giovedì 12 gennaio 2017

Il dialetto veneto a scuola e in tv è legge, di Ferdinando Camon

Il dialetto veneto a scuola e in tv è legge

di Ferdinando Camon




 

"La Stampa" 8 dicembre 2016






Il Consiglio Regionale del Veneto ha approvato a maggioranza una legge che apre la possibilità di applicare i diritti attuati nel Trentino Altro Adige in campo linguistico. La legge è ad alto rischio di bocciatura da parte della Corte Costituzionale. Ma intanto c’è. La stampa locale non parla d’altro. Prevede il diritto di usare il dialetto nelle scuole, nelle trasmissioni Rai, a fondare e gestire scuole, riconosciute dallo Stato, ma di fatto obbedienti alla Regione. È il vecchio sogno degli autonomisti-indipendentisti, un sogno che adesso fa un inatteso, sorprendente e preoccupante balzo verso la realizzazione. La previsione generale è che un secondo balzo non lo farà, perché la Consulta lo boccerà. Ma intanto la Regione Veneto fa questo audace tentativo di affiancarsi all’Alto Adige. In Alto Adige, quando iscrivi un figlio a scuola, devi scegliere se intendi iscriverlo a una scuola di lingua tedesca o italiana o bilingue. Bene, nel sogno della Lega il Veneto porrà la stessa opzione, con la differenza che le tre scelte saranno scuola in dialetto veneto, in lingua italiana o bilingue. L’intenzione della Lega è di solleticare l’orgoglio dei veneti, farli sentire diversi e superiori, inglobati e conquistati, pronti all’autoliberazione, che deve compiersi anzitutto nella sfera della lingua, scritta e parlata. Il dialetto è il nostro dna, la nostra autenticità, la nostra grandezza. Che cose meravigliose possiamo esprimere in dialetto! In lingua italiana non potremo mai. Il dialetto è la nostra verità, la lingua nazionale è la nostra falsità. Soprattutto noi scrittori dovremmo entusiasmarci per questa legge. E soprattutto quelli (che nel Veneto vuol dire tutti) che hanno avuto il dialetto come lingua madre. Riusciamo a entusiasmarci? No. E perché? Perché il dialetto e l’italiano non sono due lingue alternative, che esprimono lo stesso mondo, son lingue diverse fatte per esprimere mondi diversi. Il mondo dialettale non c’è più. Quand’eravamo giovani, tra noi parlavamo in dialetto e non parlavamo che di ragazze, ma ragazza in dialetto padovano era tosa, in veronese putela, al di là di Treviso mula: nessuna di queste era ragazza, come la ragazza italiana. La ragazza dialettale era diversa per vestiti, parlata, cultura, sessualità. Oggi sono tutte ragazze. Vogliamo prendere una ragazza e chiamarla tosa putela? Ridicolo. Lei stessa si offenderà. La mia nipotina, che vive a Verona, mi guarderebbe come si guarda un matto. Mio padre contadino parlava solo dialetto, tornava dai campi sporco lercio, e per lavarsi chiedeva prima il saòn. Il saòn era fatto in casa, grande forza sgrassante, nessuna qualità profumante. Poi chiedeva il sapone. Allora gli si dava il Palmolive. Nessuna capacità sgrassante, ottimo profumante. Adesso vogliamo chiamare il Palmolive saòn? Un insulto, verso il sapone e verso il dialetto. Non è sparito il dialetto, è sparito il mondo dialettale. Altra campagna, altra Natura, altra famiglia, altra madre, altro Dio. Volete far tornare il dialetto? Bene, prima fate tornare quel mondo.


www.ferdinandocamon.it


Quisquiglie di novembre 2016, di Renzo Montagnoli

Quisquiglie di novembre 2016
di Renzo Montagnoli




Una sentenza che mi lascia perplesso




Ho sempre un gran rispetto per l’operato dei giudici; il loro lavoro non é certo facile, sempre assillati come sono dal rischio incombente di sbagliare, però devo dire che qualche sentenza mi ha lasciato perplesso. In particolare mi riferisco all’ultima della Corte di Cassazione con cui é stato assolto l’imam di Andria, imputato di aver commesso il reato di terrorismo internazionale di matrice islamica. Che cosa aveva fatto il religioso? Aveva intrapreso un programma di esaltazione del martirio e di incitamento a raggiungere i luoghi di combattimento per conseguire questo obiettivo. Ora, per quanto sia solo in possesso di una parte della motivazione della sentenza, peraltro pubblicata a stralcio in un quotidiano nazionale, ciò che mi lascia basito è il fatto che per i giudici il reato di terrorismo internazionale non é configurabile senza l’addestramento di adepti da inviare nei luoghi di combattimento. In buona sostanza, si può invitare a uccidere, ma se non si fornisce l’arma, se non si istruisce all’uso della stessa non si commette reato di terrorismo. Questa sentenza, che come noto costituisce un precedente per casi analoghi, è estremamente pericolosa perché di fatto sancisce un diritto che non c’é, vale a dire quello di istigare alla violenza per motivi religiosi. Probabilmente hanno influito sulla decisione della Corte gli immancabili bizantinismi, i cavilli giuridici, un’atmosfera di supina accettazione di uno stato di fatto che deve invece essere combattuto severamente. In passato la benevolenza giuridica nei confronti di particolari soggetti tendenti a instaurare un regime di sopraffazione e di violenza è stata foriera di gravi conseguenze, come nel caso di Adolf Hitler, condannato in verità per il tentato colpo di stato di Monaco, ma a una pena irrisoria. Chi minaccia la sicurezza dell’umanità deve, secondo me, essere sanzionato in modo inequivocabilmente severo; non è possibile che a fronte di una minaccia mortale i bizantinismi abbiano il sopravvento.




La punizione divina




Non poco scalpore ha suscitato la dichiarazione del viceministro israeliano Aooyub Kara, secondo la quale il recente terremoto che ha colpito l’Italia Centrale sarebbe il frutto di una punizione divina per la nostra astensione in sede Unesco sulla risoluzione per Gerusalemme. Ovviamente il Governo d’Israele ha porto subito le sue scuse, ma resta il fatto che in una posizione di notevole responsabilità si trova un soggetto la cui mentalità non differisce sostanzialmente da quella dei fondamentalisti islamici. Purtroppo, appena il 30 ottobre, cioè poche ore dopo il devastante sisma, a Radio Maria se ne è sentita un’altra e cioè che l’evento catastrofico era una punizione divina per aver sancito, ope legis, le unioni civili. Anche qui il Vaticano ha preso subito le distanze, ma ciò non toglie che simili atteggiamenti siano estremamente pericolosi e dimostrino che qualsiasi estremismo, anche di matrice religiosa, è un pericolo per l’umanità. Fra l’altro la citata emittente non è nuova a uscite a dir poco infelici, il che dimostra che non si è trattato di un incidente di percorso, ma che lì alligna non tanto il divino, quanto il maligno. Il concetto di un Dio crudele, vendicativo era proprio di epoche passate, di periodi oscuri per l’umanità, in cui l’inquisizione spadroneggiava, ma si vede che anche oggi ci sono uomini animati dal fuoco religioso; essi credono di dimostrare con il loro comportamento una fede che, probabilmente c’è, ma è del tutto distorta. Dio non può essere che amore e non certo violenza e vendetta, che rientrano invece nei pensieri deliranti di esseri che si sentono, a torto, i suoi strumenti.




Un altro palazzinaro




Contrariamente alle previsioni e ai sondaggi il nuovo presidente degli Stati Uniti è Donald John Trump, di cui si dice un gran male; é un razzista, ha una mentalità gretta tipicamente capitalistica, è uno che si è fatto da sé, che ha accumulato una grossa fortuna soprattutto con operazioni immobiliari non sempre trasparenti, considera le donne come un oggetto. Mi ricorda al riguardo qualcuno, ovviamente facendo le debite proporzioni, uno che ambirebbe essere chiamato padre della patria, ma è che è già tanto se non l’ha distrutta. Non voglio, né intendo fare previsioni, preferendo rilevare come l’avvento del populismo - e Trump é un populista - avviene perché il sistema democratico, che è forse il migliore, si è trasformato, ovunque, in uno oligarchico, caratterizzato da immobilismo, corruzione e lontananza dalle reali esigenze dei popoli. Della originaria democrazia é rimasto solo il sistema elettorale e con questo credo che gli americani abbiamo voluto protestare, dare un segno, uno scossone, per avere alla guida del paese qualcuno che sappia interpretare i loro desideri. Come quasi sempre accade in questi casi, però, il voto di protesta è un voto dato male, così che convinti preferendo Trump di trovare un antidoto ai loro problemi, si sono invece bevuti il veleno, come giustamente ha recentemente detto Bauman. Spero di sbagliarmi, ma vedo un futuro incerto e oscuro, un ritorno a tenebre che parevano scomparse, il trionfo di chi ha già troppo e il dolore di chi è sempre stato un sottomesso, dolore accentuato dalla perdita di ogni speranza.


Lettera a un quotidiano del mattino, di massimolegnani

Lettera a un quotidiano del mattino
di massimolegnani






Egregio Direttore, Gentile Redazione, 
mi vedo costretto a scrivervi per affermare un principio e correggere alcune imprecisioni presenti nell’articolo, comparso due giorni fa sul vostro giornale. 
UN SERIAL KILLER TRA NOI” titolava il pezzo che parlava di tre omicidi irrisolti, che la polizia aveva ricondotto ad una stessa mano. 
Titolo orrendo, il vostro, dozzinale, segno di una o più menti che non sanno porsi domande e preferiscono scivolare via nell’ovvio. Anche con i pochi elementi a disposizione, le identità degli uccisi, i luoghi e le modalità degli omicidi, qualcuno al giornale, se non alla polizia, avrebbe dovuto comprendere che non si trattava di assassinii fatti in serie, ma di singoli pezzi artigianali. 
Credo che non mi si potesse offendere in modo peggiore: IO NON SONO UN SERIAL KILLER. 
Non uccido in serie, non faccio stragi, sapete la sventagliata di mitra che va tanto di moda tra gli assassini patentati e tra quelli improvvisati che sbroccano in un pomeriggio di un giorno da cani o i più aggiornati figli di Allah che si fanno esplodere in metropolitana. No io non ci penso proprio a morire, io opero artigianalmente, con passione, vitalità e cura meticolosa per i dettagli. Ogni morte è un pezzo unico, inimitabile. 
Consideratemi, se volete, un collezionista, alla stregua di chi raccoglie conchiglie sulla spiaggia o bottigliette mignon o gufi di ceramica. Ditelo pure, non mi offendo, anche se mi reputo migliore di loro, più raffinato. 
E poi c’è il cruccio che la mia collezione non esiste se non nella mia memoria ed anche se avessi conservato un particolare di ogni mia vittima, certo non potrei mostrarli agli ospiti alla sera. 
Immagino la vostra obiezione, “Collezionista, che parola grossa per tre morti!” 
Voi non avete idea. 
Diciamo, per aiutarvi a capire, che se fossi il collezionista di gufi in ceramica di cui sopra, bè, non mi basterebbe una fila sul ripiano della mensola per esporre tutti i pezzi. E non ne trovereste due uguali. 
È anche per questo che vi scrivo, perchè sia riconosciuta la numerosità e l’eccellenza della mia collezione. Vi confesso che mi manca questo riconoscimento, anche se ho sempre agito perchè nulla apparisse. Morti passate inosservate, le mie. Tranne quei tre omicidi così evidenti che nemmeno voi potevate fare gli struzzi. 
Come si comincia una collezione? Tranne pochi casi di gente che nasce con la vocazione e dedica la vita come una missione a raccattare tappi di bottiglia o a battere i quattro angoli del mondo in cerca di pacchetti di sigarette rari, gli altri iniziano per caso, per un’occasione che dà l’avvio, senza che ce se ne renda conto. Così io. A dodici anni mia mamma mi ha chiesto di sopprimere i gattini appena nati che già ne avevamo troppi. Io non volevo, ma lei insisteva che ormai ero io l’ometto di casa. Contava su di me. Che potevo fare? Così li misi in un sacco di iuta e riempii il lavandino d’acqua. Contai fino a cento tenendo il sacco sul fondo con le mani che un po’ tremavano. Ancora bollicine, contai un’altra volta cento, più rilassato. Più facile del previsto. E fu anche gratificante, che alla fine la mamma mi accarezzò su una guancia e mi disse bravo, ometto mio. 
La scena mi tornò in mente dopo qualche anno, mentre mi annoiavo al mare. E mi venne voglia di riprovare. Mi guardai intorno, finchè individua una signora anziana, costume nero e cuffia viola in testa, che faceva al caso mio. La guardai entrare circospetta in acqua, aspettai che si spingesse un po’ più al largo, poi mi tuffai anch’io, in un punto distante da lei. Feci un tratto sott’acqua e l’afferrai per un piede. Fin troppo semplice. Partecipai ai soccorsi tentando un’impossibile rianimazione, non certo per un tardivo pentimento ma per regalarmi un brivido supplementare.
Ecco, avevo iniziato la mia collezione. 
Mi diedi delle regole, per coltivare meglio il mio passatempo. Vittime occasionali, mai agire per motivi personali, scena del delitto sempre differente, che è troppo facile agire sempre allo stadio al momento del gol, quando potresti ucciderne mille che nessuno ci farebbe caso (in quell’occasione catapultai un tifoso dal parapetto e lo soccorsero solo al fischio di chiusura), evitare i personaggi in vista e finchè possibile i bambini, che poi la polizia s’incarognisce e ti becchi in sovrappiù l’accusa di pedofilia che fa tanto richiamo sui giornali. Ho ucciso un solo bambino. Un’occasione troppo ghiotta per rinunciarvi: sgambettava per l’autogrill che era già buio, probabilmente sfuggito ai genitori. S’era messo a seguirmi, avendomi forse scambiato per suo zio. L’ho caricato in macchina e l’ho fatto volare giù dal primo viadotto. E soprattutto nessuna bella donna, che quelle attirano gli inquirenti come indecenti, tardivi amanti.
Rispettando queste regole, dare la morte è facile. E diventerebbe quasi noioso, se non ci aggiungessi il pepe della fantasia. Escogitare il modo originale, quella è la vera sfida. Il tempo lungo della preparazione, la morte poi è un attimo, il vignaiolo soffocato tra filari solitari, il meccanico vittima di uno strano incidente al fondo buio del suo garage, l’anziano a passeggio col suo cagnolino lungo l’argine che con un piccolo aiuto scivola nel fiume. 
Di solito uccido la domenica, perchè ho un lavoro impiegatizio che mi tiene occupato in settimana. Solo alla sera ho modo di studiare i dettagli e preparare gli strumenti, la siringa d’insulina, il coltello a serramanico, il cappio. Poi il sabato mi muovo, vado lontano e la domenica agisco. 
E a sera quando torno a casa, mentre sistemo un altro gufo sulla mensola, mi sembra di sentire la mano della mamma che mi regala una carezza sulla guancia, bravo ometto mio.


Un’assurda bravata, di Stefano Giannini

Un’assurda bravata
di Stefano Giannini






Questa storia sconcertante, l’ho raccolta di prima mano dai protagonisti ora già nonni, i cui nomi sono fittizi.
I tempi in cui i personaggi del racconto erano cresciuti furono segnati prima dalla scuola, piena di esaltazione del Duce, del fascismo, della nostra forza bellica, poi dalla guerra, con i suoi orrori e violenze, che avevano negativamente influito sulla formazione di questi ragazzi di campagna, nati lungo i pendii della media Valle del Savio, al centro della Linea Gotica, ultimo baluardo di resistenza dell’esercito nazista.
Era settembre. L’estate del ‘51 era agli sgoccioli. Di giorno faceva ancora molto caldo, ma le serate e le notti erano piuttosto fresche.
I bei ponti sul fiume Savio, fatti saltare nel ‘44 dall’esercito tedesco in ritirata, da pochi mesi erano stati ricostruiti, ed il traffico sulla S.S. N°71, seppur ancora scarso, stava incrementando ogni giorno di più. I camion carichi di legna e merci, le più varie, risalivano e scendevano lenti, la tortuosa strada che collega la Romagna con l’Umbria e la Toscana, oggi surclassata dalla più moderna e veloce E 45.
Quel gruppetto di ragazzi del piccolo villaggio “Casine”, (così erano chiamate undici casette, tutte identiche, fatte costruire nel ‘39 dal Duce per gli sfollati della frana di Sorbano), si trovavano tutte le sere “fuori “, attorno alle case o lungo la scarpata della strada per giocare ai banditi, tirare sassi con le fionde ai pipistrelli che, allora numerosi, saettavano nell’aria, o a spaventare, rincorrendole, le ragazzine che andavano ad attingere acqua alla “fontanaccia” o, sul tramonto, si attardavano a rientrare in casa.
I loro scherzi e dispetti, erano alle volte molto pesanti, quasi cattivi. Qualche volta infliggevano vere torture anche agli animali : gatti, lucertole e quel che capitava.
Per questo, spesso, erano severamente richiamati e puniti dai loro genitori. In quel tempo appioppare qualche scapaccione ai figli scapestrati non era un delitto come oggi, anzi era un mezzo un po’ rustico, ma efficace, per educarli.
Quella sera i “discoli delle casine” con la loro bravata passarono ogni limite.
Sarà stata la rabbia, poiché le vacanze erano finite e l’indomani dovevano ritornare a scuola, sarà stata l’esuberanza dei tredici-quidici anni di ciascuno di loro, comunque sia, il fattaccio si compì.
Il buio era sceso da poco. Le famiglie si erano ritirate nelle proprie case.
Fuori, a fianco della strada statale, “ i masnadieri ” erano solo tre : Pietro, Vittorio e Arnaldo (la banda al completo era composta di cinque elementi). Arnaldo, il capo, (era un ragazzo alto, molto intelligente e vivace, occhi vispi da gatto), disse di aver ideato un piano per dare una lezione ai ragazzi di Montecastello e Mercato Saraceno che sarebbero passati di lì a poco per la strada in bicicletta diretti a Sarsina per andare al cinema o a divertirsi con le ragazzine del nostro paese.
Per convincere Pietro e Vittorio che si doveva punirli proseguì dicendo che: non era giusto venissero da fuori a “rubare” le nostre ragazze e che, alcuni giovani del posto erano stati duramente pestati da quelli di Mercato Saraceno solo perché, in una veglia, avevano osato parlare e ballare con le loro donne.
Quando Pietro intuì che si erano completamente convinti della necessità di dare una “giusta e sacrosanta punizione” a quei “forestieri” che sfoggiavano tanto spregio nei confronti dei paesani, anche per salvare l’orgoglio di campanile affermò che la lezione era da impartire subito quella sera stessa. Così, spiegò il piano, che del resto era molto semplice ; si trattava di sistemare sulla strada (direttrice Sarsina) alcune grosse zolle di terra. Subito furono prelevate in un campo arato nelle vicinanze e dai tre sistemate una a fianco all’altra sull’asfalto. Erano zolle grosse e pesanti, portate sulla strada con difficoltà. Arnaldo e Vittorio espressero qualche perplessità su ciò che potevano causare degli ostacoli così voluminosi. Al’ che, Pietro, con la sua solita sicurezza da “capitano”, spiegò che i pochi camion che a quell’ora transitavano in tale direzione li avrebbero schivati, mentre i ciclisti, quasi tutti senza fanali, non vedendoli, vi avrebbero inciampato e sarebbero forse caduti, ed era ciò che si voleva.
Purtroppo ci fu un’ imprevisto….! I tre ragazzi, alla vista di due fari, apparsi dall’ultima curva che avanzavano sul tratto pianeggiante della statale di fronte alle “casine”, si acquattarono dietro una siepe di alloro poco distante e, silenziosi, assistettero alla scena. Era un grosso camion carico, senza rimorchio, il cui autista si avvide dell’ostacolo solo un’instante prima dell’impatto, d’istinto pigiò forte il freno.
Con gran stridore di gomme, in pochi metri, il camion si fermò.
Prima ancora che l’autista scendesse dalla cabina di guida, si udirono delle urla e lamenti provenire dal retro del camion.
Due ragazzi in bicicletta che, attaccati al camion si stavano facendo trainare, nell’improvvisa frenata, per la forza d’inerzia, avevano sbattuto violentemente contro di esso, ed ora l’autista li trovava a terra sanguinanti e doloranti.
Uno di loro, oltre a varie escoriazioni al viso, ebbe anche una spalla rotta. L’altro riportò ferite ancor più gravi : un polso e il setto nasale rotti, oltre ad un piccolo trauma cranico.
Furono subito soccorsi dall’autista e da altre persone sopraggiunte nel frattempo e trasportati all’ospedale.
I tre “lazzaroni” dopo aver assistito al dramma che avevano provocato e resisi conto della sua gravità, impauriti e rattristati, facendo un largo giro per non essere visti, ritornarono alle proprie case.
Senza proferire parola coi familiari subito si coricarono, ma non dormirono !
All’indomani mattino due carabinieri bussarono alla porta di ognuno di loro intimando ai loro genitori di presentarsi subito in caserma con il loro figlio
Il maresciallo li voleva vedere….!
Qualcuno li aveva notati la sera prima preparare la “ trappola” che poco mancò non fosse stata mortale e aveva suggerito i nomi alle forze dell’ordine.
Effettivamente i due sfortunati ragazzi erano giovani mercatesi che, diretti a Sarsina, avevano approfittato del camion per farsi trainare.
Il Maresciallo, un tipo un po’ strano, con voce grossa snocciolò una lunga ramanzina, rivolgendosi più ai genitori che ai ragazzi e rimarcando la gravità del “delitto” compiuto; concluse dicendo che: avrebbe potuto mandarli tutti e tre al riformatorio dove, a suon di scoppole, avrebbero sicuramente imparato l’educazione ed il vivere civile.
Ma poi, essendo anch’egli padre di un “bravo” ragazzo della stessa età, li perdonava. Però un regalino a ciascuno, perché non dimenticassero, lo voleva fare. I ragazzi gli stavano di fronte in piedi a testa bassa, impauriti e tremanti. Egli, con quelle sue manone tozze e pesanti, sferrò un sonoro ceffone in viso a ciascuno, così su due piedi, davanti ai loro padri esterrefatti, dicendo :“ visto che non siete capaci Voi di educare i vostri figli, vi insegno io come si fa” !
Quello schiaffo, ognuno di loro lo portò impresso addosso per molti anni e forse contribuì veramente a farli maturare, ve lo dice uno che se lo sente ancora bruciare sulla guancia sinistra.


Addio a tutto questo, di Robert Graves





Addio a tutto questo

IL LIBRO. L’autobiografia dello scrittore inglese
Graves, una vita segnata dal sangue della prima guerra




Robert Graves nella sua intensa autobiografia «Addio a tutto questo» (Adelphi pp.398, euro 20, traduzione di Annalisa Carena, con preziosa nota di Ottavio Fatica), ci conduce sia all’interno delle celebri public school inglesi che nelle tragiche trincee della prima guerra mondiale, dove un’intera generazione di giovani venne brutalmente trucidata.
In questa corposa lettura c’imbattiamo, quindi, nei primi ricordi d’infanzia dell’autore, quando la crescita in una famiglia in cui si mescolavano radici irlandesi, danesi e tedesche, fornì al giovane Robert un ambiente nel contempo rispettoso delle tradizioni, ma aperto al confronto e alla discussione, circostanza che regalò allo scrittore una personalità fuori dagli schemi inamidati e convenzionali. Fatto che gli creò  in seguito delle difficoltà con il rigido sistema educativo britannico, contrasto che si acuì col passaggio alla scuola superiore di Charterhouse, dove l’amore per lo studio e soprattutto la parentela germanica, poteva inimicargli i compagni, in un periodo di anni difficili per le forti tensioni estere. A dar sollievo al giovane Robert, la nascita di sincere amicizie e la grande passione per la poesia, cui si aggiunse la pratica del pugilato, espediente efficace per tenere lontani i vessatori e gli aggressivi.
Lo seguiamo anche nel suo primo amore platonico per un compagno più giovane.
Alla fine del liceo, sarà la guerra a far sentire la sua cruenta voce. Il giovane si arruola volontario, nonostante provasse riserve nei confronti del conflitto. E dopo un breve addestramento da ufficiale nel valoroso corpo dei Royal Welsh Fusiliers, ed un difficile servizio in patria, comincia l’avventura della guerra in trincea in Francia, affrontando pericoli e soprattutto mortificazioni dal conteggio implacabile delle perdite umane.
Il giovane ufficiale avrà così modo di vivere la più disastrosa guerra mai sperimentata prima dal genere umano, sostenuta anche dal senso dell’onore e di fratellanza che si crea tra chi è vittima dello stesso destino, consapevole della vacua propaganda giornalistica. Sarà forte la depressione per il senso d’impotenza nei confronti degli insensati massacri.
Anche l’amicizia con il giovane Siegfried Sassoon, con cui condivide la passione per la poesia, sarà un fugace sollievo, in mezzo alla morte che incombe sui campi di battaglia. Il 20 luglio 2016, è una data fatale per il giovane, ormai promosso capitano, quando riportò una grave ferita ai polmoni. Inizialmente creduto morto, comparso nella lista dei caduti, tornò su un treno ospedale a Wimbledon per la convalescenza in patria.
Rischia conseguenze, ritenuto pacifista.
Un po’ di meritata tranquillità gli viene dal matrimonio con la giovane Nancy Nicholson. L’armistizio del novembre 1918 e la nascita di una prima figlia, lo spingono al congedo e alla ripresa degli studi interrotti ad Oxford. Qui conoscerà altri personaggi importanti della cultura inglese e farà amicizia con Thomas Edward Lawrence.
Dopo una sfortunata esperienza commerciale, le difficoltà economiche lo spingeranno in Egitto, per un lavoro che non gli procurerà soddisfazioni.
Il capolavoro di Graves (1885-1985) è in sintesi un commiato alla patria e ad un mondo che si è sbriciolato su campi di battaglia. È l’addio di un’intera generazione che la guerra ha annientato.


Grazia Giordani




Fine turno, di Stephen King




Fine turno
di Stephen King
© Sperling & Kupfer 2016
ISBN 978-88-200-6101-2 € 19,90 Pag. 478






Fine turno è il terzo libro che vede come protagonista il detective in pensione Bill Hodges.
La trilogia è iniziata con Mr Mercedes e proseguita con Chi perde paga.
Ritroviamo i personaggi che ci hanno accompagnato nei romanzi precedenti: il serial killer Brady Hartsfield, ricoverato in stato vegetativo dopo che la collaboratrice di Hodges, Holly Gibney l’ha colpito alla testa, impedendogli di compiere una strage.
Dei tre romanzi questo è il più sovrannaturale, perché, incredibilmente, Brady, nonostante le sue condizioni, riesce a uccidere.
E come ci riesce? Attraverso dei giochi elettronici da lui modificati, induce in una sorta di trance le sue vittime, spingendole al suicidio.
Ha sviluppato la capacità di impossessarsi dei corpi del suo medico curante e dell’inserviente, così da usarli come automi quando deve uscire dalla sua camera.
Hodges lo sospetta, ma non riesce a comprendere come possa accadere tutto ciò.
Inoltre, la fretta preme sulle sue indagini, perché scopre di avere un tumore che lo porterà alla morte.
Il suo ex collega, vicino alla pensione, al fine turno appunto, lo interpella per quest’ultimo caso.
Così, ritroviamo lui e i vari personaggi già conosciuti nei libri precedenti, impegnati in questa lotta senza quartiere contro un nemico subdolo e invisibile.
Quando Hodges morirà, sulla sua lapide, verrà scritto: fine turno.
Come sempre, in un romanzo scritto con perizia e fantasia, da una mano che, nonostante gli anni trascorsi in questa operazione, non è affatto consumata, ma rimane sempre abile e capace; King inserisce qualcosa di vero. Nell’ultima lettera scritta in fondo alla sua opera, ci mette a conoscenza del fatto che, nonostante Fine turno sia un’opera di fantasia, l’alto tasso di suicidi di cui narra, è una realtà in America e nei tanti paesi dove i suoi libri vengono letti.
Il numero per la prevenzione dei suicidi citato è davvero quello da utilizzare negli Stati Uniti: 1-800-273-8255. Mentre per l’Italia è: 199-284-284.
Mi piace molto l’ultima frase con la quale chiude: “Se vi saltano in testa idee del cacchio, per usare un termine caro a Holly Gibney, non esitate e contattarlo. Perché qualsiasi situazione può migliorare, se gliene darete l’occasione”.


© Miriam Ballerini


Il bell'Antonio, di Vitaliano Brancati




Il bell’Antonio– Vitaliano Brancati - Mondadori – Pagg. 234 – ISBN 9788804486329 - Euro 10,50








Opera appartenente alla svolta ideologica e culturale che portò lo scrittore, dopo una prima illusa adesione giovanile, ad una posizione antifascista e ad una produzione letteraria sfociante nella satira politica e di costume. Questi due elementi sono i cardini su cui ruota l’ingranaggio di un romanzo intelligente, vivace, siciliano quanto basta a rendere la meschinità dell’Italia intera, dunque universale.
Antonio Magnano è bello, di una bellezza rara quanto scomoda , le donne gli cascano ai piedi, lui è adulato e ricercato ma spende i suoi anni migliori a cercare in sé il fuoco necessario per alimentare la passione amorosa. Poche volte è giunto al culmine del piacere, è dunque uomo solo in apparenza , pur sentendosi avvampare non può consumare l’atto d’amore neanche quando convola a giuste nozze con Barbara Puglisi a lui destinata in un gioco di alta diplomazia matrimoniale in quel di Catania, in pieno regime fascista, alla ricerca di una giusta posizione sociale. I genitori si affannano a garantirgliela, tronfi della bellezza del figlio e incapaci di dare giusta lettura alla sua apatia, alla sua indolenza. L’onta dell’impotenza nemmeno li sfiora ma giungerà a travolgerli.
Un sottile garbo ironico pervade lo scritto e dona piacevolezza al lettore. Asciutto nelle sequenze narrative, frizzante negli scambi dialogici, il romanzo si fa apprezzare anche per lo stile capace, proprio attraverso i brillanti dialoghi, di restituire atmosfere,sensazioni, convenzioni culturali, etiche, religiose, in una galleria di tipi umani indimenticabili e perfettamente caratterizzati.
In un mondo retto da falsi ideali si muovono le macchiette : chi fa a gara per diventare podestà, chi soggiace al volere del marito, chi fa il vero marito, chi fa il moralista e poi è peggio degli altri. Fra tutti il padre Alfio è indimenticabile e nella sua mascolinità bello ,fiero , vanitoso e tremendamente ridicolo.
Divertente, oserei dire, per siglare in un unico giudizio l’opera che risulta però amara come una menzogna scoperta, come una contraddizione in termini.
Utile la nota finale di Leonardo Sciascia che accosta l’opera all’”Armance” di Stendhal contribuendo dunque ad attivare nuovi circoli letterari in un gioco di continui rimandi.


Siti


Suite francese, di Irène Némirovsky 




Suite francese
di Irène Némirovsky 
Traduzione di Laura Fausin Guarino
Edizioni Adelphi
Narrativa
Collana Biblioteca Adelphi
Pagg. 415
ISBN 9788845920165
Prezzo Euro 20,00




Il super capolavoro




Suite francese é un progetto letterario ambizioso con cui Irene Nemirovsky voleva parlare della seconda guerra mondiale, vivendola giorno per giorno, strutturato in cinque parti (Tempesta in giugno, Dolce, Prigionia, Battaglie, La pace), di cui solo le prime due completate, poichè nel luglio del 1942 fu arresta, in quanto ebrea, e deportata ad Auschwitz, dove morì di febbre tifoide il 17 agosto dello stesso anno. Restano quindi solo di questo poema sinfonico Tempesta in giugno e Dolce, pubblicati postumi in Francia nel 1954, sufficienti però per dare un’idea di ciò che l’autrice voleva rappresentare. Sono entrambi riportati in questa edizione di Adelphi, in cui è possibile cogliere quella continuità che è propria appunto di una Suite. Tempesta in giugno è una serie di quadri con cui si rappresenta il caos magmatico che segue all’invasione della Francia da parte dei tedeschi, mentre Dolce ha più la struttura di un romanzo, con una delicata storia d’amore fra un ufficiale germanico e una signora francese, il cui marito è stato fatto prigioniero. In entrambi i casi, sia pur con motivazioni diverse, ci troviamo di fronte a qualche cosa che trascende il cosiddetto capolavoro, tanto che non riesco a trovarne una definizione, se non quella di super capolavoro. In particola in Tempesta in giugno i vari quadri sono raccordati con una puntualità e una perfezione che oserei definire incredibile; se ci sono dei personaggi emblematici che danno corpo alla narrazione e sullo sfondo troviamo un’umanità impazzita nella fuga, la cura del dettaglio è impressionante, senza che tuttavia venga a costituire un appesantimento che possa nuocere alla lettura. Tutto scorre veloce o lento, a seconda delle circostanze, con descrizioni mirate, con una capacità di ricreare l’atmosfera del momento che consentono a chi legge di vedere le scene, come in un film. A ciò giova indubbiamente uno stile snello e fresco, una frequente nota poetica che smussa, attenua la tensione quel tanto che basta per scorgere gli eventi come una sequenza di fotogrammi. Raramente mi é accaduto di imbattermi in una scrittura così inappuntabile, così concisa e al tempo stesso completa, in una sapiente concatenazione di ritmi senza che vi sia una nota stonata; la sua non è una scrittura, ma La Scrittura, cioè il massimo che ci si possa attendere da un’opera letteraria e se stupiscono e avvincono le trame dei singoli quadri, non si può non porre in rilievo appunto la bellezza di questo stile che da solo attira l’attenzione. Sono non pochi i personaggi principali, la cui psicologia é analizzata approfonditamente e sono, per certi versi, simboli di classi sociali, verso le quali la narratrice dimostra ben poca simpatia, fatta eccezione per il grado più basso della borghesia. Non è infatti un caso se rilucono i coniugi Michaud, modesti impiegati di banca, legati da un tenero e incrollabile amore che li porta a essere totalmente solidali nei momenti dolorosi e nelle piccole e non frequenti gioie della vita; sono minuscole realtà che, tuttavia, nel reggere se stessi finiscono con il reggere l’intera umanità. É quindi solo l’amore - quell’amore che si traduce in un sentimento di totale affetto e condivisione, che è superiore a ogni ricchezza e bramosia di potere - a salvare il mondo, concetto che è sorprendente ove si consideri che Irene Nemirovsky era figlia di uno dei più grandi banchieri dell’epoca, un uomo dalla ricchezza smisurata.
La seconda parte, Dolce, è in un certo senso più convenzionale, con questo lento innamoramento che mai arriverà a un amore reciproco palesemente manifestato, perché troppo grandi sono certe differenze, fra il vincitore e la sconfitta, fra chi, prima di essere uomo, è soldato e colei che, insoddisfatta del marito che si trova in prigionia, non può tradire il suo paese e desidera avere un uomo vero. L’autrice cesella le parole, riesce a rendere perfettamente questi insanabili contrasti che in altre penne sortirebbero ridondanti di retorica, ma che qui invece sono di grande semplicità e naturalezza in quanto propri dell’esistenza.
A qualcuno, come per esempio al sottoscritto, potrà risultare più gradito Tempesta in giugno, ma comunque pure Dolce è un romanzo di assoluto rilievo, una di quelle storie d’amore così realistiche da non sembrare assolutamente frutto di creatività.
Resta da chiedersi come averebbero potuto essere le altre tre parti, ma qui entriamo nel campo delle congetture. Pertanto, l’analisi e il giudizio è forzatamente limitato a queste due prime e mi pare di aver evidenziato abbastanza compiutamente la loro importanza, derivante da valori che non sono solo letterari, ma che si espandono alla storia, alla filosofia e perfino alla sociologia; di ciò che non non ha potuto scrivere, si può dire solo che di sicuro sarebbe stato di estremo interesse.
Dire che il libro sia meritevole di lettura finisce con l’essere un po’ riduttivo; più che consigliarla, credo invece sia mia dovere raccomandarla, lasciandosi trasportare dal ritmo adottato dalla narratrice; per le riflessioni c’è tempo, lasciatele a una indispensabile e ancor più gratificante rilettura.






Irène Némirovsky  (Kiev, 11 febbraio 1903; Auschwitz, 17 agosto 1942).
Figlia di un ricco banchiere ebreo, si trasferì con la famiglia in Francia all’avvento del regime sovietico. Nella sua breve vita scrisse numerosi romanzi di grande successo, sovente pubblicati postumi. Fra questi si ricordano Suite francese, David Golder, I doni della vita, I cani e i lupi, Il vino della solitudine e Il ballo.


Renzo Montagnoli


MondoBlog del 12 gennaio 20\17


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