mercoledì 2 settembre 2015

Compagni di classe, di Renzo Montagnoli

                                                                  Foto da web
                                                       


Compagni di classe
di Renzo Montagnoli



Non c’è che dire: fa caldo, anche troppo, ma ho promesso, anzi ho manifestato la speranza al Guercio di tornare a fargli visita anche questa sera e avverto come una minaccia incombente di un tempo che sta per finire e che mi sprona ad andare.
Appena fuori casa, lontano dal refrigerio del climatizzatore, sbatto contro il muro del caldo. Ossessivo, asfissiante, magmatico. È sera, ma la temperatura non accenna a scendere e in giro non c’è quasi nessuno, fatta eccezione per un paio di vecchine sull’uscio di casa a farsi aria con i ventagli, con ai piedi gli zampironi accesi. Loro forse non saranno tormentate dalle zanzare che invece si precipitano su di me, scendono in picchiata dritte come Stukas e mi punzecchiano indifferenti alle mie smanacciate. L’asfalto è ribollente, sembra quasi sciogliersi e sotto i miei piedi avverto un che di spugnoso che mi induce ad affrettare il passo. Ecco finalmente la porta del Guercio, socchiusa, segno che conta sulla mia visita. Entro e nella penombra lo scorgo intento a osservare alcune fotografie.
- Ciao. Vecchi ricordi?
Si volta e noto il suo viso sempre più scarno, in cui tuttavia l’unico occhio brilla vivo e attento.
- Ciao. Sì, immagini di tanto tempo fa. Sai, da vecchi si dimenticano i fatti recenti e si ha una memoria considerevole di quelli accaduti magari una cinquantina di anni prima.
- È vero. Ma dimmi che cosa guardi, se non è di disturbo.
Ripone la foto che ha in mano in uno scatolone di cartone, da cui ne prende un’altra, la osserva e gli si accende un sorriso.
. Vedi questa fotografia è quella della quinta classe delle elementari. Vieni vicino, guardala con me.
Gli sono al fianco e sorrido anch’io nel guardare quell’immagine color seppia: un gruppo di bambini vestiti da Balilla e un’arcigna maestra, una zitella nata, che sembra raccoglierli sotto di sé come una chioccia con i suoi pulcini.
- L’hai notata anche tu la maestra Zambretti, una donna severissima, ma non cattiva, e anche se ha l’aspetto di una zitella per vocazione, non lo era. Sì, non era sposata, ma era stata a lungo fidanzata con un geometra di Cremona , e per quel che so, avevano tutta l’intenzione di sposarsi, ma poi venne la guerra, la Grande Guerra, e si dovette rimandare a miglior epoca. Lui infatti partì per il fronte e non fece più ritorno, ucciso in una delle tante battaglie dell’Isonzo. Lei lo doveva veramente amare e anche se intorno le ronzava più di un moscone, si negò sempre, fedele a quella promessa di matrimonio che si erano scambiati. È un po’ triste e forse un certo carattere acido che mostrava a scuola .- ma c’è da dire che noi eravamo dei birbanti – era dovuto alla sua condizione, a quell’amarezza per una storia d’amore tragicamente interrotta.
- Dimmi degli altri, dei tuoi compagni di classe.
- Li ricordo bene e quasi tutti hanno già finito i loro giorni, chi prima, chi dopo.
- Magari visto che siete disposti su due file, con la seconda probabilmente su una panca, comincia magari da questa.
- Va  bene. Il primo da sinistra mi sembra si chiamasse Landini, forse Landrini, ma era conosciuto come “parsut”, e in effetti era cicciottello, tanto da assomigliare a un prosciutto. L’ho perso di vista, non so più nulla di lui, perché dopo le elementari si è trasferito con la famiglia in Abruzzo, dove il padre, brigadiere dei carabinieri, promosso maresciallo, era stato destinato a una Stazione dell’arma.
Il secondo, beh il secondo, guarda bene che lo conosci anche tu.
- Non dirmi che sei tu. Ma sì, sei proprio tu, con una faccia da birichino che non mi sarei aspettato.
- Te l’avevo detto che eravamo dei birbanti, cresciuti non allo sbando, ma in grande libertà e, diciamolo francamente, un po’ insofferenti a certe regole.
- E quello alla tua sinistra?
- Franco, Franco Festucci, un buon bambino e da grande una brava persona.  Ti ho già detto di lui, anzi di suo padre, che per non poco tempo stava a lungo in stazione nella speranza di vederlo ritornare con un treno. Il suo povero figlio finì disperso in Russia, ma che vuol dire disperso? Che è morto o che magari è vivo?
No, Franco è uno dei tanti che , o nel corso della ritirata, sfinito, si è lasciato andare sulla neve, oppure è morto di fame, di fatica in un gulag staliniano. Non sapere che fine ha fatto tuo figlio è un dramma, perché si finisce con l’aggrapparsi a un’improbabile speranza.
Si asciuga una lacrima, ricordando anche probabilmente il suo infruttuoso interessamento per avere notizie più certe.
- Passiamo all’altro.
-m Questo, un po’ strabico, è Benito Vessoni, un bambino sempre malaticcio, pargolo di genitori tisici,e infatti anche lui contrasse la tubercolosi, che se lo portò all’altro mondo che non aveva ancora vent’anni.
Di fianco a lui, questo con i capelli corti corti, è Gino d’la bugandera, soprannome dato a Gino Avisani per distinguerlo dall’altro Gino che avevano in classe. Come puoi ben comprendere sua madre faceva la lavandaia e fra un lenzuolo e l’altro, ben insaponato e poi sciacquato, trovava anche il tempo per fare un figlio, sempre da uomini diversi, e in questo modo la famiglia era ben allargata e Gino poteva contare su quattro fratelli e tre sorelle. È perfino superfluo che ti dica che vivevano in condizioni disagiate, con poco cibo e una fame atavica che riuscì a calmare solo nel dopoguerra quando riuscì a metter su un negozio di generi alimentari. Lì, fra coppe, salami e prosciutti, era rifiorito; ormai calmato lo stomaco, passava ore ed ore ad annusare i profumi dei salumi, quei profumi che da bambino erano solo nei suoi sogni. Dopo le prime abbuffate, con il rischio di sguarnire la bottega, gli era arrivata una pace dei sensi in cui non aveva mai sperato; inoltre l’armonia familiare (era sposato con una brava donna che gli aveva dato due bei figli) lo hanno condotto a una serena vecchiaia. No, non è morto, ma non abita più in paese, bensì in città.
L’altro Gino della classe è quello che gli sta di fianco e, come noterai, ha una faccia da birbante che è unica. Quante ne abbiamo combinate io e Gino Cucconi, quanti nidi di uccelli abbiamo tirato giù; è stata una frenesia di giovinezza, sempre a correre durante le vacanze e a combinarne di continuo. Poi, con la guerra, ci siamo persi di vista, soprattutto dopo l’8 settembre del 1943: io con i partigiani, lui con i repubblichini. Chi l’avrebbe mai detto che Gino si sarebbe messo a sparare contro gli italiani, lui che sì era un po’ birbante, ma era anche un buon diavolo. E il bello che entrambi eravamo a conoscenza di essere su opposti fronti e mi auguro che anche lui sperasse di non doverci incontrare in battaglia.
Io sono tornato, lui no, caduto in un’imboscata in Val Pelice. Riposa nel nostro camposanto e, quando ero più in forze, ogni tanto lo andavo a trovare e ogni volta mi veniva la voglia di chiedergli: perché? Dalla foto incorniciata sembrava guardarmi con l’espressione di uno che non conosceva la risposta.
- E penso che non fosse l’unico fra i repubblichini a non conoscere la risposta, vero Guercio?
- Sì, ma non la conoscevano perché non si erano mai posti la domanda.
- Proseguiamo su questa fila. Vicino a Gino Cucconi  questo dall’aria mite, quasi bovina, è Cosimo Gasparini. Un tipo un po’ imbranato, ma buono, buono come il pane. Te n’ho già parlato: è stato il mio compagno di iniziazione sessuale, abortita almeno nel mio caso.
- Non ho presente.
- Dai, non ti ricordi della visita che ho fatto con lui al casino?
- Sì, è vero, è anche divertente.
- Sì, a pensarci adesso è divertente.
Si alza, a fatica, prende il bicchiere che ha sul tavolo e beve l’acqua a piccoli sorsi, come se deglutire quel liquido fosse già uno sforzo.
- Andiamo avanti. Qui ce ne sono due che non ricordo, non erano del paese e probabilmente li ho avuti compagni di scuola solo in quella classe. Non ti so dire altro.
Questo, invece, che ride a bocca aperta tanto da mostrare la mancanza di qualche dente, ha una storia particolare.
Fredin, vale a dire Alfredo Taraschi, bambino vivace e intelligente, era il migliore della classe; amava la vita, nonostante fosse povero tanto che quando tornava da scuolaandava a lavorare fino a sera nel negozio di un ciabattino. Eppure, la felicità sembrava appartenergli e sprizzava da tutti i pori, come testimonia anche questa sua risata al flash del fotografo. Non era il mio compagno di giochi durante le vacanze, che passava sgobbando a risuolare scarpe, ma, essendo del paese, ogni tanto ci si vedeva. Quello fu il suo ultimo anno scolastico e dopo ci fu solo lavoro; faticava, certo, ma era sempre contento. Piano piano mise da parte un gruzzoletto con cui rilevò la bottega; passavo di là e lui ribatteva i chiodi nelle suole, ma aveva sempre pronta una battuta scherzosa, insomma era un piacere fargli visita. Durante la guerra non fece il militare, perché soffriva di cuore, il che non gli impedì però di condurre una vita normale. Si sposò durante il conflitto con una bella ragazza, da cui ebbe un figlio. Era innamoratissimo e me lo diceva tutte le volte che lo vedevo  e la sua felicità mi era di conforto, perché vedere uno che è pienamente contento della vita non è frequente. Poi, si era nel 1954, una mattina non aprì bottega. Lo cercarono, per prima la moglie, senza trovarlo, ma quando si aprì il negozio lui era dentro, penzolante da una corda legata a una trave.
Fu un colpo per tutti e non avremmo mai saputo il motivo di quel gesto estremo se la moglie, in lacrime, non avesse parlato alla mia Tilde.
- Cos’era accaduto di tanto grave?
- Alfredo era tornato improvvisamente a casa dal negozio, o perché aveva dimenticato qualche cosa, o perché sospettava, e aveva trovato la moglie a letto con un uomo. Non disse nulla, rimase un attimo fermo sulla porta della camera da letto, poi ritornò sui suoi passi, ma prima di uscire esplose in una risata sguaiata, quasi agghiacciante.  
Guardo, più che altro per abitudine, l’orologio: segna le 21,30.
- Devi andare?
No – mi affretto a rispondere – posso restare ancora un bel po’, anche perché mi interessano i personaggi di questa fotografia.
- Bene, allora vado avanti perché adesso dovrebbe venire il meglio. Passiamo a quelli in piedi non sulla panca, insomma a quelli in prima fila.
Il primo da sinistra, con quell’aria un po’ arrabbiata, e già allora sembrava che l’avesse a morte con tutti, è Aldo Marchetti.
- Questo nome l’ho già sentito.
- Appunto, quello a cui ho dato un pugno il 9 settembre 1943, quello chiamato “Gerarchetto”. Già da bambino era un essere viscido, un compagno di cui mai fidarsi e per questo isolato da tutti. Privo di una propria personalità e di mediocri capacità pareva destinato a un avvenire in ombra, ma prima il fascismo, poi la guerra e l’armistizio badogliano gli vennero prontamente in soccorso. Erano tutte occasioni per lui  di mettersi in luce grazie a un minimo di potere che gli derivava dalla divisa e, finito il conflitto, dopo essere stato ben nascosto in una paesino di montagna, calmatesi le acque, riapparve, dedicandosi a una nuova e più proficua attività: la politica, in cui ne combinò di cotte e di crude. Con questo curriculum si presentò poi al Creatore, essendo arrivato al capolinea, e credo che Dio, nel giudicarlo, abbia fatto fatica a restare calmo. E’ un po’ che è morto, ma credo che se fosse ancora vivo farebbe parte della cerchia di amici ossequianti di quel piccoletto di Arcore che si crede una divinità e che invece è una nullità.
- Comunque anche lui è arrivato al capolinea, magari un po’ tardi, se su considerano le sue malefatte. Andiamo avanti.
- A essere sinceri mi sento un po’ affaticato e forse è meglio che proseguiamo un’altra sera.
Lo guardo: il respiro si è fatto affannoso, le mani gli tremano.
- Sì, Guercio, ci vediamo alla stessa ora e tu riposati, perché ci sono ancora un bel po’ di compagni di classe; buona notte, vecchio mio.
Gli esce un sibilo dalla bocca e comprendo che è il suo commiato; mi prende le mani e cerca di stringerle, ma non c’è più forza.
Vai – sospira.
Ed esco con il cuore in tumulto, sperando che lui ancora ci sia domani sera. 

                                 -°-°-°-

Ritorno la sera dopo, con il conforto di sapere che è ancora lì ad aspettarmi.
- Ciao.
- Ciao. Vogliamo proseguire?
- Ma certo.
Mi siedo accanto a lui con la fotografia in mano e noto – prima non ci avevo fatto caso – un bambino dal volto malinconico che si regge sulle stampelle.
Glielo indico.
- Guercio, chi è questo?
Non mi risponde e una lacrima fa capolino dall’occhio sano.
- Ti dispiace parlarne?
- No, solo che è una storia molto lunga.
- Va bene, racconta, magari saltiamo gli altri.
- E perché non nominarli? Ci accorgiamo degli altri solo quando le nostre strade siincrociano e allora comprendiamo che la vita di ognuno di noi è unica e irripetibile, anche la più oscura.
Per loro comunque sarò breve: questo biondino con la frangetta è Aldo Mercanti; subito dopo la scuola si è trasferito con i suoi a Varese e da allora non ne so più nulla. Ricordo solo che era tutto casa, scuola e chiesa.
- E il suo vicino, questo ciccione un po’ strabico?
- Quello non è morto, abita da un po’ di tempo in città; si chiama Alberto Gradi, più conosciuto, anche successivamente, come Pancho, e puoi ben capire il perché: l’ho sempre considerato un po’ tonto, ma mi sbagliavo, perché ha studiato con profitto e si è addirittura laureato in lettere, insegnando a lungo italiano al liceo.
- E quello dopo?
- Ne ho un vago ricordo; mi pare si chiamasse Giorgio, ma non mi viene in mente il cognome. Una brava persona che la campagna di Albania si è portata via.
Osservo attentamente il bimbo con le grucce e mi sembra quasi fuori posto fra quei suoi coetanei che potevano correre e giocare.
- Hai notato anche tu, vero, quegli occhi malinconici’
- Sì, e posso anche immaginare che il peso della sua disgrazia, per quanto accettata, lo ponesse sempre di fronte alla sua diversità, a quanto avevano gli altri che a lui era precluso.
- Hai detto bene. Diego, si chiamava Diego Accorsi, era stato colpito ancora in fasce dalla poliomielite. Allora non c’era il vaccino e i casi erano abbastanza frequenti, e lui era uno di questi. Bambino sensibile e anche intelligente portava in silenzio il suo dolore; mai che abbia percepito, anche dopo, un minimo d’invidia per la mia più fortunata condizione. Era buono e avendo compreso che dalla vita avrebbe potuto avere ben poco, viveva in funzione del suo fratello maggiore Piero, che venerava per la sua franchezza e la sua decisione. E questi stava quasi sempre con lui e se usciva di casa se lo portava dietro, cercando di fargli vivere la sua normalissima vita, cosa ovviamente spesso impossibile, soprattutto per certi eventi. Così Piero prese sempre meno ad uscire con Diego, quando trovò una ragazza che gli piaceva e che prese a frequentare. L’altro, poco a poco, finì per isolarsi in casa, pur continuando a venerare il fratello, ma credo che non sia difficile immaginare quanto anche lui desiderasse la carezza di una mano femminile, un profumo di donna che lo avvolgesse come in un bozzolo.
Trasse di tasca un fazzoletto e si asciugò una lacrima; ormai la sua voce era rotta dall’emozione.   -Povero, Diego, una vita senza anche il più piccolo di quei rari piaceri che ci vengono riservati, tanto che penso sempre – e Dio mi perdoni – che era meglio se moriva da piccolo. La storia, però, è lunga per un altro motivo.
- Racconta, ma senza agitarti.
- Senza agitarmi…è una parola. Tutto ha inizio una sera del novembre del 1944. Piero erada tempo con i partigiani, mentre Diego era rimasto alla vecchia casa colonica con il padre (la madre era morta di tubercolosi un paio di anni prima). C’era freddo e una nebbia fitta avvolgeva ogni cosa, una condizione ideale per spostarsi senza essere scoperti ed è quello che deve aver pensato Piero, sceso al paese per incontrarsi con la fidanzata, il che effettivamente avvenne. Dopo un po’ di scambi di tenerezze, a notte ormai inoltrata, pensò che era giusto fare un salto a casa a salutare il padre e Diego, e così fece. Mentre raccontava ai congiunti la sua vita da patriota, la casa fu circondata dalle Brigate nere, che evidentemente dovevano avere avuto una soffiata. I tre fecero appena in tempo a rifugiarsi nel fienile, il vecchio padre in alto coperto dalla paglia, Piero sotto un vecchio trattore e  Diego rimase lì, per le sue difficoltà deambulatorie e anche perché contava sul fatto che la sua disgrazia avrebbe costituito una remora per le violenze degli sgherri. Non fu così: entrarono in dieci, capeggiati dai due fratelli Giovanni e Benito Aristarco e da Franco Bonvini, nomi all’epoca tristemente noti per i loro crimini efferati.
Gli chiesero del fratello e lui rispose che non lo vedeva da mesi; gli domandarono del padre e lui dichiarò che era a letto a dormire. Ovviamente non fu creduto e, prima gli spezzarono le grucce, di modo che ruzzolò a terra, e poi  lo presero a calci e a pugni, gli saltarono perfino sulla testa, fino a quando esalò l’ultimo respiro.
Piero vedeva e non poteva intervenire, perché disarmato; il padre, invece, fu colto da infarto alle prime sevizie inferte al figlio e morì così, coperto dalla paglia. Poi i criminali se ne andarono, non senza aver dato fuoco prima alla casa.
Piero fece appena in tempo a mettersi in salvo, pur con i capelli bruciacchiati e, mentre ritornava al suo reparto partigiano, fra un singhiozzo e l’altro, giurò che si sarebbe vendicato. E così fu.
Il giorno 6 gennaio 1945 fu ritrovato in riva al Po quel che restava di Franco Bonvini; secondo il maresciallo dei carabinieri l’uomo era stato torturato e infine tagliato in pezzi, con una sega, forse quando era ancora vivo. Non c’erano tracce, tranne un biglietto con su scritto: e ora tocca ai fratelli Aristarco.      
Il militare sapeva a cosa si riferiva quella scritta e chi era stato l’omicida, lo sapeva come lo sapevano tutti in paese, ma erano tempi bui, pericolosi e poi era già chiara l’imminente fine del regime, così che avviò le indagini con lo stesso zelo e celerità di una brigosa pratica amministrativa.
Per quanto ovvio  i fratelli Aristarco cominciarono a trascorrere dei giorni tremendi, spesso asserragliati in casa, oppure in giro con una scorta armata.
Giovanni Aristarco il 20 gennaio dovette uscire per motivi indifferibili di servizio e portò con sé cinque sgherri, ma alla sera non tornò nessuno e non se ne sarebbe saputo più nulla se ai primi di febbraio un contadino non avesse trovato nel suo campo una testa recisa dal tronco che il solito maresciallo identificò per quella di Giovanni Aristarco.
Poi non accadde più nulla, venne il XXV aprile con la liberazione e iniziò la caccia ai fascisti. Benito Aristarco fu arrestato con gravi accuse, ma mentre veniva trasportato alla casa circondariale della città alla scorta fu intimato l’alt da un gruppo numeroso e agguerrito di partigiani. Deposero le armi e consegnarono il prigioniero, come fu loro intimato. Questi venne interrogato da un uomo che qualcuno riconobbe come Piero Accorsi, poi fu ammazzato di botte.
Perché interrogarlo, ti chiederai? Per sapere chi aveva fatto la soffiata ed ebbe la risposta: il  farmacista del paese, un delatore per vocazione. Io lo so, perché Piero mi ha raccontato tutto.
Poi, passati i primi mesi di pace, con il progressivo ristabilirsi dell’ordine, vendicarsi sul farmacista diventava problematico. Piero, però, escogitò un sistema del tutto ingegnoso, contando sul fatto che la sua futura vittima temesse di essere identificata come l’ignoto delatore e fece in modo che questo avvenisse in via del tutto casuale.
Il farmacista viveva pressoché barricato nel suo negozio e Piero, come qualsiasi persona del paese, non mancava di fargli visita per le sue necessità.
Entrava e ordinava un cachet contro l’emicrania, aggiungendo  “Ho un mal di testa che me la taglierei. Forse anche Giovanni Aristarco soffriva di emicrania”. Si divertiva a guardare l’uomo dall’altra parte del banco che sbiancava e che gli consegnava il medicinale con mano tremante.
Non mancavano poi le minacce anonime, biglietti fatti trovare sulla porta, del tipo “Manchi solo tu.”, oppure “i traditori finiscono tutti male.”.
Era un autentico bombardamento  e l’acme avvenne sotto Natale. Approfittando del fatto che in negozio non c’era nessuno,  Piero entrò con gli occhi sbarrati, fissò il farmacista e disse solo due parole:  a presto.
Per Natale e Santo Stefano il negozio resto chiuso, ma non aprì nemmeno quando finirono le feste, la gente, che necessitava di medicinali, era impaziente e bussava alla saracinesca, senza ottenere risposta.
Fu chiamato il maresciallo dei carabinieri e il fabbro, cioè io, e si decise di forzare la serranda. Così feci e una volta entrati non potemmo che guardare sgomenti il farmacista penzolare da una corda legata a una trave del soffitto. Sul banco c’era un biglietto, vergato con una grafia tremante, con su scritto “chiedo perdono.”.
Ovviamente non ci furono altre vittime, la vendetta era compiuta e Piero venne da me con le lacrime agli occhi, dicendomi: << Dovevo farlo, per mio padre, soprattutto perDiego, ma ora mi sento la bocca amara, come se avessi mangiato del fiele. Guercio, credevo che vendicandomi tutta questa rabbia che mi era nata dentro se ne uscisse senza mai più tornare e invece mi accorgo che ora ho un vuoto che mi rode dentro. Forse è il rimorso, è come se la vendetta avesse colpito anche me. >>
- Posso capirlo. E poi com’è andata a finire’
- Dopo un paio di mesi è andato via. C’è chi dice che è emigrato in Australia, c’è chi invece sostiene che è andato a cercar fortuna, e forse pace, in Canada. Comunque da allora di lui non ho saputo più nulla.
- È partito con la fidanzata?
- No, si erano già lasciati alla fine del 1944. Piero Accorsi era diventato ormai un uomo incapace di amare.
- Una storia triste, che lascia appunto l’amaro in bocca.
- È vero, con tutti quei morti, fra i quali metto anche Piero, morto dentro.
- Beh, si è fatto tardi. Vado a casa. Buona notte.
- Tornerai un’altra sera?
- Lo spero.
- Buona notte amico mio.

Esco, l’aria è opprimente, c’è un puzzo di erba marcia, di materiale biologico in decomposizione. Penso a Piero, che non ho mai conosciuto, e spero per lui che, ovunque sia, abbia ritrovato il senso e il piacere di amare. Affretto il passo, ho bisogno di respirare un’aria diversa, non solo quella gradevole che esce dal climatizzatore, ma un aria che sappia di vita, di speranza, di amena e ineguagliabile serenità  Arrivo alla farmacia ed è aperta per turno. Entro e mi viene chiesto: - Di che ha bisogno?
- Di niente, mi scusi.
E guardo il mio interlocutore, una graziosa biondina che ha un sorriso fra il meravigliato e l’incredulo.
- E allora perché è entrato?
- È una storia troppo lunga, di tanti anni fa, e poi sono sicuro che non la interesserebbe. Mi scusi ancora e buona notte.
- Si riferisce a mio nonno che qui si è ucciso?  Poveretto, all’epoca era già vedovo e aveva perso la testa per una donna che non contraccambiava.
La guardo, la verità non è quasi mai bella e non voglio che altri abbiano motivo di soffrire.
- Sì, una vicenda triste, ormai lontana. Piuttosto, mi sta venendo l’emicrania. Avrebbe un cachet?
Me lo porge, pago ed esco, non senza che ci siamo scambiati la buona notte.
Affretto il passo, si è fatto tardi, è ora che vada a dormire.



Da Storie di paese


1 commento:

  1. Le tue "Storie di paese", Renzo, sono sempre storie speciali, e non sono storie di un paese ma raccontano vite e sentimenti che hanno una valenza universale. Forse è per questo motivo che coinvolgono così tanto e suscitano sensazioni e sentimenti che appartengono ad ogni uomo, ovunque esso viva e in qualsiasi epoca.
    Bel racconto. Denso, profondo e doloroso.
    Grazie.
    Piera

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