1997 venne avviata la causa di beatificazione, ancora non conclusa, perché stranamente ferma per anni, ma sollecitata ora fermamente da papa Francesco.
Io ho riassunto in poche righe una vita, più che altro per informare chi legge di che si tratta, ma la storia di questo uomo debole di salute, gracile, ma dalla volontà ferrea, riveniente da una fede ben salda, è narrata in modo magistrale in questo libro da Ettore Masina. La sua è una scrittura piana, non enfatica ma vibrante, precisa senza essere pignola, circostanziata nel raccontare gli accadimenti senza che tuttavia sfoci, anche appena, nello schema di un verbale. E tutto appare in crescendo, mettendo in luce quegli eventi che sono indispensabili per comprendere il personaggio. Ne esce così una splendida biografia che ha la forza e la bellezza del romanzo senza esserlo, che porta a una lettura veramente appassionante, al punto che ho ritratto, sovente, l’impressione di trovarmi al fianco di Romero, davanti a una folla di disperati campesinos che chiedono solo di vivere e che nonostante tutto vanno avanti grazie alla loro fede religiosa. Chiedono, tuttavia, a quell’uomo che li ascolta un po’ di giustizia e lui parla a loro con le parole di Cristo, con quel messaggio di pace e di serenità che oggi ha più di duemila anni e che da sempre troppi non vogliono udire.
Leggetelo, perché è un’esperienza indimenticabile.

Ettore Masina (Breno, 1928), giornalista e scrittore, una delle voci più importanti del cattolicesimo critico italiano, ha seguito come vaticanista del quotidiano "Il Giorno" il Concilio Vaticano II e nel 1964 ha fondato con il prete operaio Paul Gauthier l'associazione di solidarietà internazionale "Rete Radiè Resch" (dal nome di una bambina palestinese morta di stenti nella sua casa fatiscente). Dopo aver lavorato al Tg2, dal 1983 al 1992 è stato deputato nel gruppo della Sinistra indipendente e nella X legislatura è stato presidente del Comitato permanente per i diritti umani. Tra i suoi saggi: Il Dio in ginocchio (Rusconi, 1982), Il califfo ci manda a dire, (Rusconi, 1983), Un inverno al Sud. Cile, Vietnam, Sudafrica, Palestina(Marietti, 1992), L'airone di Orbetello. Storia e storie di un cattocomunista(Rubbettino, 2005). Tra i romanzi, Il ferro e il miele (Rusconi, 1983), Comprare un santo (Camunia, 1994), Il Vincere (San Paolo, 1994).



Recensione di Renzo Montagnoli